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domenica 28 agosto 2011

L'Angelo della Morte


La penombra domina su quel lungo corridoio. solo una esile lampada al neon sul soffitto cerca di portare avanti la sua epica battaglia contro il buio. Il rumore ritmico e, diciamocelo, anche un po' fastidioso delle continue scariche di corrente rompono il silenzio perfetto della notte. Provano ad eccitare quel poco gas ancora rimasto nel tubo della lampada, ma è una battaglia persa. Un po' una metafora dell'uomo moderno che vive in una costante guerra contro l'impotenza. Niente eccitazione, niente luce e la battaglia continua estenuante, snervante, inutile.
Di quei cento metri di cemento e piastrelle e porte e sedie e quadri rimane solo l'immagine impressa nella retina che subito dopo l'ennesima scarica sfuma nello scuro abisso della notte. Ombre e riflessi come fantasmi abbandonati si agitano sul fondo dei miei occhi come echi di tutte le persone che sono state qui, che qui hanno trascorso i loro ultimi giorni e che infine sono scomparse. Scomparse come nebbia al mattino e che adesso riappaiono tra gli sprazzi di vita di una lampada moribonda.
Sarebbe ora di cambiare quella lampada, e forse anche le altre due che si sono arrese al buio esalando il loro ultimo sbuffo di gas. Il problema è che dovrei farlo io, dovrei essere io a sostituirle. Ho qui sotto la scrivania le lampade nuove ancora dentro i loro imballaggi originali, mi basterebbe prendere la scala dallo sgabuzzino, svitare i vecchi tubi di neon e installare quelli nuovi. Un lavoretto da cinque minuti appena, ma questo significherebbe dire addio ai miei fantasmi, ai miei echi, alla mia vita. Quindi me ne rimango qui sdraiato sulla mia poltrona in poliestere e metallo, coi piedi appoggiati sul bancone a godermi lo spettacolo delle anime danzanti.

Qui di anime ormai ce ne sono davvero troppe. Se mi fossi preso la briga di raccogliere in una bottiglia, ampolla o barattolo le ultime esalazioni di tutti i pazienti che sono morti in queste camere, probabilmente adesso avrei una cisterna piena di anime. Una sorta di salvadanaio della vita umana, una raccolta degli ultimi istanti terreni delle migliaia di persone che qui sono venute a morire.
Il reparto Hemerton del Memorial Hospital non è un posto dove si cura la gente. Oddio, dipende da cosa voi intendiate per 'curare'. Qui vengono ricoverate tutte quelle persone per le quali non è più possibile fare nulla. Malati terminali di cancro, pazienti con malformazioni cardiache gravi che non sono risultati idonee al trapianto e così via, la lista è lunga. Dite una malattia grave e io l'ho vista. Abbiamo anche la sezione riservata alle malattie infettive gravi. Nel momento in cui varchi la soglia di questo corridoio hai già il cartellino bianco attaccato all'alluce del piede con sopra il tuo nome, la tua data di nascita e il mese e l'anno della tua morte. Manca solo il giorno, quello è variabile, ma di solito, se arrivi qui, non ti restano più di cinque o sei giorni di vita. Anche meno se io sono di turno.

E' la vita, l'intollerabile legge della vita: si nasce, si vive, si muore, cambiano solo le modalità. Nessuno può sottrarsene, si può solo sperare di vivere in maniera decente e morire senza troppo dolore, cose che qui di solito non si vedono, e quindi i fantasmi si accumulano e le anime si mischiano e si conpenetrano con l'aria appesantita e dolciastra che ogni notte continuo a respirare.
Odore pungente di pelle rancida che si mischia alle essenze di mughetto. Odore acre di vomito che si annulla nel profumo di pino selvatico. Odore metallico di sangue che si dissolve nell'aroma di violette. L'unica cosa che è rimasta da curare qui sono gli odori, e anche quello lo si fa più per i familiari che per i pazienti, per creare l'illusione che il caro estinto stia bene. Col pannolone pieno di merda fumante, con i polmoni pieni di liquido ormai viscoso, con lo stomaco pieno di ulcere e sangue, ma almeno non puzza, e tanto basta alla gente per rasserenarsi, per avere la forza di sorridere. La forza di sostenere il senso di colpa per quel distaccato disinteresse che progressivamente prende forma nei confronti di chi un tempo si è amato, odiato, sopportato e che ora è poco più di un impegno trascurabile su una agenda dimenticata chissà dove.

E' una reazione normale, un po' come andare a portare i fiori sulla tomba di uno che da questo reparto è già uscito. Poco più di un rito per sentirsi la coscienza a posto, per darsi l'illusione di non aver dimenticato. La sofferenza, quella vera, quella con le lacrime e i songhiozzi, con la disperazione che ti osplode dagli occhi e dal naso, quella la gente l'ha già vissuta. Un giorno arriva un dottore, uno vero, non come quelli che si aggirano per questi luoghi. Arriva e ti comunica che tua madre, tua nonna, tuo fratello o tuo figlio verranno spostati qui da noi al quinto piano. Ti dice che lo fanno per metterlo più a suo agio, per dargli conforto in questi ultimi momenti e tu all'inizio non capisci, pensi quasi di aver vinto alla lotteria. Gli daranno una stanza più grande che non dovrà condividere con altri pazienti. Avrà grandi finestre che daranno sul cortile interno e sul roseto. Avrà la TV e il bagno privato. Avrà tre pasti al giorno e su ordinazione. Quello che non ti dice ma che dopo poco capisci da te è che potrà godere di questo paradiso solo per pochi giorni, poi il letto verrà rifatto, le lenzuola verranno lavate, la composizione floreale sul davanzale verrà cambiata e un altro paziente occuperà la camera.

Nel momento in cui questo pensiero si fa strada nella tua testa, la consapevolezza di aver perso il tuo caro diventa una certezza. Quei pochi chili di carne e ossa sono solo il ricordo della persona che era un tempo e che ormai ti ha abbandonato. Da lì alla disperazione il passo è breve. Abbiamo uno psicologo interno che si guadagna lo stipendio semplicemente cercando di dare conforto ai vivi, mentre noialtri del reparto Hemerton cercheremo di dare conforto ai morti. E io questa missione l'ho presa sul serio. L'ho sposata e amata da quel lontano giorno di quattro anni fa.

La prima volta è sempre un incidente, mi avevano avvisato, ma pensavo fosse la solita solfa che si dice per spaventare i novellini. Sbagli a dosare la morfina, dimentichi di controllare che non ci siano bolle d'aria nella siringa, agganci male la sacca nuovo con la fisiologica. Capita a tutti, è un po' un iniziazione il tuo primo omicidio. Beh, non è proprio questo che viene scritto sul certificato di morte. Cause naturali. E' questo che diciamo ai parenti e loro di solito non fanno storie, non piangono nemmeno, erano già preparati. Dopotutto non è un grave errore, al massimo hai rubato un paio di giorni di vita ad una persona che non li avrebbe vissuti. Come rubare i broccoli dal piatto di un bambino, difficilmente nessuno se ne lamenterà, soprattutto non il bambino.

Nel mio caso dimenticai di aprire la bombola dell'ossigeno. Il respiratore si bloccò e madre natura fece il resto. Quando me lo dissero rimasi agghiacciato. Ero lì da pochi mesi e mi aspettavo una lavata di testa epocale e invece ricevetti solo una pacca sulle spalle e alcune parole di conforto. Cose che capitano. Rimasi ore a fissare quel corpo esanime che non voleva saperne di ricominciare a respirare. Mi aspettavo odio e ricevetti gratitudine. La nipote arrivò nel pomeriggio, cercai di spiegarle cosa era successo, mi sentivo in colpa ed ero pronto a costituirmi. Lei mi guardò con i suoi profondi occhi blu, si scostò una ciocca di capelli biondi da davanti alla bocca e con quelle labbra carnose pronunciò una parola che mi rimase scolpita per sempre nell'anima: "Grazie".
Non una lacrima, non un singhiozzo, neanche un insulto, solo un profondo e sincero ringraziamento. Avevo dato la pace ad una persona che se lo meritava. Cos'avesse fatto per meritarlo non l'ho mai saputo, ma io l'avevo salvata. Sono cose che ti segnano e che ti cambiano. I sensi di colpa erano spariti, come lavati via dal vento. Rimorsi, rimpianti, paure, tutto scomparso, come l'anima imprigionata in quell'ammasso di pelle e tumori. La mia prima anima. Mi sentivo onnipotente, mi sentivo realizzato. Avevo trovato il modo di adempiere alla mia missione, il mio modo di aiutare la gente.

