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venerdì 4 febbraio 2011

Prigionia

 I rumori si ovattavano, le immagini si offuscavano, la luce diventava a tratti intensa e abbagliante per poi ridiscendere nell'oscurità. Suoni, voci, passi. Tutto era confuso e distorto. La ferita alla gamba si era infettata e, di conseguenza, Eric aveva la febbre alta. Sentiva il battito del suo cuore accelerato rimbombargli nelle orecchie. Era confuso e la nausea lo opprimeva. Gocce di sudore gelide scendevano lungo il collo fin giù per la schiena.
 Era sdraiato. Questo riusciva a capirlo. Doveva essere steso su qualcosa di estremamente rigido e scomodo, probabilmente una tavola di legno a giudicare dai dolori e gli spasmi che gli facevano contorcere la spina dorsale. Non sapeva esattamente dove fosse, ne come ci fosse arrivato. Aveva la mente affollata da immagini sbiadite e da ricordi sconclusionati. La gamba. Questo era un ricordo preciso. La gamba gli faceva male, molto male, o per lo meno così era fino a qualche ora prima. Progressivamente l'aveva sentita addormentarsi. Un leggero formicolio aveva sostituito il dolore lancinante. Cercò di alzare la testa. Giusto un poco, per osservarsi la gamba, ma l'impresa fu eccessiva. Sentì il collo stirarsi e la testa come perforata da centinaia di aghi roventi. Riuscì giusto a vedere una lunga cinghia di cuoio saldamente legata intorno alla sua gamba.

 Eric passava rapidamente dallo stato di veglia a quello di totale incoscienza. La febbre doveva essere molto alta perché la luce sembrava trapanargli gli occhi. Da quel che riusciva a capire, doveva trovarsi in una stanza squadrata e molto piccola, con mura di pietre e nessun tipo di arredamento. La luce arrivava da una serie di aperture strette in alto sul muro di fronte a lui e c'era una sola porta in legno sulla sua destra con una feritoia a metà altezza. La sua branda, letto, tavola, o come diavolo la si voglia chiamare, era appesa al muro con due pesanti catene in ferro battuto. 
 Dopo lungo meditare decise che quella sorta di prigione era solo frutto di un'allucinazione causata dalla febbre. Chiuse gli occhi per richiamare a sé il ricordo delle calde coperte e del morbido materasso sul suo letto. Si concentrò per riuscire a sentire gli odori della sua casa, quel misto tra carta di giornale, naftalina e incenso -non troppo, quel tanto che bastava per rilassare la mente. Cercò di ascoltare i rumori della lavatrice in bagno e delle macchine che veloci sfrecciavano davanti al vialetto della sua casa. Sul retro delle sue palpebre si formò l'immagine di un soffitto bianco con al centro un lampadario con le pale al quale non aveva ancora montato i diffusorio, lasciando quindi le tre lampadine nude.
 Si lasciò cullare per un attimo nel piacere infantile della sua camera, ma quando aprì gli occhi tutto sparì e fu di nuovo sostituito dall'inquietante visione di una cella umida e maleodorante.

 Non era un sogno ne un illusione. Era la pura realtà, era rinchiuso in una cella. Ma -c'è sempre un ma- come c'era finito? Ogni volta che cercava di catturare un ricordo, una sensazione o un indizio che lo aiutasse a capire, quello gli sfuggiva di mente, si perdeva tra la nebbia che offuscava i suoi pensieri. Più si sforzava, meno ricordava. Non era quello il modo di procedere, di ricostruire, di ricordare. Eric era uno scienziato, un Dottore con tanto di lode, doveva seguire un metodo, un sistema preciso per trovare il bandolo della matassa. Per arrivare a delle conclusioni valide bisogna concentrarsi sui fatti evidenti e il dolore alla gamba era senza ombra di dubbio la cosa più evidente. La gamba. Ricordava ancora la sensazione tremenda della punta metallica della freccia che veniva estratta dalla carne del suo polpaccio. La freccia. Un nuovo tassello del puzzle. Non l'aveva neanche sentita arrivare. Un dolore lancinante gli aveva fatto perdere l'equilibrio. Persino negli occhi di quel soldato si era dipinta la sorpresa. Il soldato col quale si stava battendo, quello che aveva messo a terra...
 "Peter!"
 Eric si alzò di scatto a sedere ignorando i dolori che attanagliavano tutto il suo corpo. Come un fulmine tutti i ricordi e le sensazioni avevano ripreso forma e si erano concretizzati nell'immagine di Peter. Il suo allievo. Quello che lui aveva inseguito nel bosco. Quello che si era lanciato contro i soldati per permettere al gruppo di scappare. Elliot, Mallory, Lara. Li ricordava tutti. Li ricordava in pericolo. Panico e ansia si avvinghiarono alle sue viscere con rabbia. Doveva alzarsi, doveva raggiungerli.
 Provò ad accennare un movimento con la gamba, ma il dolore tornò più vivo di prima. Fu sul punto di perdere di nuovo conoscenza, ma si aggrappò al ricordo di Peter per mantenere il controllo. Una goccia di sudore cadde dalla sua fronte. Abbassò lo sguardo in preda allo sconforto. Fisso le mani lerce e graffiate con le quali aveva combattuto per salvare il ragazzo. Era riuscito a metterlo in fuga, ma in un bosco, di notte, un ragazzino da solo quante possibilità aveva di cavarsela?

 La luce diffusa nella stanza perse via via di intensità. I colori sfumarono verso l'arancio per poi spegnersi nelle ombre della notte. Il sole stava calando rapidamente ed Eric non riusciva a riprendersi dal colpo. Rimase immobile a fissarsi le mani come nella speranza che l'immagine del ragazzo si materializzasse e riuscisse a tranquillizzarlo, ma il miracolo non avvenne. Si sentiva disperato e perduto. Come un ossessione ripeteva la stessa parola a bassa voce: "Peter"
 "Non ti preoccupare per lui, sta bene. Beh, comunque sta meglio di te."
 La voce veniva dall'angolo sotto la finestra, il punto più in ombra della stanza. Eric impiegò un po' a realizzare, credeva che la voce facesse parte delle tante allucinazioni che lo tormentavano. Si sforzò di vedere cosa si nascondeva in quell'angolo della cella, ma c'era solo il buio più assoluto.
 "Chi sei?" provò a chiedere con un filo di incertezza nella voce.
 "Un amico" rispose la voce.
 "Non mi basta, voglio sapere chi sei!" riprese Eric quasi infastidito da tutto quel mistero.
 "Uhm, questa scena l'ho già vissuta! Cos'è, avete un copione prestampato?" fece la voce ironica.
 "Che diavolo stai dicendo" Eric iniziò a convincersi di stare parlando con un'allucinazione.
 "Niente, lascia stare. Ho bisogno di parlarti, ma adesso non sei in condizione di ascoltarmi."
 Dal buio una sagoma iniziò a delinearsi illuminata dalla luce della luna che lentamente aveva guadagnato il suo posto nel cielo. Un enorme mantello scuro avvolgeva una figura umana con un grosso cappuccio che gli copriva quasi per intero il volto. Eric non riusciva a distinguere i lineamenti del suo viso, ma a giudicare dall'altezza e dalle proporzioni del corpo doveva essere un ragazzino.
 Si avvicinò alla branda dove Eric era ancora seduto "Sdraiati" disse e accompagnò con la mano il movimento dell'uomo che, ubbidiente, si stese sulla rigida tavola di legno. Il ragazzo si avvicinò alla gamba ferita e vi appoggiò una mano sopra. Eric vedeva la scena come attraverso un caleidoscopio rotto. Colori e immagini distorte si alternavano a causa della febbre, ma era abbastanza sicuro di aver visto della luce provenire dal palmo della mano del ragazzo. Una flebile filastrocca, nenia o chissà che strana canzoncina, si stava spandendo nella stanza. Lentamente un leggero torpore invase il corpo di Eric e una sensazione di sollievo fece sprofondare l'uomo in un sonno profondo.