Per definizione un serial killer è uno che ammazza la gente, ma quelli che arrivano qui sono già morti, quindi non è un vero e proprio omicidio, è più un modo per accorciare i tempi. Come quando si trova una soluzione per evitarsi di riempire montagne di scartoffie. Come quando si cerca di preparare un esame difficile studiando solo le dispense e i riassunti fatti da altri. La gente muore, è un dato di fatto, l'unica vera legge alla quale non si può sfuggire. Il vero assassino si macchia della colpa di aver sottratto l'esistenza o parte di essa a persone che avevano ancora qualcosa da dare al mondo o alla gente che li circonda e che li ama, li odia, li sopporta. Io qui non sottraggo niente a questi pazienti, non hanno più niente da dare al mondo se non escrementi e vomito. Anche i parenti delle mie vittime non si sentono privati di nulla, quello che avevano da perdere lo avevo già perso. Hanno solo bisogno di poter voltare pagina e io do loro il modo di farlo, di ricominciare a vivere la loro vita e di risparmiarsi altri giorni di affanno e di depressione. Sono loro i miei pazienti, quelli che a conti fatti posso davvero curare. Dopo il mio speciale trattamento ritornano a respirare, a sorridere, a vivere. Io do loro una nuova esistenza, e ogni tanto ci rimedio anche qualcosa. Il più delle volte una scatola di cioccolatini, un mazzo di fiori o un maglione, ma a volte anche qualche soldo e persino una scopata di straforo nello sgabuzzino. Negli ultimi quattro anni ho imparato ad amare questo lavoro.

***

Il quadro di segnalazione prende vita all'improvviso. Sotto il numero 14 inizia a lampeggiare furiosamente una luce bianca. Devo essere sincero, so a cosa serve quel quadro, ma mai lo avevo visto attivo, non ero neanche tanto sicuro che funzionasse. Di sicuro di giorno servirà a qualcosa, le infermiere vengono chiamate di continuo dai parenti dei cadaveri qui ricoverati per qualsiasi tipo di inezia, dal cambio del pannolone all'acqua per i fiori. Ma mai era capitato durante il turno di notte di vedere quel quadro illuminarsi.
Prendo la cartella con la lista dei degenti. La mia personale lista delle cose da fare, o meglio, delle persone da 'aiutare'. Scorro lentamente tra i nomi sul foglio e sul quale ancora non ho scritto il giorno e l'ora del decesso. Casualmente muoiono tutti durante il mio turno. La signora Perez ha ricevuto ieri la sua dose di varecchina. Il signor Joden ci ha lasciato col sapone per i pavimenti. Hellen della numero 6 ha scoperto che la CocaCola è meglio berla piuttosto che averla in circolo nel sangue. Il povero signor Rupert della stanza 9 credo abbia avuto qualche problema con delle bollicine d'aria nelle vene. La stanza numero 13 è il mio fiore all'occhiello, la signora Jensen si è ritrovata un grammo sano sano di acido lisergico nella sua fisiologica. Prima di morire si deve essere fatta uno di quei trip che neanche posso sognarmi.
La maggior parte dei nomi neanche me li ricordo. Sono solo numeri su una lista di cose da fare. C'è chi va a fare la spesa e chi dispensa morte, ad ognuno la sua specialità. Eppure il 14 proprio non me lo ricordo, la signora Madison ancora non ha avuto il piacere di incontrarmi e adesso sembra che abbia fretta di conoscermi.

La luce del quadro continua a lampeggiare insistentemente. I miei occhi ormai abituati ad una vita in penombra iniziano a fare male abbagliati da quella misera lampadina. Vediamo cosa vuole. Camminare per questi corridoi fa un certo effetto, nel silenzio quasi totale i miei passi sembrano quelli di un elefante nella savana. Il rumore da al cervello e sembra di camminare nel braccio della morte di un penitenziario nel giorno dell'esecuzione, sensazione che, per inciso, prima o poi temo dovrò provare. L'iniezione letale sarebbe l'ideale, quasi poetico, il classico cerchio che si chiude. Devo ricordarmi di proporlo al giudice che dovrà emettere la mia condanna, nel frattempo sarò io a decidere di che morte dovrà morire la signora Madison.
La stanza all'interno è buia e silenziosa. La porta si apre lentamente con un leggero cigolio. Mi aspetto da un momento all'altro le luci che si accendano e un nutrito gruppo di persone mi urla: "Sorpresa!" Poi però mi accorgo che sono tutti in divisa e con le pistole puntate verso di me. Devo decisamente rivedere il mio concetto di senso di colpa, non sono più tanto sicuro di non averne.
Con un filo di voce sussurro "Signora Madison?"
"Finalmente!" l'urlo arriva dall'altro lato della stanza e mi trapassa il cranio. Sento distintamente il mio cuore perdere diversi colpi, la testa gira mentre i brividi percorrono i miei muscoli improvvisamente tesi. Le vertigini sono la naturale risposta dell'organismo a qualcosa di imprevisto, inatteso e, soprattutto, indesiderato. Che sia un virus o qualcuno che ti fa prendere un colpo, la prima reazione è quella di sentire il pavimento girare mentre si perde l'equilibrio. Maledetta signora Madison.

Cerco con la mano l'interruttore e accendo la luce. La signora Madison è dall'altra parte della stanza nel suo letto che si copre gli occhi con un braccio.
"Che bisogno c'era di accendere la luce?" mi chiede con quel tono perentorio che non vedo l'ora di soffocare.
"Come potrei assisterla se non riesco a vederla?" rispondo io col tono più pacato che mi riesce.
"Non ho bisogno della sua assistenza" questo lo dice lei, a breve cambierà opinione.
"Allora come mai mi ha chiamato?" un po' di inutile conversazione non fa mai male, di solito i miei 'pazienti' sono tutti in coma o addormentati o ridotti a qualcosa di estremamente simile ad un vegetale.
Afferro la cartella clinica agganciata ai piedi del letto e scorro velocemente tra le varie note. La signora ha un tumore al pancreas con metastasi estese. Soffre di itterizia e arteriosclerosi. Perfetto, abbiamo nonna Simpson qui. Direi che la mia cura prevederà una soluzione di perossido di idrogeno al 30%. Nelle sue vene ci saranno dei veri e propri fuochi d'artificio. Una bella emolisi e tanti saluti alla signora Madison. Dovrebbero farmi impiegato del mese.

"Non voglio sapere di cosa sto per morire, lo so già" non mi piace ripetermi, ma questo lo dice lei, a breve cambierà opinione. 
"Voglio solo sapere se Jonathan è passato a trovarmi" e qui la sua voce si affievolisce, lo sguardo si abbassa, le guance si increspano come se fossero leggermente risucchiate all'interno della bocca, sulla fronte una fittissima ragnatela di rughe si contrae. Se al corso d'arte, uno dei tanti che ho abbandonato a metà, mi avessero chiesto di dipingere la tristezza, l'avrei rappresentata così.
Per queste cose paghiamo uno psicologo, non sono certamente io la persona più adatta a consolare un paziente, al massimo potrei dare una ripassatina alla nipote, ammesso che ce l'abbia e ammesso che sia carina, mah, in realtà non è così necessario che sia carina, mi basta sia disponibile. Devo ricordarmi di chiederle se ha una nipote, o forse potrei scoprirlo dalla cartella clinica.
"Adesso controllo" le dico e intanto mi faccio un po' di affari suoi, ma delle tante informazioni inutili riportate, nella cartella non trovo niente su parenti o visite. Niente nipotina ne informazioni su questo Jonathan.
"Jonathan sarebbe..." lascio morire la voce con la classica intonazione che nel linguaggio universale significa: completa la frase stupida vecchia. Alzo lo sguardo dalla cartella per sollecitare una risposta, ma lei non se ne accorge, con gli occhi rossi e lividi ormai è persa nei suoi ricordi, o almeno quei pochi che le restano.
"Jonathan è mio figlio" risponde lei con un filo di voce increspata dal pianto.

Appoggio la cartella al suo posto e mi avvicino al letto. Le chiedo "Ha per caso il suo numero di telefono? Posso provare a rintracciarlo" ma non ricevo risposta. Un rivolo di bava scende lentamente lungo la sua guancia e il suo respiro lento e regolare indica che si è addormentata. Adoro gli arteriosclerotici.
Beh, questa donna non si ammazzerà di certo da sola, qualcuno dovrà pur farlo, quindi vado in bagno a prendere l'acqua ossigenata. Mentre armeggio nel mobiletto dietro lo specchio alla ricerca del barattolo giusto, una confezione di pillole mi cade e si rovescia a terra. Tante piccole pastiglie si sparpagliano ovunque sul pavimento del bagno.
"Jonathan, sei tu?" la voce della signora Madison arriva un po' a singhiozzi. Mi affaccio dal bagno per tranquillizzarla e nonappena mi vede le pupille le si dilatano quasi nascondendo le sue iridi argentate, la fronte le si distende per quanto le rughe riescano a permetterle, le guance si tirano indietro creando due piccole fossette, le labbra le si tendono fino quasi a creparsi. Se al corso d'arte mi avessero chiesto di dipingere la felicità, l'avrei rappresentata così.

"A dire il vero io..." provai a dire lasciando morire la voce e accennando a voltarmi verso il bagno. Gesto che nel linguaggio universale significa: e adesso che mi invento?
"Accidenti, mi hai fatto proprio sospirare, avevo così voglia di rivederti prima di tirare le cuoia" neanche raccogliendo tutto il cinismo e l'astio nei confronti della vita che mi scorre nelle vene riesco a disilludere tutta quell'aspettativa. Per la prima volta ho l'occasione di curare almeno l'anima di uno dei miei pazienti, dei miei fantasmi. Certo magari eviterò di scriverlo nel curriculum, ma potrebbe essere un modo interessante per ammazzare almeno la noia.
"Scusami... mamma... c'era traffico" non sono mai stato bravo ad inventare balle.
"Oh, non ti preoccupare, l'importante è che tu sia qui adesso. Vieni a sederti" e con la mano indica la sedia accanto al letto. Lentamente esco dal bagno e con il barattolo di acqua ossigenata ancora in mano mi dirigo verso la sedia. Accanto a me, sul comodino, alcuni effetti personali della signora ed una foto incorniciata. La prendo e la guardo distrattamente, è la foto di un bell'uomo giovane in giacca e cravatta, probabilmente Jonathan. Jonathan, Jonathan, Jonathan. Perché mi ricordo questa faccia? Se ne ho memoria io non è buon segno. Difficilmente mi capita di incontrare gente al di fuori dell'ospedale. Coi turni che faccio, durante il giorno dormo e le notti le passo sempre qui dentro. Vita alienante ma tranquilla. Non mi piace la confusione del mondo esterno, preferisco la pacata calma dei miei fantasmi. Jonathan, dov'è che ti ho già visto?
"Ancora trovi il coraggio di prendere la macchina dopo quel brutto incidente? Te l'ho detto un sacco di volte che devi andare in giro con i mezzi pubblici" questo spiega tante cose. Buffo, il parente che stavo per curare in realtà è già stato mio paziente. Jonathan l'ho ammazzato io.

La luce rende lucido il vetro della cornice e il riflesso del mio volto si sostituisce all'immagine di Jonathan. Il mio sguardo è vitreo, quasi inespressivo, la barba incolta, le mascelle serrate e le orecchie arrossate. Se al corso d'arte mi avessero chiesto di dipingere i sensi di colpa è così che li avrei rappresentati. Il peso delle mie azioni, delle mie certezze e delle mie convinzioni è improvvisamente troppo grande da sorreggere. Le vertigini sono la naturale risposta dell'organismo a qualcosa di imprevisto, inatteso e, soprattutto, indesiderato. Faccio per posare la foto sul comodino ma manco l'obiettivo e la cornice si infrange per terra. Jonathan continua a sorridermi attraverso i frammenti del vetro.
"M-mi dispiace, non volevo... mi è scivolata".
"Oh, non ti preoccupare, adesso che sei qui non mi serve una stupida foto" dice lei. Io non riesco a fissarla negli occhi e non riesco neanche a balbettare nulla. Non riesco a vederlo, ma percepisco il suo sorriso benevolo, il sorriso ignaro del male che le ho fatto. Cerco di farmi forza e recuperare la lucidità. In mano ho ancora la boccetta di perossido di idrogeno. La morte è un vincolo universale, prima o poi tutti gli andiamo incontro e nessuno vi si può sottrarre. Non credo in un aldilà ne nella reincarnazione, ma il cerchio si deve chiudere e volente o nolente è mio dovere far ricongiungere la madre al figlio perduto. Almeno è quello che mi ripeto come un mantra per convincermi che quello che sto per fare è giusto e corretto. Allora perché le mani mi tremano mentre prelevo il liquido trasparente con la siringa? Una goccia mi bagna il dorso della mano e mi chiedo come abbia fatto a versare il contenuto della boccetta senza accorgermene, alla fine mi rendo conto che non è acqua ossigenata ma una lacrima, una mia lacrima.

"Perché piangi piccolo mio?" mi chiede la signora Madison.
"Perché devo fare una cosa, ma non sono sicuro di volerla più fare" le parole mi escono da sole dalla bocca. Piango come un ragazzino che si è appena sbucciato un ginocchio e abbasso la testa fino ad appoggiarla sul materasso. Sento frotissimo l'odore acre di bile e pelle morta, mi chiedo dove sia l'essenza di mughetto. La mano della signora accarezza i miei capelli radi e riesco a sentire il suo tepore che mi scalda fin dentro l'anima.
"Quando avrai fatto questa cosa potremo finalmente stare insieme per sempre, giusto? Allora che aspetti?" Mi alzo a guardarla negli occhi. Vivi e vispi come non ne avevo mai visti in questi letti. Lei non è un mio paziente, non deve essere un mio paziente, non voglio che sia un mio paziente, ma non ci si può sottrarre alla legge della vita e della morte. Nessuno è immune dal decadimento, non ci sono sensi di colpa che tengano. Il respiro si fa lento, la forza abbandona il corpo e poi c'è soltanto l'oblio. Potrei scappare da tutto questo, voltarmi, cambiare lavoro, tapparmi in casa per il resto dei miei giorni, eppure è più forte di me. Quando ti spingi oltre un limite ormai non puoi più tirarti indietro e ripensarci. Sono un drogato in cerca della sua dose di morte. La sensazione di onnipotenza e superiorità che ti si scarica nel cervello quando sai di essere il responsabile della vita e della morte altrui, questa è la mia droga, questa è la mia vita. Una vita che non voglio più, che non riconosco più, che devo combattere. Ma cosa cambia poi? Questa donna morirà comunque tra qualche giorno perdendo ogni barlume di dignità.
Ci risiamo. Prima avevo gli altri a giustificare le mia azioni e ora mi giustifico da solo. Sono un caso disperato. E mentre lo stantuffo della siringa spinge la soluzione letale nella flebo, la signora mi sorride e mi dice "Grazie".


venerdì 31 dicembre 2010

Buon Anno!

Ho passato gli ultimi giorni a spremermi le meningi per farmi venire in mente una storia per uno special di capodanno, ma alla fine non sono riuscito a trovare nessun idea buona. Ho in mente diversi racconti per altri episodi speciali, ma nessuno che si sposi con la festività del capodanno. Inoltre in questi giorni c'è stato un notevole calo delle visite sul blog, quindi deduco che siate un po' tutti indaffarati tra panettoni e regali e probabilmente molti non avranno avuto il tempo di leggere neanche lo special di Natale, quindi alla fine ho preferito festeggiare la fine dell'anno scrivendo un nuovo capitolo del libro. Un capitolo abbastanza importante tra l'altro e con il quale abbiamo raggiunto quota 200 pagine!!! Come potevo festeggiare meglio la fine dell'anno?
Auguro a tutti un buon anno e una buona lettura!

Ci vediamo nel 2011 ;-)


mercoledì 29 dicembre 2010

Tecnica di Scrittura Top-Down

Quello che vorrei fare in questo post è parlarvi di come mi approccio alla scrittura, del mio metodo e di come ci sono arrivato. Ovviamente ci tengo a sottolineare che questo è il mio metodo, quindi potrebbe non risultare adatto a tutti. Ognuno si rapporta alla scrittura nel modo in cui si sente più a suo agio. Resta il fatto che se qualcuno ancora non ha trovato il suo metodo o magari è solo curioso di conoscere il mio, potrebbe trovare interessante quanto ho da dire.

Chi mi segue fin dall'inizio saprà che di lavoro faccio il programmatore. In un certo qual modo anche lo sviluppo di software ha un ché di artistico, o per lo meno così è quando si ha una certa libertà di azione. Programmare stimola molto la creatività ed è una sorta di punto di incontro tra la risoluzione di problemi matematici e la scrittura creativa come quella che potete leggere in queste mie pagine. Allora la domanda vien da sé, come si legano le due cose?
Effettivamente il lavoro di sviluppo influenza molto il mio metodo di scrittura, tanto che potrei dire di approcciarmi alla stesura dei capitoli con la stessa tecnica con la quale programmo.

Facciamo un passo indietro. Una piccola dissertazione informatica necessaria ad introdurre l'argomento. Ancor prima di scrivere il codice che darà vita ai programmi che ogni giorno girano sui vostri computer, un programmatore deve affrontare una lunga fase di progettazione. In realtà questa fase è la parte più consistente del lavoro perché, una volta terminata, il software in pratica si scrive da sé. Non importa che linguaggio si decida di usare per lo sviluppo, durante la progettazione il software viene analizzato in ogni sua parte e viene organizzato il lavoro che dovrà essere fatto -non come dovrà essere fatto, verrà solo identificato quale è il lavoro da fare- quindi questa metodologia può essere applicata a qualsiasi campo, dalla scrittura creativa all'organizzazione di una cenetta a lume di candela alle vacanze estive con gli amici.