 Quando riprese conoscenza, il ragazzo era accucciato in un angolo. Sembrava appisolato, ma appena Eric fece per alzarsi lui gli sorrise e si alzò in piedi.
 "Come va?"
 Per la prima volta Eric notò che il ragazzo non muoveva le labbra per parlare, come se la voce gli arrivasse dritta nella testa. Testa che tra l'altro non faceva più male. Gli occhi, le orecchie, la schiena, tutto in perfetto ordine. Le immagini che vedeva erano nitide e non distorte, i suoni che ascoltava erano puliti e non rimbombavano più nella sua mente. Stava bene. Persino la gamba non faceva più male, si soffermò ad accarezzare il foro sui suoi pantaloni di velluto ormai impregnati del suo sangue. L'odore acre della carne era ancora forte, ma probabilmente era dovuto ai suoi indumenti sporchi, perché sotto al foro non c'era più nessuna ferita. Niente, neanche una puntura di spillo. Si slegò la cinghia legata intorno alla gamba e un forte formicolio invase tutto il suo corpo. Una sensazione estremamente fastidiosa, ma di certo non dolorosa.
 "Direi che sto bene, ma credo tu lo sapessi già" disse, e il ragazzo si limitò a sorridere.
 "Ho bisogno che tu faccia qualcosa per me" riprese il ragazzo facendosi improvvisamente serio.
 "Mi stavo giusto chiedendo quando saresti arrivato al punto" rispose Eric mettendosi seduto sulla tavola con le spalle al muro e con i piedi scalzi appoggiati sul freddo pavimento lastricato di pietre.
 "Elliot sta arrivando..." iniziò il ragazzo, ma fu subito interrotto "Cosa? Perché sta venendo qui?" il volto di Eric si era deformato in un'espressione di estrema preoccupazione.
 "Elliot sta arrivando" riprese il ragazzo senza dare peso alla reazione di Eric "verrà qui per salvare te, e verrà qui anche per salvare Peter".
 "Avevi detto che Peter è al sicuro" commentò Eric.
 "E te lo confermo, attualmente gli ho affidato una piccola missione. Il punto è che Elliot non deve interferire in nessuna maniera con il compito di Peter."
 "In che modo potrebbe interferire?" chiese dubbioso Eric.
 "Beh, ad esempio andandolo a cercare" ironizzò il ragazzo, ma allo sguardo perplesso di Eric, si appoggiò una mano alla fronte e andò avanti con la sua spiegazione. "Elliot è un ragazzo con un grande cuore ma soprattutto con un grande coraggio. Niente e nessuno potrebbe impedire a lui e ai suoi amici di andare a salvare Peter. Continuerebbero a cercarlo per il mondo intero e poi ancora oltre".
 "Come fai a conoscerlo così bene? E come fai a sapere tante cose di noi?" chiese Eric.
 "E' una lunga, lunghissima storia e adesso non ho il tempo di raccontartela, devi solo sapere che tra me ed Elliot esiste un legame che va oltre la normale comprensione umana" rispose l'altro.
 "Cosa dovrei fare?" chiese quasi rassegnato Eric.
 "Qui viene la parte difficile: dovrai dirgli che Peter è morto! E' l'unico modo per impedirgli di seguirlo"
 "Cosa? Hai voglia di scherzare? Il dolore lo ucciderebbe!" protestò Eric.
 "Ce la farà! Comunque il tuo compito non si ferma qui. Dovrai assicurarti che rimanga al fianco di Kaila, la ragazza che vi ha trovato nel buco."
 "Hai suggerimenti particolari in merito?" rispose sarcastico Eric squadrando il ragazzo da capo a piedi.
 "Lascio tutto alla tua fervida fantasia" concluse il ragazzo.
 "Quindi parli sul serio, dovrei andare da Elliot e dirgli: 'Ehi, il tuo amico è morto, fatti una passeggiata con questa ragazza sconosciuta così ti tiri su di morale'" Eric era completamente incredulo.
 "E in tutto questo dovresti anche evitare di menzionare la mia esistenza" concluse il ragazzo.
 "Non dicevi di avere un legame speciale con Elliot?" la discussione stava decisamente assumendo dei toni surreali.
 "Il fatto che il legame esista non significa che lui ne sia a conoscenza. Presto vi sarà tutto più chiaro, ma per ora la cosa importante è che Elliot e Peter proseguano su due strade separate."


 Il silenzio calò tra i due rotto solo dal tintinnio metallico di una chiave in lontananza. Eric continuò a fissare torvo il ragazzo anche se i suoi occhi rimanevano costantemente coperti dal grande cappuccio.
 "Stanno arrivando" disse all'improvviso il ragazzo.
 "Chi?" chiese Eric.
 "I tuoi carcerieri, saranno qui tra breve."
 "Cosa vogliono da me?"
 "Sapere chi sei, come sei arrivato qui, che legame hai con Kaila... inventati una balla e restaci fedele, loro non hanno la più pallida idea dell'esistenza del luogo dal quale venite".
 "E da dov'è che veniamo... esattamente?" Eric ormai aveva completamente perso il filo logico del discorso.
 "Dal mondo della scienza e della tecnologia e, per rispondere alla tua prossima domanda, questo è il mondo della magia -si, ho detto magia- dovresti aver notato tutte le cose strane che ti stanno accadendo intorno, non dovrebbe essere così difficile per te credere ad una cosa così assurda come la magia" spiegò il ragazzo.
 "Cosa mi faranno?" chiese Eric scoraggiato. Nei suoi occhi lo sconforto era evidente come lo era la sua infinita stanchezza.
 "Non lo so, ma devi resistere, Elliot e gli altri stanno arrivando".
 "Che fortuna! Un gruppo di ragazzini sta per intrufolarsi in una prigione in stile medievale, con chissà quanti guardiani pericolosi. In che modo questo dovrebbe aiutarmi?" la stanchezza si stava rapidamente trasformando in collera. Eric era scattato in piedi e aveva afferrato il ragazzo per il bavero del mantello. Il cappuccio scivolò delicatamente all'indietro scoprendo gli occhi del ragazzo, gonfi di lacrime e di tristezza. Eric lasciò la presa e si rimise a sedere, si prese la testa fra le mani e sospirò. La stanchezza era tornata con la stessa rapidità con la quale era stata scacciata dalla rabbia.
 "Dove mi trovo?" chiese come per cercare di scacciare un pensiero.
 "Sei nella città fortificata di Elengar" rispose la voce nella sua testa. Eric continuò a fissarsi i piedi scalzi. Un topolino squittì in un angolo della stanza e scattò verso la porta.
 "Come facciamo a scappare?" chiese con la stessa naturalezza di una persona che chiede informazioni sul clima.
 "Devi avere fiducia nei tuoi ragazzi, sapranno tirarti fuori da qui" rispose la voce. 
 Eric alzò lo sguardo e un briciolo di collera lampeggiò di nuovo nei suoi occhi "Quindi mi stai dicendo che sai già che sopravviveremo!" chiese rabbioso.
 Il ragazzo rimase immobile. Fu ora il suo turno di abbassare lo sguardo. Non rispose, ma non ce ne fu bisogno. Eric si limitò a sbuffare con aria ironica e a scuotere la testa in segno di disapprovazione.