Nello specifico, esistono due metodi principali che vengono utilizzati per la progettazione del software: la Bottom-Up e la Top-Down. Come suggeriscono i nomi, quello che cambia è il senso in cui si decide di muoversi.
Nella programmazione Bottom-Up si parte da un livello di astrazione molto basso, ovvero più vicino al codice macchina e meno orientato alla fruizione, per poi procedere aggiungendo funzionalità che man mano rendano il software adatto all'utilizzo da parte dell'utente finale. Questo tipo di progettazione è utile quando si intende realizzare software di ampio respiro, con finalità generiche e molteplici applicazioni. Si prenda per esempio un sistema operativo come Windows o Linux, la progettazione parte necessariamente dal basso, ovvero dal kernel che è a tutti gli effetti il cuore del sistema operativo e che permette la comunicazione diretta del software con la macchina. Una volta realizzato il cuore, si passa ad aggiungere gli altri organi, i programmi che forniranno le varie funzionalità al sistema ed infine si realizzerà un'interfaccia grafica che permetterà all'utente di gestire il tutto.
Al contrario, la programmazione Top-Down è orientata a software più 'piccoli' di cui si conosce fin dall'inizio la finalità. In questo caso si parte da un'idea e si cerca di trasformarla in realtà procedendo per suddivisioni. Come quando in matematica si scompone un problema per ricondurlo ad operazioni basilari e quindi di semplice soluzione, anche in informatica si cerca di suddividere il software in blocchi sempre più piccoli definendone man mano le connessioni tra le varie parti e rendendo il processo di sviluppo facile e immediato. Questo è il tipo di approccio che utilizzo per scrivere e di cui voglio parlarvi.
Di seguito vi riporterò le varie fasi che partono dall'idea iniziale fino ad arrivare alla stesura del singolo capitolo utilizzando i passi della programmazione Top-Down.


Lo Scopo (Le Idee)

Per scopo in informatica si intende la finalità del software. Nel nostro caso, la finalità che vogliamo raggiungere è scrivere una storia, quindi come prima cosa dobbiamo avere delle idee ben chiare in mente. Non dobbiamo necessariamente conoscere ogni vicenda che porterà dal prologo all'epilogo, in questa fase non ci interessa neanche sapere chi sono i personaggi e cosa faranno. L'unica cosa sulla quale dobbiamo focalizzarci è l'idea.
Una storia nasce sempre da un'idea, che sia vaga o specifica non importa, l'unica cosa che conta è che sia nostra, che la sentiamo dentro e che sia per noi fonte di ispirazione.
Nel mio caso l'idea era quella di un mondo dove convivessero magia e tecnologia e che per una qualche ragione queste venissero separate in modo da non potersi più incontrare.
E' molto generica e a questo punto non si può ancora identificare un racconto, ma è la tela sulla quale dipingere la nostra storia.

Lo Scenario (L'Ambientazione)

Questa è la fase in cui la storia viene 'sbozzata'. L'idea viene applicata in maniera concreta e viene dipinta l'ambientazione del romanzo. In informatica, il significato del termine scenario è un po' diverso da quello che si intende comunemente. Ci si mette nei panni dell'utente e si definisce cosa ci si aspetta dal software. In un programma di video-scrittura, l'idea è di avere uno strumento che permetta di scrivere dei testi, lo scenario è l'interfaccia che ci permetterà di farlo. Ovviamente a questo punto l'interfaccia è solo ipotizzata, il più delle volte non assomiglia per nulla a quella finale che verrà proposta all'utente, ma serve da linea guida per ottenere il risultato.
Avendo a disposizione una bozza di interfaccia, si può immaginare quali azioni vorrà compiere l'utente e quindi iniziare a suddividere le varie funzionalità. Nel nostro caso questo aiuto ce lo fornisce l'ambientazione. Descrivere nella maniera più accurata possibile il mondo all'interno del quale si muoveranno i nostri personaggi ci aiuterà a dare forma alla storia. Badate bene che a questo punto non ho ancora definito cosa dovrà accadere nella storia, ma so in che modo potrà evolversi e posso quindi iniziare a delineare una serie di avvenimenti che potrebbero accadere e ho definito le regole alle quali dovranno sottostare i personaggi.
Ci sarebbe molto da parlare sulle regole, ma finirei per scrivere un altro libro. Diciamo che come nella vita di tutti i giorni, ci sono alcuni aspetti che sono indipendenti dalla nostra volontà e che dobbiamo semplicemente accettare. Ogni giorno il sole sorgerà e tramonterà, la forza di gravità sarà sempre uguale, l'arsenico è una sostanza tossica e l'ossigeno è una necessità per sopravvivere. Non dico che dovrete creare tante regole quante ne esistono nel mondo reale perché altrimenti impazzireste, ma vanno fissati alcuni punti sui quali bisogna essere rigidi e coerenti. Nella mia storia le persone che vengono dal mondo della tecnologia non possono fare uso di magia e viceversa (se a qualcuno è venuto in mente Elliot, vi rimando al capitolo delle eccezioni). Una volta create delle regole generali, si possono definire delle regole più piccole e soggette a restrizioni, come ad esempio nel caso di Kaila che, essendo una discendente degli Edori, ha il potere della preveggenza. In questa fase possiamo definire cosa esiste e cosa non esiste nel nostro mondo -elfi, nani, vampiri, licantropi, mutaforma, cervi con le ali, etc...-, cosa è possibile e cosa non lo è -volare, teletrasportarsi, saltare da una torre senza morire spiaccicati, viaggiare nel tempo e nello spazio in una cabina blu, etc...-
Una volta definite le regole si avranno a disposizione tutti gli strumenti per iniziare e delineare una storia vera e propria.

Casi d'Uso (La Storia)

I casi d'uso sono delle descrizioni sommarie di cosa gli utenti faranno con il software, di come si muoveranno all'interno dello scenario e di cosa ci si aspetta come risultato. Eccola qui la nostra storia. Ora che abbiamo delineato il mondo in cui questa si svolgerà, è giunto il momento di trasformare la nostra idea in qualcosa di più concreto. Ovviamente anche in questa fase non ci servono i dettagli degli avvenimenti, ci basta sapere in maniera per sommi capi cosa vogliamo raccontare e come vogliamo raccontarlo. Butteremo giù poche righe per descrivere la storia, una sorta di riassunto o sinossi che poi andremo man mano ad affinare.
In questa fase può anche avvenire una prima suddivisione. Per identificare i casi d'uso infatti si definisce cosa un utente potrà fare in una determinata schermata, ma non è detto che il lavoro completo potrà essere ricondotto all'interno dello stesso caso d'uso. In poche parole è questo il momento di definire come organizzare la storia in macro-sezioni, libri, saghe o quello che meglio si adatta al nostro genere. A questo punto sarà necessario scrivere accanto alla sinossi della storia completa anche le sinossi dei singoli libri o sezioni mantenendo ben presente la storia generale. In questo modo potremo concentrarci sulla prima parte della storia avendo però un riferimento a ciò che dovrà accadere sia in senso generico sia nello specifico nelle macro-sezioni successive (ad esempio potremo far accadere un evento nel primo libro e spiegarlo solo nel secondo, così si crea curiosità e aspettativa nel lettore). Personalmente cerco di non esagerare, perché ogni parte della storia avrà bisogno di un finale che lasci il lettore soddisfatto, altrimenti potrebbe decidere di non leggere il seguito.

Funzionalità (Gli Eventi)

Ogni caso d'uso dovrà fornire diverse opzioni all'utente fornendo così una prima suddivisione in funzionalità. In questa fase di scrittura, riconduciamo la storia ad una serie di eventi. Gli eventi non sono altro che momenti in cui accadono fatti che definiranno l'evolversi della storia. E' utile creare un vero e proprio diagramma di flusso in cui tutti gli eventi sono descritti brevemente e in ordine cronologico, così da avere una scaletta da seguire in fase di scrittura. Il concetto alla base della programmazione Top-Down è di avere un quadro generale ma di specializzarsi sui singoli oggetti di sviluppo. In pratica la cosa più importante è concentrarsi di volta in volta sul singolo evento. E' per questo che definendo una scaletta si dovranno descrivere tutti gli intrecci che avverranno nel libro, così quando si inizierà a scrivere la storia si avranno già a disposizione tutte le informazioni necessarie per poter accantonare temporaneamente il quadro generale.
Per facilità è bene scrivere per ogni evento una lista di avvenimenti che devono accadere fornendo un'ulteriore suddivisione del lavoro all'interno di ogni passo.

Gli Attori (I Personaggi)

In fase di progettazione per attori si intendono quei blocchi di programma che parteciperanno attivamente alla funzionalità in esame. Personalmente non ho ancora chiaro quanti e quali saranno i personaggi di tutto il libro/saga. Di volta in volta mi limito ad esaminare un evento particolare e cerco di immaginare chi vi prenderà parte. Ogni evento ha i suoi protagonisti che si alterneranno sulla scena, è quindi necessario in questa fase buttare giù due righe per dare una descrizione dei vari personaggi, sia fisicamente che psicologicamente, inoltre va descritto cosa faranno mentre saranno presenti in scena. In questa maniera sarà sempre possibile aggiungere nuovi personaggi e lo si potrà fare con metodo e senza troppe forzature. Tra l'altro questo sistema permette di dimenticarsi completamente dei personaggi già introdotti ma non presenti in scena, facendo in modo di rendere più semplice la stesura del testo. Qualora ci venga in mente qualche nuovo evento durante la stesura delle descrizioni (a me capita spesso di voler creare degli eventi che spieghino il cambiamento caratteriale di un personaggio in base a come l'ho descritto) potremo sempre tornare al passo precedente e aggiungerlo, non bisogna mai tenere nulla a mente, la memoria è molto labile e rischieremmo di perdere l'idea.

Gli Oggetti (I Capitoli)

Quando si parla di oggetti significa che si è in una fase intermedia in cui la progettazione si fonde con lo sviluppo reale. Gli oggetti sono le porzioni di codice che descrivono un attore e che eseguono le azioni. In questa fase quindi si prende in esame un attore alla volta e si definisce cosa può fare e come lo può fare, sempre ovviamente all'interno della funzionalità che si sta analizzando. Prendiamo quindi di volta in volta i nostri personaggi e raccontiamo la loro storia, li facciamo muovere all'interno dell'evento e ne descriviamo le varie interazioni con gli altri personaggi. A conti fatti stiamo stendendo una prima bozza di quello che sarà un capitolo del nostro libro e se le descrizioni dei personaggi, dello scenario e dell'evento sono state adeguatamente approfondite, la storia si scriverà da sola.
Ho scelto questa via perché mi permette di vedere una stessa scena attraverso gli occhi di diversi personaggi, sia buoni che cattivi, con l'intenzione di dare una maggiore tridimensionalità alla storia. In questa maniera nulla è lasciato al caso e si ha la possibilità di spiegare tutte le cause e gli effetti delle varie azioni.
Inoltre, scrivere ogni capitolo dal punto di vista di un personaggio diverso permette di approfondire la psicologia della persona e vivere più intensamente le relazioni che questa crea con gli altri attori.

Le Eccezioni

Quando si studiano i casi d'uso, vanno prese in considerazione anche le cosiddette eccezioni. Queste sono delle condizioni di errore gestite, nel senso che si prevede che possano accadere e quindi si studia il modo di reagire opportunamente. Nel caso della scrittura, è possibile prevedere che alcune regole possano essere aggirate o addirittura infrante, anzi, è importante che ogni tanto qualche regola venga infranta perché vi permetterà di descriverla nel dettaglio e fornire un maggiore spessore all'evento o al personaggio che ha infranto quella determinata regola.
*SPOILER* (Evidenziare per leggere ^_^)
Nel mio caso Elliot è in grado di utilizzare la magia nonostante sia nato nel mondo della tecnologia. Questo è un evento fondamentale che verrà spiegato più avanti e che determinerà in modo significativo le dinamiche della storia.

*SPOILER*


Il Linguaggio (Lo Stile)

Una volta definiti gli oggetti con le loro proprietà e le loro funzioni, passeremo alla scrittura vera e propria del codice. Per farlo è necessario scegliere un linguaggio appropriato -che può essere C, C++, Java, Assembly, etc...- e non deve essere necessariamente lo stesso per tutti gli oggetti. Non è impossibile trovare librerie all'interno dello stesso software scritte in linguaggi diversi. Anche se in informatica questa pratica è deprecata, in scrittura invece si rivela essere una pratica molto divertente. Permette all'autore di spaziare tra i vari stili e fornisce al personaggio descritto nel capitolo delle peculiarità uniche. Nel mio caso ad esempio ho scelto di narrare in prima persona i capitoli dedicati a Mallory. Questo ovviamente sta alla fantasia dello scrittore, purché poi si mantenga una certa coerenza all'interno del libro (Nel mio caso tutti i capitoli dedicati a Mallory saranno scritti in prima persona).


Conclusione

Spero che questo post possa essere utile a qualcuno, ma ci tengo a ribadire che non esiste un unico metodo e che quello qui descritto è solo quello che uso io e potrebbe anche non essere condiviso dai più. Buona scrittura!


giovedì 9 dicembre 2010

Hangwick



La pioggia può essere un'amichevole compagna di viaggio. Kaila iniziò ad apprezzare il ritmico sottofondo delle gocce che rimbalzavano sulla tettoia improvvisata costruita da Felz. Il loro viaggio era iniziato ormai da diverse ore, ma ancora non avevano raggiunto le pendici del monte Hoen. A vederlo dall'alto, quel mondo fatto di campi, foreste e corsi d'acqua sembrava così piccolo e irraggiungibile. Sul primo punto Kaila dovette ricredersi. Man mano che si avvicinavano cominciava ad avere l'idea delle immensità che le si paravano di fronte. Sul secondo punto, beh, dopo cinque ore di viaggio ancora non riuscivano a venire a capo di quegli interminabili tornanti, quindi sì, era decisamente irraggiungibile.
Le continue curve a gomito che si alternavano sotto le lente ruote del carro avevano iniziato a dare la nausea alla ragazza. Ad ogni tornante incontravano nuove fattorie, nuovi campi, nuovi profumi. Come la città di Elengar, anche l'intera montagna sembrava un immenso alveare dove le operose api procedevano nel loro incessante lavoro. La pioggia stava rendendo la strada impervia. Placidi rigoli d'acqua ghermivano la pigra terra battuta del sentiero trascinando a valle detriti e ciottoli. Ad ogni tornate piccole cascate si univano a formare quello che sembra un leggero torrente del colore del cioccolato. Quello allungato con il latte appena munto dalle mucche. Una prelibatezza che

nei giorni di festa
Ivan preparava per i figli sciogliendo in acqua calda quei pochi blocchi di cioccolato che riusciva a permettersi al mercato. Una bevanda tanto gustosa da rendere le fredde serate invernali più sopportabili.

Una leggera sensazione di fame colse Kaila all'improvviso. Non era esattamente fame. Qualcosa di più inusuale. Era golosità. Da giorni aveva come questa strana voglia di cose estremamente dolci. Ogni volta che il sorriso gentile tornava a far visita nei suoi sogni, al risveglio sentiva il richiamo della dispensa. Quella più in alto. Era lì che Ivan nascondeva le poche leccornie che entravano in casa. Le abitudini erano dure a morire, e il fatto che ormai sia Kaila che Felz fossero abbastanza alti da raggiungere quegli sportelli non aveva spinto l'uomo a trovare un nuovo nascondiglio per i dolciumi. Eppure non era il cioccolato ad attirarla. No, quello per tradizione si mangiava durante l'inverno con il latte caldo. Non avrebbe avuto lo stesso sapore preso così, senza tutto quel contorno familiare che rendeva le serate di festa tanto speciali. L'attenzione di Kaila veniva attratta dalle ciliege. Quelle sotto zucchero che lei e Felz preparavano in agosto, dopo la raccolta.

Era stata sua madre ad iniziare quella tradizione e Kaila trovava che il rito della preparazione delle ciliege fosse come un piccolo legame che la riportasse tra le braccia di quella donna da cui era stata separata troppo presto. E poi era troppo divertente stare lì ad aspettare il concerto di schiocchi che veniva dai tappi di latta una volta che il sole aveva sciolto tutto lo zucchero presente nel barattolo. Una volta Ivan le disse che quello era un vero e proprio sigillo. Come quelli che gli stregoni applicano alle magie per imporvi la loro volontà.

L'uso dei sigilli era una delle materie considerate più importanti tra quelle insegnate alla scuola di magia di Elengar. Kaila non riusciva a coglierne il fascino, pensava fossero solo una cosa buffa. Una superstizione. Eppure quel rito delle ciliege la mandava in estasi. Forse era quella la vera magia che si nascondeva dietro ai sigilli.



Aprì il suo grosso fagotto e ne trasse fuori un barattolo di ciliege. Era grande, ma era pieno solo a metà. Ultimamente il sogno del sorriso gentile si era ripetuto spesso. Allo sguardo perplesso di Felz, Kaila rispose con un sorriso imbarazzato. Si sentiva come quando da bambina veniva colta sul fatto mentre faceva qualche marachella. Il fratello però doveva trovare quello sguardo estremamente tenero, perché scoppiò a ridere e accarezzo la ragazza tra i capelli con affetto. Alla fine Kaila riuscì a vedere il mondo al di fuori dei confini del monte Hoen. Il barattolo no. L'ultimo tornante disse addio alle ultime ciliege pescate dai due affamati e golosi fratelli.

Il calore che quel succo provocava scendendo giù per la gola sciolse il ghiaccio che attanagliava l'animo della ragazza Evidentemente anche la lingua doveva essere in qualche modo congelata, perché man mano che le ciliege nel barattolo diminuivano, le chiacchiere tra i due aumentavano. Kaila iniziò a sentire la testa leggera, scevra da ogni tipo di preoccupazione. Un nuovo mondo si stava aprendo davanti ai suoi occhi e lei sentiva la necessita di assaporarne ogni singola goccia. Le domande si formavano da sole nella sua mente e lei non faceva nulla per trattenerle. Così iniziò a chiedere informazioni su ogni fattoria che incrociavano. Scoprì che in realtà non era necessario avere un bell'appezzamento di terra per poter coltivare in montagna. Molte fattorie infatti avevano grossi frutteti, altre invece si limitavano ad allevare animali. Quello che andava per la maggiore era l'ulivo. A quanto diceva Felz questo tipo di albero cresceva anche nelle condizioni più avverse e l'olio che se ne ricavava si vendeva molto bene e sul pane era un vero e proprio dono del cielo. Kaila rimase sorpresa del fatto che la loro fattoria fosse l'unica a coltivare il luppolo. A quanto pareva bisognava allontanarsi parecchio per trovare altri produttori di questa pianta così particolare. Questo aveva reso negli anni i loro affari molto prosperi.