 Il tintinnio delle chiavi si fece sempre più vicino. Adesso insieme al rumore metallico si potevano udire anche i passi di un uomo che avanzava verso di loro. Nella cella il silenzio era totale ed Eric era in grado di sentire ogni palpitazione del suo cuore. L'ansia lo stava progressivamente divorando. Per la prima volta iniziò a provare paura. Paura per l'ignoto, paura per i suoi allievi, paura della morte.
 "Ora devo andare, da qui in avanti dovrai cavartela da solo" disse la voce nella sua testa. Eric non si sprecò nemmeno ad alzare lo sguardo. Non un cenno di saluto ne una parola. Continuò a fissare il pavimento con ostinazione e rabbia. Paura e collera.
 Il ragazzo era sparito esattamente come era comparso. Eric continuò a tenere lo sguardo basso ma sapeva di essere di nuovo solo nella stanza. Il pesante rimbombo dei passi si arrestò in corrispondenza della sua porta e il rumore della chiave che cercava la sua strada all'interno della toppa gli fece gelare il sangue.
 La porta si spalancò ed un uomo enorme con una casacca nera con una croce bianca al centro fece il suo ingresso nella stanza. Eric ricordò di aver già visto quel simbolo. Era impresso sulle divise dei due soldati che lo avevano catturato. Ricordò finalmente il percorso che lo aveva portato in quella prigione. La cattura. Il viaggio a cavallo con le mani legate. Le continue cadute e le conseguenti perdite di conoscenza. L'interminabile salita costantemente in curva che li aveva condotti fino alla cima di una montagna come mai ne aveva viste. Le mura. Il castello. La cella.
 L'uomo enorme si fece da parte e lasciò il passo ad un suo commilitone. Decisamente più piccolo. Non troppo, aveva una corporatura molto simile a quella di Eric, forse solo un po' più magro, però accanto a quella montagna umana dava l'idea di essere infinitamente piccolo.
 Aveva dei lunghi capelli neri e si fece avanti sorpassando il gigante che lo aveva accompagnato. Si avvicinò ad Eric che continuava a starsene seduto sulla tavola di legno con lo sguardo perso nel vuoto, accecato dalla poca luce che filtrava dalla porta alle loro spalle.
 "Il mio nome è Nikolas" disse e rimase in silenzio come per attendere una risposta, ma vistosi ignorato riprese "Di solito quando qualcuno si presenta, è buona educazione rispondere presentandosi a propria volta".


 Eric sorrise. Fissò Nikolas negli occhi e ne sostenne lo sguardo, infine disse "Abbiamo un concetto di educazione differente. Dalle mie parti è considerato alquanto scortese prendere uno sconosciuto, tirargli una freccia nel polpaccio, arrestarlo e sbatterlo in prigione senza motivo".
 Nikolas sembrò divertito da quello scambio di parole "Hai ragione, ma da quel che mi risulta tu hai aggredito uno dei miei uomini. Anche questa è una cosa che non andrebbe fatta. Diciamo che siamo pari" disse il soldato sorridendo e tendendo la mano in segno di pace. 
  Eric ignorò la mano e continuò a fissare Nikolas negli occhi. Si alzò in piedi e si accorse di essere di poco più alto del suo interlocutore. Questo doveva infastidire non poco il soldato che in risposta distolse finalmente lo sguardo. "Quindi posso andarmene tranquillamente per la mia strada" esclamò ironico Eric.
 "Oh, ma certo che puoi. E' sufficiente che tu risponda ad alcune domande e poi te ne potrai andare" concluse Nikolas facendo segno con la mano all'energumeno di spostarsi e indicando la via libera.
 "Non so nulla di quella ragazza che stavate inseguendo, l'abbiamo incontrata per caso e non ho neanche avuto modo di scambiarci due parole."
 "Mi hai frainteso. Non mi importa nulla di quella ragazza. L'ho fatta seguire dai miei uomini con una scusa solo perché non mi era permesso di dire loro la verità. La verità è che io sapevo che sareste arrivati -si, proprio così! Sto parlando di te e di quei ragazzini- e sapevo che quella ragazza ci avrebbe condotti da voi".
 Eric rimase spiazzato, il ragazzo che gli aveva fatto visita pochi istanti prima gli aveva detto un sacco di cose inutili, ma doveva aver tralasciato di avvertirlo che lo scopo della retata nel bosco era proprio catturare loro, o perlomeno uno di loro. Lui.
 Si chiese quante possibilità ci fossero che il ragazzo non ne fosse a conoscenza, ma non seppe darsi risposta.
 Nikolas si aggiustò la divisa e ricominciò a parlare "Vedi, qui comando io ma, come tutti, anche io rispondo agli ordini di qualcuno. Questo qualcuno mi ha avvertito che dei forestieri sarebbero giunti in queste terre e che io avrei dovuto catturarli. Questa è la mia missione, il mio scomodo incarico. Non è nostra intenzione farvi del male, vogliamo solo scoprire come avete fatto ad arrivare 'qui'. Perciò ora ci sediamo e tu mi racconti tutto."
 "Lo farei molto volentieri" rispose Eric sedendosi di nuovo sulla branda di legno "ma non ho la più pallida idea di cosa tu stia parlando".
 Nikolas si sedette al suo fianco e attese qualche istante, si voltò verso di lui e sorrise. "Ne sono certo. Amnesia immagino. Ma non ti preoccupare, abbiamo i nostri metodi per far recuperare la memoria ai prigionieri" detto questo si alzò nuovamente ed uscì dalla cella. Il gigante lo seguì silenziosamente.
 Rumore di chiavi. Rumore di passi. Silenzio. Eric era di nuovo solo.


lunedì 27 dicembre 2010

Inseguimento

Il paggio si stava lentamente avvicinando dal corridoio di nord-ovest. Statue e armature consunte si alternavano tra di loro. Le piccole fiammelle delle lanterne proiettavano le loro tremolanti luci sul pavimento creando strani giochi di ombre. L'ostentata opulenza di quella reggia stonava di fronte alla evidente decadenza della città-alveare. Da quando si erano trasferiti ad Elengar, Nikolas aveva iniziato a comportarsi come se fosse il re di quella città morente. Forte del suo sigillo imponeva il suo volere su una città pigra e senza forza di volontà.
Takalia odiava tutte quelle cerimonie. Stare lì immobile ad aspettare di essere ricevuta al cospetto di quell'uomo che fino a poco prima trattava come un fratello maggiore. Continuò a fissare il paggio avvicinarsi con calma senza muovere un muscolo. Era rosso in volto. Indossava diversi strati di merletti, tessuti vari ed infine un pesante mantello di broccato. Ci si sarebbe tranquillamente potuto ricoprire un intero accampamento militare con tutti quei tessuti che avvolgevano come un salame quel ragazzo. Avrà avuto più o meno 14 anni e probabilmente sarebbe morto soffocato sotto tutta quella stoffa prima di arrivare ai 15.
Arrivò tutto trafelato nonostante il lento incedere. Cercava di nascondere l'affanno respirando a fondo con il naso, ma in questo modo non era più in grado di parlare. Takalia continuò a fissarlo col suo sguardo penetrante senza dare segno di impazienza. Non aveva voglia di vedere Nikolas, quindi ogni scusa era buona per prolungare l'attesa. "Il Capitano Nikolas è disposto a ricevervi. Cortesemente potreste seguirmi?"
Takalia trovò molto buffa la scelta delle parole da parte del paggio. Era convinta che fosse stato Nikolas a farla chiamare, ora invece si dimostrava 'disposto' a riceverla. Il volto del ragazzo era completamente imperlato di sudore. Le guance erano due enormi chiazze rosse. Aveva i capelli incollati dal sudore. Dall'ampio bavero del mantello si alzava un pungente olezzo di rancido misto ad essenze di viole e di mughetto. Takalia dovette fare uno sforzo enorme per non dimostrare tutto il suo disgusto per quell'omuncolo unticcio.
Si incamminarono per i lunghi corridoi della reggia. Il paggio davanti a fare strada con la sua andatura pigra e Takalia subito dietro. Non vi fu scambio di parole tra i due per tutta la durata del viaggio. I corridoi si susseguirono lenti dietro di loro. Tante porte tutte uguali puntellavano le mura ad intervalli regolari. Dame e cortigiani chiacchieravano di futili faccende ad ogni angolo.