La strada iniziò a stiracchiarsi abbandonando la monotonia dei tornanti. Il pendio si fece meno scosceso. Le fattorie diminuirono. Presto il percorso iniziò ad essere affiancato da grandi alberi con enormi chiome che formavano una sorta di galleria verde che forniva un minimo di riparo dalla pioggia. Il tamburellare incessante della pioggia divenne aritmico e il carro accelerò il passo. Erano finalmente giunti a valle. Felz identificò i grandi arbusti come castagni. Kaila adorava le castagne, ma non aveva mai visto da dove arrivassero. Si sporse dal carro per raccogliere un frutto da terra. "Ahi!" una piccola goccia di sangue si disegnò su uno dei polpastrelli della sua mano. "Quello è un riccio, fai attenzione perché punge. Se lo apri dentro dovresti trovare due o tre castagne" disse Felz. "Potevi dirmelo prima, ormai mi sono punta" rispose seccata Kaila mentre si succhiava la punta dell'indice. Felz scoppiò a ridere di cuore. Una risata contagiosa che alla fine riportò anche Kaila di buon umore. "Ho imparato qualcosa! D'ora in poi le castagne lascerò che sia tu a venirle a raccogliere" riprese la ragazza facendo la linguaccia al fratello.

Il viaggio continuò lieto e tranquillo verso est per tutto il pomeriggio. I due consumarono il pranzo a bordo del carro. Kaila aveva preparato il pane quella mattina e ne aveva portato con sé mezzo filone. Con un po' di cacio e qualche fico secco sconfissero la fame. Con un sorso di birra fecero strage della sete e della lucidità. Iniziarono a ridere per ogni sciocchezza. Kaila quasi cadde dal carro per le risate quando una farfalla si appoggiò tra i crespi capelli castani del fratello. Felz invece di scacciare l'insetto iniziò a schiaffeggiarsi la nuca. Era arrivato il momento di fermarsi, altrimenti sarebbero finiti dentro ad un fosso prima di riuscire a rendersene conto.

Col passare delle ore la pioggia si calmò. La luce iniziò a scemare. La stanchezza iniziava a farsi sentire. Un gruppo di case comparve all'orizzonte. Non c'erano locande, le uniche coseche avevano era un recinto di animali ed una grande stalla. Chiesero ospitalità per la notte e gli furono concesse un paio di balle di fieno nella stalla da dividere con le avide mucche. Mentre Felz asciugava i cavalli, Kaila accese un piccolo fuocherello e iniziò a scaldare un po' d'acqua. Aveva con se fagioli secchi e cipolle. L'odore della zuppa si sparse per tutto il piccolo villaggio e in poco tempo i musi bavosi delle mucche furono sostituiti dai musi sbavanti degli abitanti. Kaila abbrustolì un po' di pane e qualcuno portò un po' di olio da versarci sopra. In breve fu allestito un piccolo banchetto. Felz aprì uno dei barili di birra che avevano sul carro e la festa ebbe inizio. Continuarono a cantare e a danzare fino a notte fonda. Il cielo si rischiarò e qualche stella fece capolino. Quello che dapprima era un fuocherello si trasformò in un falò e tutti intorno iniziarono a raccontare storie e aneddoti di vita vissuta.

Man mano che la birra si faceva strada nel loro sangue, le storie diventavano sempre più surreali. Quando Felz disse che erano diretti ad Hangwick tutti trasalirono e iniziarono a narrare storie di stregonerie e di mostri. Di fantasmi di luce e di lupi dalle sembianze umane. Kaila scoppiò a piangere a forti singhiozzi terrorizzata. L'alcol le faceva immaginare cose incredibili. Quando fuori dalla porta della stalla vide delle figure muoversi nell'ombra si rintanò tra le braccia del fratello. "Tranquilla, è solo il vento che muove gli alberi".

Alla fine tutti tornarono alle proprie case. Una coppia di anziani signori invitò i due giovani forestieri a dormire nella loro umile dimora. Dopotutto si sentivano un po' in colpa per aver spaventato la ragazza, e poi volevano sdebitarsi per la bella serata. Felz accettò l'invito e si caricò in braccio la sorella ormai pesantemente addormentata.



Il viaggio riprese al mattino di buon ora. La gentile coppia che li aveva ospitati offrì loro la colazione. Kaila però non riuscì a mangiare quasi nulla. Aveva un mal di testa lancinante. Sentiva di avere qualcosa in mente, ma non riusciva ad afferrarla. Come sigillata. Eppure doveva essere una cosa importante. Il sole era tornato l'unico proprietario del cielo. La luce forte ferì gli occhi sensibili della ragazza che dovette affondare il volto tra le mani per proteggersi. Le ci volle un po' per abituarsi. Alla fine però riuscì ad ammirare lo spettacolo. Una sterminata pianura. I grandi campi di grano ormai mietuto si estendevano a perdita d'occhio. Neanche un filo d'erba interrompeva il profilo piatto di quei campi. Solo la montagna di Hoen si ergeva ad infrangere quell'armonia. Kaila riuscì solo a pensare che le mancavano i castagni.

La marcia lenta del carro cullò la ragazza facendola sprofondare in ripetuti sogni agitati. Vedeva delle figure che si agitavano trasformarsi in lupi che poi la aggredivano. I sogni la spaventavano al punto che cercò di tenersi sveglia in ogni modo. Felz ad Hangwick c'era già stato, quindi si fece raccontare com'era. Aveva uno strano interesse per le locande, la ragazza voleva sapere quante ce n'erano e quanto costavano. Kaila non aveva mai dormito fuori casa e l'idea di pagare per un alloggio le faceva strano. D'altra parte però voleva organizzare una cosa simile all'interno della birreria, quindi cercò di capire cosa comportava e quanto ci potevano ricavare. Molte delle idee di successo che avevano messo in pratica nella taverna erano nate dalla mente di Kaila, quindi Felz non tralasciò nessun particolare. Le descrisse le vie dell'antico borgo, le raccontò dove avevano alloggiato e mangiato. C'era una buona birreria che faceva una particolarissima birra 'affumicata'. Era una birra chiara semplice al singolo malto. Di grano a giudicare dal retrogusto. Però al termine della fermentazioni mettevano le botti nelle stesse camere di affumicazione usate per produrre lo speck e il provolone. Una volta terminato il processo la birra risultava imbrunita e aveva un aroma molto particolare. Sapeva di inverno e di casa. Di focolare e di famiglia. Dava uno strano senso di nostalgia e di benessere. E inoltre faceva venire una voglia matta di salsicce.



Al calare del sole si trovarono nei pressi del fiume Koar. Da lì veniva la terra che aveva dato vita alla loro fattoria. L'inconfondibile odore di limo le fece venire nostalgia di casa. Felz decise di accamparsi sulla riva del corso d'acqua. "Domattina attraverseremo il ponte e devieremo verso nord. Se tutto va bene entro sera saremo ad Hangwick". Kaila era ansiosa di arrivare in quella che sarebbe stata la prima città oltre Elengar che avesse mai visto. Quell'aroma di terra bagnata però la rapì completamente e quasi andò a tuffarsi nelle gelide acque del fiume. "Dove corri, guarda che fa freddo!" Felz la guardava correre lungo la riva con dolcezza. Assaporava ogni singolo istante che passava con la sorellina. Kaila dovette accorgersene perché lo chiamò a gran voce "Dai, vieni a prendermi se ci riesci!" I due corsero a perdifiato lungo l'argine e alla fine si sdraiarono a terra esausti. Le prime stelle della sera iniziavano a penetrare l'azzurro del cielo.

"Pensi mai alla mamma?" Kaila interruppe il silenzio affannoso col suo sguardo malinconico. Felz si mise su un fianco per poter guardare la sorella negli occhi. Una falce di luna si rifletteva nei suoi occhi dorati. "Ogni sera" rispose dopo un po'. "Raccontamela" fece Kaila illuminandosi "Beh, hai visto il ritratto del papà. Era più o meno così" rispose confuso il ragazzo. "No, no. Voglio sapere com'era lei. Che tipo era." Felz si sdraiò di nuovo con aria pensosa. "Una volta, da bambino, scappai di casa perché avevo litigato col papà. Non ricordo il perché ma on feci molta strada, avevo 5 anni. Mi andai a nascondere nella cantina. Piansi tutta la notte e finii per addormentarmi. Quando mi svegliai la mattina seguente, accanto a me trovai un involto. C'erano dei biscotti alle mandorle freschi. Li aveva fatti quella notte" la voce si interruppe infrangendosi nella commozione. Gli occhi del ragazzo si inumidirono. Il verde delle sue iridi si fece più intenso. Felz riprese fiato e si voltò di nuovo verso la sorella. "Lei era così! Sapeva sempre capire di cosa avevi bisogno! Aveva un animo gentile e generoso. Riusciva sempre a trovare il modo di farti tornare il sorriso."