Arrivarono di fronte ad una enorme porta istoriata con sopra dei bassorilievi raffiguranti vari avvenimenti storici. Il paggio fece segno alla ragazza di attenderlo. Spinse con quel poco di forza che aveva nelle braccia sui possenti battenti aprendo la porta quel tanto che bastava da consentire il passaggio di un uomo. Una volta dentro il paggio si voltò indietro a fissare la porta riflettendo se fosse il caso di richiudersela alle spalle. L'etichetta avrebbe voluto così, ma poi avrebbe dovuto fare doppia fatica per cercare di riaprirla. Alla fine decise di lasciarla aperta e si diresse di corsa verso il centro della sala. Takalia dalla sua posizione non riusciva ad intravvedere il trono, era coperto da una figura esile dai capelli rossicci e arruffati che le dava le spalle. Teneva il peso appoggiato su un solo piede e aveva le braccia conserte dietro la schiena. Nikolas, oltre a lei, aveva convocato anche Pilsk. La faccenda iniziava a farsi sospetta.
Nei lunghi anni che aveva passato al servizio diretto del Maestro, Takalia aveva imparato a comprendere la gravità delle situazioni con velocità sorprendente. Nel mestiere della spia bisognava essere sempre pronti al peggio. Il più delle volte ci si doveva introdurre in luoghi molto ben sorvegliati senza poter fare conto su armi di qualunque genere. Il silenzio ed il buio erano gli unici compagni delle sue missioni. Takalia aveva imparato a riconoscere ogni rumore, ogni respiro, ogni spostamento d'aria. Ricostruiva nella sua mente il mondo circostante con precisione infinitesimale. Spesso il Maestro l'aveva paragonata ad un pipistrello per quella sua peculiarità. In meno di un battito di ciglia era in grado di interpretare i movimenti che la circondavano definendo le dinamiche di ogni situazione. Poteva prevedere ogni singolo cambiamento e agire di conseguenza.
Adesso la situazione non era del tutto diversa. I segnali erano chiari. Nikolas non voleva uno dei suoi soliti rapporti sull'andamento dell'addestramento del nuovo esercito o sullo stato di attività delle pattuglie. No, voleva affidarle una missione. La presenza di Pilsk indicava anche un certo grado di difficoltà del compito che stava per ricevere. Le spie di solito lavorano da sole, essere affiancati da un armato significa la possibilità di dover ingaggiare battaglia. Nikolas non era uno sprovveduto ed evidentemente aveva valutato i rischi e i benefici che sarebbero scaturiti dall'affiancare i due.
Tutto sommato l'idea le piacque. Erano ormai settimane che controllava le ronde sulle mura di cinta o che teneva lezioni di tattica al rinnovato esercito di Elengar. In tutta la sua vita non si era mai annoiata tanto e l'idea di un po' di movimento le stuzzicava la mente. Il paggio tornò indietro facendole segno di seguirla. Finalmente avrebbe avuto qualche informazione precisa.

Takalia appoggio delicatamente la mano sulla grande porta istoriata e con una leggera pressione la spalancò. Il paggio la guardò interdetto e un po' stupito. La ragazza era molto forte e adorava vedere lo sguardo di stupore che ogni volta si dipingeva sul volto di chi puntualmente finiva per sottovalutarla. Da tempo immemore ormai si addestrava per nascondere la sua femminilità. Si allenava duramente per rendere il suo corpo forte e tonico. Niente in lei, tranne forse il solo sguardo, faceva trasparire il suo essere donna. Quel poco seno che avevo lo teneva costantemente costretto all'interno di una fascia elastica. A vederla da lontano si sarebbe pensato ad un paio di pettorali molto ben allenati, non certo alle morbide forme di una ragazza.
Al suo ingresso Pilsk si girò a guardarla. Appena la vide sorrise e le fece cenno con la mano. Quel ragazzo era sempre allegro e spensierato, anche nei momenti più duri trovava il modo di sdrammatizzare con una battuta, il ché spesso faceva saltare i nervi a Nikolas. Takalia gli si fece vicino e ricambiò il sorriso. Pilsk le si avvicinò e le sussurrò nell'orecchio "Finalmente un po' di movimento". La ragazza aveva visto giusto, Nikolas voleva affidare loro una missione.
"Come sapete siamo venuti qui per via di un semplice furto. Qualcuno è riuscito ad introdursi in questa reggia più di due lune fa" iniziò Nikolas. Se ne stava seduto sul trono a consultare una mappa. Non aveva neanche alzato gli occhi dal foglio per guardare i due. Accanto al trono stava in piedi tronfio e sudato il paggio di corte. La stanza era enorme e completamente vuota. Il trono stava su un piccolo podio con tre gradini a separarlo dal pavimento. Dai lati partiva una fila di colonne che seguiva tutto il perimetro di quella stanza quadrata e sorreggeva l'enorme volta affrescata con al centro un sontuoso lucernario. Aldilà delle colonne si formava una specie di corridoio adombrato che sembrava voler nascondere alla vista le porte che davano accesso alle stanze regali.
"Credevo che il ladro fosse morto suicida" disse Pilsk. Nikolas alzò lo sguardo e sul suo volto si dipinse un sorriso a mezza bocca. "Ho ragione di credere che non sia morto".
"Ma ci sono dei testimoni" protestò Takalia con la sua voce mascolina.
"Certo, due armigeri che si sono fatti scappare il ladro sotto il naso. La loro testimonianza non è molto affidabile" sottolineò Nikolas "inoltre il cadavere non è mai stato trovato."
"Se ci hai chiamato qui immagino che tu voglia che scopriamo chi è il ladro" fece Pilsk.
"No, non credo ce ne sia bisogno. Oggi ho avuto uno scambio di parole con quello che ritengo sia il principale sospettato. Un ragazzo di nome Felz. Ha in programma un viaggio lontano da Elengar dove probabilmente cercherà di smerciare la refurtiva."
"E questo glielo avrebbe detto lui? Non mi sembra una mossa tanto intelligente, persino per un bifolco" sentenziò Takalia. Sapeva chi fosse quel Felz, aveva una birreria in città nella quale Nikolas passava quasi tutte le serate. Il sospetto che la missione avesse un secondo fine di natura personale iniziò a farsi strada nella mente della ragazza. Il Capitano aveva completamente perso la testa per la sorella di quel birraio, aveva perso di lucidità e di razionalità. Era diventato irascibile e lunatico. Non era più il valoroso condottiero che li aveva guidati in dozzine di campagne militari. Si era progressivamente trasformato in un annoiato monarca con una stupida infatuazione per una semplice plebea. Finché però la cosa riguardava solo Nikolas per Takalia non c'erano problemi, ma adesso voleva mobilitare anche i suoi uomini per il suo fine.
"Ovviamente ha accampato una scusa sciocca, ma è evidente che sta cercando di fuggire da qualcosa. Vorrei che lo seguiste e controllaste i suoi movimenti. Avremo bisogno di prove per inchiodarlo".
Pilsk e Takalia si guardarono sbigottiti. Erano increduli di fronte all'inutilità e alla superficialità di quella missione, per di più non erano affatto d'accordo con il loro Capitano e disapprovavano i suoi nuovi metodi. Pilsk provò a lanciare una protesta, ma fu subito zittito da Nikolas "Non vorrete certo mettere in discussione i miei ordini, vero? Lo seguirete e mi informerete di ogni cosa insolita che noterete. Qualora riusciate a coglierlo in flagranza di reato lo arresterete e lo scorterete qui a palazzo dove verrà interrogato."

I due soldati si congedarono dal loro Capitano e tornarono nei rispettivi alloggi per prepararsi alla partenza. Takalia era sconcertata dal comportamento di Nikolas. Avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma non ne aveva l'autorità. Il Capitano aveva la piena fiducia del Maestro e quindi aveva diritto alla sua più completa obbedienza.
Partirono immediatamente. Nelle stalle trovarono due stalloni neri sellati e pronti per essere cavalcati. Due bestie imponenti e veloci che macinarono la strada che separava la città di Elengar dalla vallata sottostante in poco tempo. Corsero a tappe serrate per recuperare il vantaggio che Felz aveva su di loro e prima di sera arrivarono in vista del carro che Nikolas gli aveva descritto. Si tennero ad una certa distanza per non essere visti. I cavalli al trotto e i mantelli a coprire il volto. Con il calare della notte si fecero completamente invisibili.
Il carro si fermò presso un piccolo villaggio, probabilmente per passare la notte. La strada era circondata da campi a maggese. Non un albero né una roccia a fornire riparo ai due soldati. Takalia decise di smontare da cavallo a circa un miglio dal villaggio e di proseguire a piedi. Il carro era lento, il giorno dopo avrebbero avuto tutto il tempo di tornare a riprendere i cavalli e gettarsi nuovamente all'inseguimento. Intanto era importante trovare il modo di controllare cosa trasportasse. Prima avessero verificato l'infondatezza dei sospetti di Nikolas, prima se ne sarebbero potuti tornare a casa.
Si avvicinarono di soppiatto alla stalla nella quale avevano visto entrare il carro. Con il favore della notte avrebbero potuto intrufolarvisi. Appena furono abbastanza vicini da poter osservare l'interno del capanno notarono che Felz non era da solo, ma con la sorella, inoltre avevano organizzato una specie di festa che andò avanti fin quasi all'alba. Takalia rimase di guardia tutta la notte, mentre Pilsk a tratti si addormentava appoggiato al suo arco. I due se ne stavano a poca distanza dalla strada, sdraiati per terra per non essere visti. "Certo non sarebbe male partecipare. Guarda quanta birra che hanno!" Pilsk aveva uno sguardo sognante e in più di un'occasione fu tentato di alzarsi. In un momento di distrazione, il ragazzo riuscì a sottrarsi al controllo di Takalia e ad avvicinarsi alla stalla. "Dove diavolo vai?" chiese la ragazza.
"Sono tutti sbronzi persi, potrei mettermi a camminare sulle mani in mezzo a loro e non si accorgerebbero della mia presenza".
"Torna subito qui".
"Vado solo a fregare un pezzo di pane e una birra! Ho fame e sono stufo dei tuoi fichi secchi".
Takalia si avventò sul compagno e lo costrinse nuovamente pancia a terra. Quando alzò la testa il suo sguardo incrociò quello della sorella di Felz. "Cavolo, ci ha visti!"
"Chi?" chiese Pilsk.
"La ragazza, quella Kaila!" spiegò Takalia.
Pilsk sforzò gli occhi per cercare di vedere meglio "Ma che dici? Guardala, è completamente addormentata, probabilmente se la sta russando alla grande".

La festa finì, ma la notte non era più così oscura. Un leggero bagliore ad est indicava l'imminente sorgere del sole. Forse avrebbero avuto ancora una o due ore di tenebre. Alcuni fattori stavano entrando nella stalla per sbrigare il loro lavoro. Probabilmente a breve avrebbero iniziato a mungere le mucche e il carro non sarebbe più rimasto solo. Decisero di ritornare ai cavalli e rimandare il controllo.
Quando il sole fu alto e il carro lontano da loro, Pilsk si diresse al villaggio per ottenere informazioni. Non era certo al livello di Takalia, ma se la cavava coi travestimenti. Posò arco e frecce ed indossò una casacca di tela marrone. In testa aveva un cappello da pescatore e in spalla una sacca da viaggio che aveva riempito con la sua divisa e altre cianfrusaglie che aveva preso dalle bisacce del suo cavallo. Non era perfetto, ma sembrava un normalissimo viandante squattrinato.
Takalia rimase ad aspettare al margine della strada per circa un'ora quando finalmente Pilsk fece ritorno. "Simpatici questi bifolchi. Mi hanno anche regalato una pagnotta appena sfornata." disse il ragazzo lanciando un involto che Takalia prese al volo. "Allora? Che notizie porti?"
"Come sei formale... comunque niente di ché, erano tutti coi postumi di una sbornia colossale. Mi sa che oggi si lavorerà poco in quel villaggio."
"Possibile che tu non abbia scoperto nulla?" chiese Takalia spazientita.
"Un attimo, ci stavo arrivando" disse il ragazzo mentre si cambiava d'abito e indossava nuovamente la divisa. Takalia cercò di guardare altrove mascherando l'imbarazzo per le nudità del compagno. "Hanno detto che stavano andando a Salingar a vendere la birra, che poi è quello che hanno detto anche a Nikolas. Mah, da quel che mi hanno raccontato sembravano persone tranquille, di certo non dei ladri professionisti. Secondo me quelli non sanno neanche cosa sia un grimaldello, figuriamoci se si intrufolano in una reggia" concluse Pilsk risalendo a cavallo e rimettendosi in spalla il suo arco. "Ah, mi hanno detto che faranno tappa ad Hangwick, pare sia una cittadina a poche leghe da qui".

L'inseguimento proseguì lento. Takalia decise di non rischiare più avvicinandosi al carro. Continuarono a tenersi a debita distanza senza però perderli di vista. Ci vollero un paio di giorni per raggiungere la città di Hangwick. Per tutto il percorso Pilsk cercò di intavolare due chiacchiere con la ragazza. Parlò del tempo, del viaggio, della sua opinione su Nikolas e della sua stupida cotta. Niente. Takalia mantenne il più completo riserbo e non diede modo al compagno di iniziare una discussione, tanto che alla fine Pilsk si mise a cantare per impegnare il tempo. "Conosci qualche vecchia canzone marinara? Mio padre viveva per mare. Non ho mai passato molto tempo con lui, ma quelle poche volte che tornava da mia madre mi cantava un sacco di canzoni". E così il sottofondo musicale andò avanti per tutto il viaggio.
Arrivarono in vista di Hangwick che era già notte. Per le strade del borgo non c'era un anima e il silenzio era inquietante. Solo l'ululato di un lupo in lontananza. "Voglio avvicinarmi al carro. Questa potrebbe essere la nostra occasione migliore per dare un'occhiata" disse Takalia, ma Pilsk le fece notare che Felz e Kaila lo avevano appena chiuso in una specie di rimessa coperta. "Sono piuttosto bravo ad introdurmi nei luoghi chiusi, vedrai che non sarà un problema!" sottolineò la ragazza.
Mentre Pilsk si prendeva cura dei cavalli, Takalia aggirò il capanno per esaminarlo. Era in solida pietra e non c'erano finestre. Il tetto spiovente però doveva avere qualche apertura per permettere alla luce di entrare, quindi la ragazza decise di arrampicarsi.
Takalia non aveva mai visto tanta cura nella costruzione di un muro. Di solito erano sbozzati, con sporgenze di ogni tipo o con crepe tra i mattoni. Questo sembrava perfettamente liscio e solido. Non c'erano appigli per arrampicarsi se non una canalina di scolo per le acque piovane. Ci volle parecchio per riuscire a salire sul tetto, ma alla fine ce la fece. Nel momento in cui i suoi piedi furono saldamente al sicuro sul cornicione del tetto, una luce accecante le ferì gli occhi. Un lampo intenso si era propagato dal bosco sulla collina accanto al borgo e per poco non le faceva perdere l'equilibrio. Quando fu passato alzò lo sguardo e lo lasciò vagare alla ricerca della fonte di quella luce. Mille puntini luminosi affollavano il suo campo visivo, come se un esercito di formiche fatte coi pezzi di un arcobaleno infranto le camminassero dentro gli occhi. Cercò di strizzare le pupille per mettere a fuoco meglio e a quel punto se ne accorse. Alle sue spalle, dietro il vetro di una finestra, una ragazza la stava fissando. Per la seconda volta gli sguardi di Takalia e Kaila si incrociarono.