Tra i due tornò il silenzio. Tornarono a fissare le stelle che man mano diventavano più vivide. Un alito di vento si alzò ad agitare l'erba intorno al greto del fiume. "Dai, torniamo al carro, altrimenti ci prendiamo un malanno". I due accesero un fuoco e passarono la serata a raccontarsi vecchie storie. Kaila era avida di ricordi della madre. Felz le raccontò ogni evento che gli veniva in mente mentre lei rideva e piangeva al contempo. Era felice e nostalgica. Si addormentarono che il fuoco ancora non si era spento. L'uno accanto all'altra. Coperti dalla stessa enorme trapunta. I sogni di Kaila tornarono ad invaderle la mente. Rivide il sorriso gentile, ma stavolta un velo di preoccupazione incrinò quella luce. Trasalì e si svegliò.

Era già mattino e Felz stava arrostendo delle pannocchie sul fuoco. "Buongiorno dormigliona" Kaila era agitata, ma la vista del fratello la calmò. Mangiarono in fretta e si rimisero in marcia. C'era qualcosa che le sfuggiva, ma neanche in quel momento riuscì a capire cosa. Fu una giornata particolarmente silenziosa.



Hangwick era un piccolo borgo nato ai piedi di una piccola collina di querce. Si dice che un tempo fosse la dimora dei novizi del Consiglio. Qui i più giovani aspiranti maghi venivano ad allenarsi e a completare i loro studi. Le mura della città erano composte da enormi blocchi di pietra estratti da una delle tante cave che infestavano il monte Hoen. Le case piccole erano sovrastate da altissimi tetti coperti da tegole in terracotta rossa. Questo dava alle abitazioni un aspetto a fungo. Non un bel porcino succoso, più un ovino rinsecchito. Di quelli che rimangono un po' duri a mangiarli crudi. Le strade erano completamente lastricate in pietra. Strade larghe, non quella specie di cunicoli che si trovavano ad Elengar. Quelle di Hangwick si potevano chiamare 'strade' senza il timore di essere presi in giro. Grossi lastroni piatti ne ricoprivano il manto. Avevano giusto una leggera pendenza verso entrami i lati della strada, dove due canali di scolo permettevano alle acque piovane di defluire silenziosamente senza lasciare tracce.



Tutto era pietra e terracotta. Ne un aiuola, ne un fiore. Non c'era la benché minima traccia di natura in quel borgo che trasudava antichità.

Da quel che narra la leggenda pare che la città fosse stata costruita da una comunità di nani -da qui le dimensioni tisiche delle case- che poi un bel giorno sparirono come neve al sole. Alcuni sostenevano che si fossero rintanati nelle gallerie sotterranee che infestavano la collina -anch'essa chiamata Hangwick- per nascondere un terribile morbo che li aveva affetti. Sta di fatto che su alcuni dei lastroni di pietra, ormai consumati da secoli di carovane e cavalli, si vede ancora oggi raffigurato lo stemma di un'ascia che incrocia una piccozza. Il marchio della comunità dei nani.

Kaila e Felz arrivarono nel tardo pomeriggio. Il pigro sole autunnale aveva già ceduto il passo alla più arzilla Luna. Una falce luminosa mieteva un cielo coperto di stelle. I due avevano viaggiato in silenzio e ininterrottamente tutto il giorno. Volevano assolutamente arrivare a destinazione. Quando Kaila vide le deboli luci della città si riaccese e il fiume di parole riprese incontrollato. Voleva assolutamente assaggiare la birra affumicata, ma non c'era tempo. Era tardi ed erano stanchi, inoltre Felz si sarebbe dovuto alzare all'alba il giorno dopo se voleva raggiungere Salingar prima del tramonto.

Alloggiarono nella locanda del Lupo Armato. Una buffa sagoma a forma di lupo vestito da armigero li accolse. Il padrone era un amico di Ivan, lì avrebbero avuto pasti caldi e letti puliti a buon prezzo. C'era anche una stalla privata che permetteva di mantenere al sicuro sia i cavalli che il prezioso carico che trasportavano. Fratello e sorella alloggiarono in due camere differenti. Cenarono controvoglia. Erano stanchissimi e deboli. Prima che il vociare dei commensali si fosse acquietato i due si erano già ritirati nelle loro stanze.

Kaila sprofondò in un sonno agitato. Si vide ghermita da un branco di lupi inferociti. Uno si stava avventando sul suo collo quando Kaila si svegliò scattando in piedi. Ancora ansimante si asciugò il sudore dalla fronte. Guardò fuori dalla finestra e vide delle figure muoversi. Gli venne istintivamente da pensare agli alberi che tanto l'avevano spaventata durante la prima sera di viaggio. Si rilassò al pensiero del fratello che cercava di tranquillizzarla. Si avvicinò alla finestra per guardare meglio. Si trovava al secondo piano della locanda, praticamente nel sotto tetto. Dalla sua camera aveva una perfetta vista della collina di Hangwick. Cercò di distinguere nuovamente quelle forme quando all'improvviso un enorme bagliore accese la foresta di querce che ricopriva la collina. Una luce intensa. Come un fulmine, però in mezzo agli alberi anziché tra le nubi. Kaila indietreggiò spaventata e andò ad inciampare nella sedia. Finì col sedere in terra tirandosi dietro la sedia.

Il rumore aveva svegliato Felz che si precipitò nella camera della sorella. "Che succede?" Gli occhi di Kaila erano spalancati, sembrava non essere in grado di articolare le parole. "C-ci sono i fantasmi!" Fu l'unica cosa che riuscì a dire. Felz si mise sdraiato accanto a lei e la abbracciò. "Tranquilla, è stato solo un brutto sogno. Adesso ci sono io qui con te". Il cuore di Kaila rallentò e si calmò. Si rilasso. I due rimasero per terrà finché le ossa non iniziarono a protestare furentemente. Alla fine si alzarono e tornarono nei rispettivi giacigli. La ragazza però passò la notte a fissare il soffitto.



Il mattino arrivò lentamente, tanto che Felz riuscì a batterlo sul tempo. Il ragazzo si era svegliato che l'alba ancora non era arrivata. Iniziò a prepararsi e chiamò la sorella. Kaila però non era in camera. Felz la trovò sul carro che infilava alcuni oggetti -la refurtiva- in una sacca da spalla. I due si salutarono in fretta. "Stasera torna qui alla locanda, io cercherò di ritornare domani in serata. Al massimo dopodomani. Fai attenzione nel bosco". Subito fuori le porte della città Kaila scese dal carro in movimento e si diresse verso la collina.

Quando il sole sorse Kaila era già protetta dai fitti rami delle querce. Grosse radici fuoriuscivano dal terreno creando come un enorme scalinata che rendeva la scalata più semplice. Alcuni scoiattoli scappavano da una parte all'altra rubando dal terreno qualche ghianda solitaria. La ragazza si fermò solo quando sentì le gambe cedere. Usignoli levavano il loro dolce canto in giro per il bosco. La stanchezza aveva fermato il suo passo, ma era ancora presto per liberarsi della refurtiva. Prese dal tascapane un barattolo di ciliege e ne mangiò alcune. Consumò metà della sua scorta di acqua per rinfrescarsi e lavarsi via la fatica. Trasaliva ad ogni rumore nel sottobosco. Aveva la sensazione paranoica che hanno tutti i fuggiaschi di essere seguita. Si voltava in continuazione per intercettare qualche sagoma, forma o movimento che potesse tradire un probabile inseguitore. Scoiattoli ed uccelli erano le uniche parti mobili di una natura statica. Neanche il vento osava inoltrarsi tra quegli alberi.

Riprese a camminare di buona lena e scalò il versante della collina per circa un'ora. Arrivò in una radura dove il sole riusciva a fare breccia tra le fronde possenti degli alberi. Si voltò per cercare di vedere quanta strada aveva fatto. La radura era ampia e concedeva una visuale sulla città sottostante. Kaila colse i contorni di quella che era la sua locanda. Il Lupo Armato. Da una di quelle finestre aveva visto un lampo di luce esplodere nella foresta. Si trovava nei pressi dell'origine di quel fenomeno inspiegabile.
Voleva portare a termine la sua missione nel minor tempo possibile. Kaila iniziò a correre con quanta forza le rimaneva nelle gambe. Sentiva il peso della refurtiva sbattere sul suo dorso ad ogni passo. Voleva liberarsene. Doveva liberarsene. Con la coda dell'occhio vide un buco nel terreno. Era poco lontano dal sentiero, ma abbastanza lontano dalla luce del sole. Perfetto per nascondere quei pericolosi oggetti. Kaila deviò la sua corsa per raggiungere l'obiettivo. Si tolse la sacca dalle spalle mentre stava ancora correndo. Con un gesto veloce del braccio ne svuotò il contenuto in quella specie di pozzo. "Ahio!" Un lamento arrivò dal pozzo. Il cuore di Kaila perse un colpo. Rimase impietrita. Si era fatta scoprire.
Si affacciò lentamente e timorosa. "Chi c'è la?". Un ragazzo si stava massaggiando la tempia dove uno degli oggetti di Kaila lo aveva colpito. Si voltò a guardarla e le sorrise. "Ehi dolcezza, che ne dici di darci una mano?". Il sorriso gentile era alla fine arrivato.


mercoledì 8 dicembre 2010

150 Pagine!

In questi giorni mi sono in un certo senso impegnato in un esperimento. Volevo vedere se era possibile fare lo scrittore come 'lavoro d'ufficio'. Mi spiego: Sto cercando di scrivere un capitolo al giorno, iniziando con la prima stesura dalla mattina alle 8:00 fino a -più o meno- le 13:00. Pausa pranzo. Poi passo alla correzione di bozze e alla rilettura fino alle 17:00.