Takalia si gettò sulla canalina di scolo per scendere a terra. Corse con tutto il fiato che aveva in gola verso il suo compagno "Maledizione, mi ha visto di nuovo".
"Chi?" interrogò Pilsk.
"Chi secondo te? Kaila! Quella mocciosa!"
Pilsk si sforzò di guardare nella direzione della locanda che Takalia gli stava indicando ma non vide nessuno dietro le finestre.
"Sei sicura? A proposito, hai visto quel lampo di poco fa?" chiese il ragazzo.
"Certo che l'ho visto, è per quello che mi ha beccato! Avevo la vista annebbiata dalla luce e mi sono distratto a cercare di capire da dove veniva ! Non ci posso credere, mi ha visto per ben due volte! Nessuno era mai riuscito a vedermi, tutta questa inattività mi sta facendo perdere colpi!"
"Maddai, come ce l'avevi tu, anche lei avrà avuto la vista annebbiata, non si sarà accorta di te!" cercò di confortarla Pilsk.
"Non capisci! Sono più di dodici anni che faccio la spia! Mi sono introdotto in luoghi che tu neanche immagini, e alla fine mi sono fatto beccare da una stupida ragazzina! Per ben due volte!"
"Non farla così tragica Tak, a tutti capita una giornata storta"
"Sono due mesi che non facciamo nulla, che non ci alleniamo. Non svolgiamo un incarico da più di quattro lune. E' inevitabile ridursi in queste condizioni. Probabilmente neanche tu avrai più i riflessi di un tempo con l'arco."
"Ehi, non scherzare, io la mira ce l'ho nel sangue" esclamò il soldato.
"Si certo, come no! Senza allenamento tutti perdono l'abilità, e se non fosse per quell'idiota di Nikolas adesso saremmo in giro per il continente a portare a termine qualche incarico importante."
"E adesso Nikolas che c'entra?"
"Oh andiamo, come fai ad essere così stupido! Dovevamo arrivare ad Elengar, dare un'occhiata in giro e strigliare un po' il capo della guardia. In meno di un mese saremmo dovuti tornare dal Maestro a fare rapporto." Takalia era su tutte le furie e cominciò a riversare su Pilsk tutta la sua frustrazione "E invece guardaci, facciamo da balia ad un esercito pigro e teniamo d'occhio la ragazza di cui il nostro Capitano si è infatuato!"
"Beh, effettivamente Nikolas è cambiato parecchio" confermò Pilsk.
"Si è fatto corrompere dal potere e dalla ricchezza. E' diventato un inetto ipocrita e opportunista. Ormai non lo riconosco più. Se solo il Maestro sapesse, sono sicura che prenderebbe provvedimenti!" concluse la ragazza.
"Problemi di identità?" chiese Pilsk.
"Cosa?" disse perplessa Takalia.
"Hai detto 'sono sicurA'. Non suona molto virile" apostrofò il ragazzo.
"Avrai sentito male" glissò la ragazza.
"Sarà! Comunque è ora di nascondersi, quel Felz sta uscendo dalla locanda" concluse Pilsk.

I due uscirono fuori dalle mura della città e raggiunsero la biforcazione della strada che portava a Salingar in attesa del passaggio del carro. Trovarono riparo dietro una piccola macchia di arbusti. Felz e Kaila non si fecero attendere a lungo. Il rumore degli zoccoli dei cavalli riecheggiò nel silenzio dell'alba. Sempre più vicino. Takalia si sporse per osservare la scena e vide un'ombra scendere dal pianale del carro e schizzare in direzione della collina.
"Seguiamo la ragazza" sussurrò Takalia.
"Perché? Nikolas ci ha chiesto di seguire Felz e il suo carro" protestò Pilsk.
"Già, ma da quel carro è appena scesa una ragazza con un enorme cappuccio calato sul volto e con una sacca sulle spalle. Non ti viene qualche sospetto?" spiegò Takalia ma Pilsk continuava a sembrare perplesso. "Oh, andiamo, come arciere sarai bravo, ma come investigatore non vali un soldo di cacio. Probabilmente la refurtiva ce l'ha la ragazza e adesso dobbiamo scoprire dove la sta portando".
"Ma non eri tu quello che diceva che Nikolas si era inventato tutto e la storia del furto era solo una scusa per ottenere informazioni su quella ragazza?" osservò Pilsk.
Takalia non rispose. La questione era spinosa. Forse Nikolas non era impazzito. Aveva sicuramente subito il fascino del potere e della ricchezza, ma forse aveva visto giusto sul furto. Forse non si era infatuato di quella ragazza, ma aveva veramente avuto fin dall'inizio dei sospetti su quella coppia. Per un attimo sentì il peso delle sue accuse e si pentì di averle mosse. Avrebbe almeno dovuto concedere il beneficio del dubbio al suo Capitano.
I due si incamminarono cercando di seguire l'ombra della ragazza che correva tra i tronchi di quelle enormi querce. Il pendio della collina era abbastanza dolce, ma non c'era un sentiero preciso da seguire, quindi Pilsk propose di aspettare il sorgere del sole per poter seguire le tracce della ragazza senza rischiare di perdersi all'interno di quel bosco così intricato. Il soldato si rivelò essere un perfetto segugio. Con il favore della luce identificò ogni passo della ragazza e ne ricostruì il percorso. Prima del calare del sole riuscirono a raggiungerla, ma rimasero spiazzati da ciò che trovarono. Kaila non era sola. Un gruppo di ragazzi e un uomo di mezza età bivaccavano insieme a lei in una radura intorno ad un piccolo fuoco. Takalia si avvicinò per cercare di osservare meglio. Notò che c'era un'altra ragazza distesa su una lettiga in evidente stato confusionale, aveva una gamba fasciata e steccata. Tutti i nuovi arrivati avevano abiti strani. Sembravano usciti da un circo.
"Non sembra un esercito. In realtà hanno l'aria di essere fenomeni da baraccone, ma non sembrano pericolosi" spiegò Takalia a Pilsk.
"Hai visto la refurtiva? Magari la ragazza la sta vendendo" si informò il ragazzo.
"No, non l'ho vista, ma la sacca di Kaila ora e vuota. Inoltre hanno un ferito. Forse sono delle spie" ipotizzò Takalia.
"Beh, allora che aspettiamo, andiamo a catturarli" Pilsk sembrava emozionato e felice, come se non aspettasse altro.
"Sono in tanti, non sarà facile" obiettò Takalia.
"Ho un idea. In questi casi non serve catturare tutti, l'importante è cercare di prendere uno del gruppo per interrogarlo, poi magari cerchiamo anche di prendere Kaila, così Nikolas è contento".
"E l'idea dove sarebbe?" chiese Takalia ironica.
"Spaventiamoli. Se non sono organizzati probabilmente si sparpaglieranno e sarà più facile seguirne uno e catturarlo. Io inizio a perseguitarli con le mie frecce e tu li catturi. "

Pilsk si allontanò silenziosamente. Takalia sentì il sibilo sordo di una freccia provenire dal folto del bosco e poi tante voci concitate che si sovrapponevano. Decisamente non erano organizzati. La luce del fuoco si spense e il rumore pesante dei passi si sparse tra gli alberi. Pilsk riusciva a dirigere il gruppo in fuga nella direzione che voleva lanciando frecce sui lati del percorso. Takalia si mise in moto e cercò di raggiungere il gruppo mantenendosi nell'ombra quando improvvisamente da un cespuglio saltò fuori un ragazzo. Era strano, era difficile distinguerlo nel buio e riuscì a coglierla impreparata. Il ragazzo le si avventò addosso e la gettò in terra. Takalia fece per rialzarsi ma l'uomo che aveva visto nell'accampamento uscì da dietro un albero e le bloccò i movimenti. "Chi diavolo sei e cosa vuoi da noi?" Chiese il ragazzo mentre Takalia cercava di divincolarsi dalla presa salda dell'uomo. La teneva stretta da dietro con le braccia intorno al petto, mentre con un ginocchio le teneva le gambe bloccate contro il tronco di un albero. Takalia non rispose e continuò ad agitarsi. Non era abituata a farsi prendere di sorpresa e aveva perso la lucidità che di solito l'accompagnava. Non riusciva a concentrarsi e si era fatta prendere dal panico. Fece un respiro profondo e cercò di calmarsi per trovare il modo di contrastare l'uomo, ma non ce ne fu bisogno. Un urlo di dolore arrivò dalle sue spalle e la presa si allentò, Takalia si girò di scatto e di fronte a sé vide Pilsk con l'arco puntato e con una freccia incoccata. "Tranquillo, come vedi non ho perso la mira, l'ho solo colpito alla gamba" disse rivolto alla ragazza, dopodiché si voltò verso il suo assalitore e tese la corda dell'arco "Ora se volete farci il favore di stare buoni eviteremo inutili spargimenti di sangue".
Takalia si mise alle spalle di Pilsk mentre il ragazzo corse verso l'uomo ferito per cercare di soccorrerlo "Prof, come stai, va tutto bene?" chiese il giovane.
"Non preoccuparti, sto bene" cercò di mentire l'uomo.
Pilsk passò il suo stiletto e una corda a Takalia "Io vado a cercare Kaila, tu cerca di calmarti e lega questi due. Cura la ferita di quel tizio, altrimenti non ci arriva vivo ad Elengar." Detto questo sparì tra gli arbusti lasciando Takalia da sola.
Le tremava ancora la mano e si sentiva stupida. Si ricordò del suo primo incarico quando per poco non si fece catturare. Il Maestro la trasse in salvo uccidendo con una strana arma i tre armigeri che aveva alle costole. Anni e anni di allenamenti si erano annullati con pochi mesi di ozio. Si ripromise di ricominciare da zero l'addestramento una volta tornata a palazzo.
Legò i polsi dei due prigionieri e tolse la freccia dal polpaccio dell'uomo. L'urlo di dolore fece scappare alcune civette appostate sull'albero. Mentre fasciava la ferita si accorse che la luminosità era aumentata, si voltò verso la cima della collina e vide delle fiamme altissime che stavano divampando tra le fronde degli alberi ormai quasi del tutto spogli. Sentì il calore delle fiamme da quella distanza e poi fu solo dolore. "Scappa!" urlò l'uomo che con un calcio aveva atterrato Takalia. "Ma lei..." provò a dire il ragazzo ma l'altro lo interruppe "Pensa solo a scappare, io me la caverò".
Takalia cercò di voltarsi verso il ragazzo ma aveva ancora le idee confuse. Sentì solo il rumore dei passi veloci che si allontanavano e l'odore acre del sangue che le colava dal labbro. Il fumo riempì l'aria e il rumore del crepitio del fuoco si fece più forte. "Che diavolo è successo qui?" Pilsk era tornato col fiatone.
"Il ragazzo è scappato!" spiegò Takalia con lo sguardo basso.
"Non fa niente, dobbiamo scappare. Prendo io il tipo". Afferrò l'uomo per un lembo di quella strana veste e lo tirò in piedi. Di nuovo un urlo di dolore. "Non fare la femminuccia, appoggiati a me e non cercare di scappare altrimenti stavolta ti ammazzo" minacciò Pilsk incamminandosi.
"Ma da dove viene quel fuoco?" chiese Takalia.
"Non è di quello che devi preoccuparti. Siamo inseguiti dai lupi e a quanto pare il fuoco non li spaventa" urlò Pilsk mentre accelerava il passo verso valle.
Avrebbero avuto fin troppe cose da spiegare a Nikolas al loro ritorno.


lunedì 13 dicembre 2010

Braccati

Se ne stava lì, ferma sul bordo della voragine a fissarmi. Bella, per carità, però forse un po' idiota. Era in controluce, quindi non riuscivo a vederla bene, ma sembrava avesse indosso un sacco di patate e dei pantaloni anni '60, probabilmente ricavati da un altro sacco di patate. Cercavo di sorriderle per farle capire che non ero pazzo. Mi stava venendo una paresi alla faccia. Intorno a me c'erano alcuni oggetti. Tutto ciarpame e paccottiglia. Eccolo. Quel grosso candelabro mi era finito diritto in testa. Una male cane. Forse aveva scambiato quel buco per una discarica, perché quelli che aveva buttato avevano tutta l'aria di essere rifiuti. Quelle cose inutili che si ritrovano aprendo le scatole dopo un trasloco e che non sai proprio dove metterle. Alla fine il secchio della spazzatura si rivela essere sempre il posto più adatto. Non capisco però come facesse a sapere di quel buco. Se non fosse per noi che ci siamo crollati dentro, quello doveva essere un bel terreno piatto e apparentemente solido.
"Ehi, dico a te, lassù. Avremmo bisogno di aiuto. Siamo bloccati qui sotto da ieri sera. Abbiamo una corda, ma ci serve che qualcuno la leghi ad un albero". La corda. Bella storia quella della corda. Peter e il prof l'avevano legata ad un albero prima di cadere, eppure adesso se ne stava lì per terra con la cima tutta bruciacchiata. Come se fosse stata tagliata con una fiamma e ributtata dentro al buco. Tutta colpa di Elliot. Sinceramente ancora non riesco a capire cosa abbia combinato. All'improvviso il suo sguardo era diventato vitreo. Camminava come uno zombie verso il centro della stanza e poi... Boh! Ricordo solo che stava canticchiando una specie di canzoncina in una lingua strana che per quel che mi riguarda poteva anche essere aramaico antico. Poi c'è stata l'esplosione, ma non un'esplosione vera, solo luce. Un lampo accecante e un sibilo fortissimo che ci ha fatto perdere conoscenza. Quando mi sono ripreso c'era solo Elliot in piedi al centro della stanza. Se ne stava lì fermo con lo sguardo basso. All'inizio avevo pensato fosse uno scherzo di cattivo gusto quindi gliele volevo suonare di santa ragione, però quando l'ho strattonato sembrava come se si fosse appena svegliato. Aveva sussultato. Lo sguardo era tornato normale, anzi, sembrava sperduto. Incredulo quanto me. "Che è successo?" mi aveva chiesto. "E che ne so io? Sei tu quello che è diventato strano!"
E pensare che lo stavo rivalutando. Tutto sommato si era comportato bene in quella situazione particolare. Non aveva perso lucidità nel momento del pericolo e mi aveva anche aiutato a sistemare Lara. La prima conseguenza pratica di quello strano lampo è che i fantasmi che avevano illuminato la stanza fino ad un attimo prima se l'erano squagliata. Evidentemente si erano spaventati. Poverini. A quanto pare non si limitavano ad illuminare la stanza, ma la riscaldavano anche. Una volta spariti, il freddo aveva riempito tutta la cupola. Un freddo umido, tipico delle cantine d'inverno. Una sensazione tremenda perché senti uno ad uno tutti gli arti che ti si intorpidiscono. Lara aveva iniziato a tremare e con quella brutta frattura rischiava di non superare la notte, così a turno l'abbiamo coperta con le nostre giacche. Il risultato è stato che Lara aveva smesso di battere i denti mentre noi avevamo iniziato.
Il Professor Stevens aveva acceso un bel fuocherello con alcuni rami secchi, ma non era servito a granché. Tutti quanti avevamo un cellulare, ma sembrava non esserci campo. Non c'era modo di chiamare aiuto. L'unica nostra speranza era quella ragazza. Imbambolata e più spaventata di noi. "Cosa ci fate lì dentro?" chiese. Un vero genio. "Facciamo una piccola vacanza, non si vede?" Non doveva essere molto pratica del concetto di sarcasmo perché il suo sguardo sembrò sempre più confuso. "Siamo caduti ieri sera. Eravamo su alla villa e scendendo il terreno ci è franato sotto i piedi". Forse era meglio cercare di evitare le battute ironiche, dopotutto era la nostra via d'uscita da quella situazione insostenibile. "Quale villa?" Ok, idiota era un po' riduttivo. Che vuol dire 'quale villa'! Casale Spavento si vede anche da un chilometro di distanza. Con certa gente è meglio andarci con i piedi di piombo "Senti, abbiamo solo bisogno di qualcuno che ci leghi la corda ad un albero, così usciamo, portiamo la nostra amica in ospedale e non diciamo a nessuno che cos'hai buttato qui dentro". Quelle ultime parole dovevano aver colpito nel segno perché la ragazza sembrò riscuotersi dal torpore e ridiventare lucida. Legai la corda al candelabro che mi aveva colpito in testa e glielo lanciai. Lei lo prese al volo, slegò la corda e ributtò giù il candelabro. Per poco non mi colpiva di nuovo "Oh, scusa". Idiota e imbranata. Prese la corda e la legò ad un tronco. Essendo tagliata era più corta, ma sembrava essere sufficiente.
"Allora, Elliot e Peter salgono per primi. Io e il professore rimaniamo giù ad assicurarci che Lara non cada di nuovo". Lara era pallida in viso e aveva la fronte imperlata di sudore. Probabilmente aveva la febbre. Faceva fatica a respirare. Aveva assoluto bisogno di un dottore. Ci volle un po', ma alla fine riuscimmo a farla risalire dal buco. Una volta salita Lara fu il nostro turno. Il professore volle a tutti i costi far salire prima me. Come se finora fosse servito a qualcosa il suo aiuto.