Questo vi da la misura di quanto io mi impegni nel mio lavoro reale XD

Beh, questo esperimento durerà solo per questa settimana, quindi aspettatevi altri due capitoli tra giovedì e venerdì (Oggi è festivo :D). Intanto però comincio a notare un primo tipo di impatto di questo 'metodo' sulle storie che scrivo. I capitoli risultano più corti. Per forza di cose in un giorno vengono in mente meno cose da dire, e quindi la lunghezza ne risente. Un'altro problema è la forma. Scrivo e riscrivo più in fretta, il che porta ad un naturale generarsi di errori grammaticali. Tutto sommato però non è impossibile mantenere il ritmo, ammesso di prendersi comunque un periodo a fine stesura per effettuare una rilettura correttiva.

Un vantaggio che ho notato invece è che risulta più facile mantenere uno stile omogeneo. Beh, almeno per me è un vantaggio. L'altro giorno mi sono riletto il primo capitolo e per poco non lo cancellavo e lo riscrivevo da capo... bellissimo, per carità, lo adoro. Però è completamente diverso dallo stile che sto tenendo oggi.

Devo fare un piccolo mea culpa. Il motivo per cui avevo iniziato questo blog sta proprio nel fatto che mi era venuto in mente la prima parte de Il Sigillo, una storiella seria ma raccontata in maniera ironica. Negli ultimi capitoli quel tipo di ironia si è dapprima assottigliata fin quasi a sparire. Credo proprio che mi impegnerò per recuperare quella freschezza e quella simpatia che ero riuscito ad infondere nelle prime pagine di questo libro.

Tutto questo cosa c'entra col titolo del post? Niente! Ok, non sono pazzo... oddio, forse un po' lo sono. Il punto è che finora vi ho fatto le 'comunicazioni di servizio', ora però è giunto il momento di arrivare al vero motivo che mi ha spinto a scrivere questo breve post.
Stamattina, preso da una botta di fancazzismo, ho deciso di provare ad impaginare il libro, o perlomeno ciò che ho scritto finora. Ho scaricato diverse guide su come si impaginano i libri in maniera professionale e mi sono messo al lavoro. Il risultato mi ha lasciato a dir poco senza parole: 150 PAGINE!!!!

Credevo di averne scritte al massimo una cinquantina. Mai mi sarei aspettato di aver scritto una mole così enorme di testo. Eppure siamo solo all'inizio, sto presentando i personaggi e tratteggiando la storia... Se adesso sono a 150 pagine, per completare il libro arriverò almeno a 1500! Questo mi ha portato a fare una seria considerazione sul proseguo della storia e su come organizzarla. Da bravo scrittore Fantasy ho deciso di realizzare una trilogia. Questo porta una grande semplificazione dal mio punto di vista. Nel senso che manterrò comunque la visione di insieme della storia, ma per il momento mi concentrerò sul raggiungere un obbiettivo più immediato che porterà alla conclusione del primo libro. Inoltre in questa maniera posso meditare con più calma su come gestire le parti successive della storia.

Beh, detto questo ci terrei a ringraziare tutte le persone che finora mi hanno seguito e che in giro per internet mi hanno fatto i complimenti (vi becco tutti con le statistiche di Blogger :D)

Vi auguro una buona lettura coi capitoli a venire.


giovedì 11 novembre 2010

Esperimenti

Quello di oggi è un capitolo breve. Più del solito almeno.
Era da un po' di tempo che mi ronzava in testa l'idea di parlare di un personaggio in prima persona.
E' faticoso perché necessariamente si deve essere meno descrittivi. Quando si scrive in prima persona è come se si entrasse nella testa di un personaggio. Si vivono a pieno i sentimenti del soggetto. Si assaporano i momenti così come vengono. Quello che di sicuro manca sono le descrizioni. Quando nello sguardo di una persona si para davanti un fiore, non è che questo si mette a pensare alla sua composizione, ai suoi petali, i sepali, i pistilli, l'odore, le foglie, il gambo, e chi più ne ha più ne metta. Oddio, magari qualcuno lo fa anche, ma di certo la maggioranza pensa: "che bello" oppure "che profumo" e poco più.
Alla fine è più o meno come giocare ad un videogioco FPS, dove tu vedi solo quello che vede il protagonista e niente di più. Di conseguenza si perde la visione di insieme.

Quello che ho cercato di fare con questo capitolo è ricreare quel tipo di punto di vista. Il narratore è il protagonista. Tutto ciò che ci è dato sapere è quello che gli passa per la testa.

La cosa difficile è stata scegliere il personaggio. Quello che volevo fare era una cosa in stile Jonathan Stroud con la saga di Bartimeus. Un personaggio che narra le vicende che gli accadono in prima persona mentre per gli altri viene seguito il solito stile della voce narrante che racconta gli avvenimenti. Per farlo però bisogna scegliere un personaggio che si presti. Per omaggiare Bartimeus, ho scelto il personaggio che avevo dipinto come il cattivo, quello prepotente che poi comunque si unisce al gruppo e cambia. Questo è quello che mi aspetto da Mallory, un personaggio con mille sfaccettature che si evolverà nel corso della storia. Ovviamente sempre mantenendo il suo carattere rude. Quello non si tocca. Ma in fondo già si vede che non è veramente cattivo ^_^

Spero che la mia scelta vi piaccia, in caso contrario sono sempre aperto alle critiche ;-)


venerdì 29 ottobre 2010

A proposito di Elliot

Elliot è stato uno dei primi personaggi di cui ho scritto, non il primissimo, quanto meno il primo degno di nota.
All'età di quindici anni mi ero messo in testa di scrivere un racconto in cui non si venisse a conoscere il nome della protagonista fino alla fine della storia ma, non essendo io Chuck Palaniuck, fallii miseramente nell'impresa.
Più in la con gli anni, ne avevo già 18, mi venne in mente una storia, molto carina, molto fantasy, i cui protagonisti erano gli stessi della storia precedente: Elliot in primis, ma anche Lara, Peter e Mallory. Iniziai a scrivere di loro nella speranza che ne uscisse qualcosa di carino ma, per prima cosa, mi fissai sull'idea che il tutto doveva essere narrato in prima persona da Elliot, pessima idea: i racconti in prima persona sono divertenti se inseriti qua e la nella storia, fungono da approfondimento del personaggio, ma usarla per tutto il libro era un po' pesante. Soprattutto mi trovai in difficoltà quando dovevo parlare delle vicende degli altri personaggi in assenza di Elliot.
In secondo luogo non funzionava perchè ero un principiante che, a parte qualche idea carina, non aveva gran dimestichezza con l'italiano ne con i tempi comici.
Però quella storia è sempre rimasta nella mia testa a vagare e a formarsi. Sostanzialmente era la storia di questi quattro personaggi che per buffe vicende legate ad un portale finivano in una sorta di dimensione parallela molto fantasy.... vi dice niente?
Quale storia migliore di questa poteva essere riadattata all'universo creato da Jonah?
D'altra parte non sarà il massimo dell'originalità, a tutti gli scrittori fa gola l'idea di un personaggio ordinario in un contesto straordinario. Dalle Cronache di Narnia alla saga di Harry Potter direi che questo sentiero è stato battuto in lungo e in largo.
Alla fine il fantasy è semplice, ci sono degli elementi, delle regole da seguire, c'è un buono, un cattivo, una battaglia e tutti vissero e felici e contenti (o quasi)
Quello che fa veramente la differenza alla fine sono i personaggi, le loro storie e le loro relazioni interpersonali.
Ci tengo a precisare che effettivamente in questa storia avverrà il passaggio tra un mondo e l'altro come preventivato da Jonah, ma non è l'unica soluzione che questo universo ci pone davanti. Tante storie potranno essere ambientate in uno solo dei due mondi, e intendo farlo.
Come dice anche Jonah, tutti i sigilli in qualche modo "perdono" e magari a volte un po' di magia può arrivare nel mondo puramente razionale della scienza. E beh, per quanto riguarda il mondo fantasy c'è sempre qualcosa da raccontare di interessante.
Detto questo, buona lettura per i prossimi capitoli.