Impiegai un po' per capire. E tuttora non sono sicuro di aver afferrato bene. La ragazza, Kaila, non era del tutto stupida. Effettivamente la villa non c'era. Scomparsa. Anzi, come se non fosse mai neanche esistita. Ma non era tanto quello a preoccuparmi, quanto il fatto che anche la nostra città sembrava essere sparita. Vicino al buco c'era una radura e da lì si vedeva chiaramente. Al posto della città era sorto una specie di borgo medievale. Uno di quelli che si vedono sui libri di storia. Inoltre in lontananza si vedeva una... beh, sembrerebbe proprio una montagna, ma in quella zona non c'erano montagne. Oddio, non che io sia un esperto di geografia, ma una montagna come quella l'avrei notata. Alta e a punta con sulla vetta delle specie di... torri? Avevano tutta l'aria di essere le dita di una mano, ma a rifletterci bene sembravano più le torri di un castello.
"Dove diavolo siamo finiti?" chiese Peter. "Direi esattamente dove eravamo ieri sera. Noi non ci siamo spostati" fece il prof andando da una parte all'altra della radura "guardate la collina, è identica a come era ieri sera. Gli stessi alberi, lo stesso buco. La cupola lì dentro non sembra diversa da ieri sera. E' come se tutto il resto del mondo fosse cambiato all'improvviso". Kaila sembrava decisamente perplessa. Non avevo sbagliato di molto ad identificare i suoi vestiti. Certo, non erano sacchi di patate, però ricordavano molto gli abiti da contadini che si vedevano al museo di storia medievale. Non dovevano venire dagli anni '60, ma più probabilmente dal '600. "E se fossimo tornati in dietro nel tempo?" Lo dissi quasi scherzando, ma gli altri sembravano prendere l'ipotesi sul serio. "No, non è possibile, altrimenti il buco si sarebbe richiuso" mi rispose Peter. Dovevo decisamente smetterla con le battute sarcastiche, sembravo essere l'unico ad avere un minimo di senso dell'umorismo.
"Beh, adesso che facciamo? In ogni caso dobbiamo far curare Lara, cercheremo più tardi di capire cos'è successo". Nessuno si preoccupava della ragazza. Tutti erano molto più interessati a capire dove fossimo finiti. Mi sentivo debole, come tutti del resto. La nottata ci aveva sfiancati e non avevamo nulla da mangiare. Il borgo sembrava essere molto lontano e se davvero eravamo finiti indietro nel tempo dubito che avremmo potuto comprare del cibo coi nostri soldi. "Avete fame?" disse Elliot. "No, perché io sto morendo e qui ho parecchia roba". Non lo capisco quel ragazzo. Non si era portato neanche una torcia elettrica, però aveva tanto cibo in quello zaino da poter sfamare un esercito. Anche Lara si riprese un po' dopo aver mangiato e bevuto un succo di frutta. Elliot la aiutò sia a mangiare che a bere come un bravo infermierino. Bah, all'inizio mi era sembrato di capire che si odiassero, ma evidentemente mi ero sbagliato. Quei due sembravano parecchio legati. Lui era estremamente servile e lei era tutta un sorriso.

Il problema principale per potersene andare da lì era trovare il modo di spostare la barella di Lara. Con l'aiuto del professore e di Kaila ci procurammo una serie di rami per rinforzare la struttura della lettiga e un paio di bastoni particolarmente lunghi da usare per trasportarla a braccio. Kaila sembrava sempre sul punto di dirmi qualcosa, ma poi abbassava lo sguardo e si allontanava. Forse avrei dovuto darle corda, ma non era il momento. All'improvviso poi sparì esattamente com'era comparsa. Il tramonto calò in fretta e probabilmente ci saremmo dovuti accampare lì. Kaila tornò con alcune strane foglie e delle bacche. Non esattamente quello che mi aspettavo per cena. "Non si mangiano queste. Servono per la gamba della vostra amica. Sono erbe curative". Beh, almeno Lara sarebbe arrivata viva fino all'indomani.
Preparammo un grande falò che ci permettesse di combattere il freddo della notte e consumammo in fretta i pochi avanzi che Elliot aveva conservato. "Da dove venite?" chiese Kaila. Avrei voluto risponderle, ma sinceramente non sapevo cosa dirle. "Io vengo da quella città laggiù. Quella sulla cima del monte. Si chiama Elengar. Non la conoscete, vero?" Sembrava sapere cosa stesse accadendo. "Tu sai come siamo finiti qui?" chiese il professore. "Sinceramente no, ma comincio a credere che quel lampo di luce che ho visto ieri sera foste voi. Probabilmente vi siete teletrasportati". Il lampo era un dato di fatto, l'aveva visto anche lei, ma l'idea del teletrasporto era davvero insolita. "Non sai cosa sia un accendino, ma sai cos'è il teletrasporto?". Sembrava che la cosa la facesse ridere. "Certo che lo so, è una magia che permette ad oggetti e persone di spostarsi da un luogo ad un altro. Non sono una strega ma qualcosa sulla magia la so anche io". Dopo questa le avevo davvero sentite tutte. Pazza, come altro definirla. Adesso si era messa a blaterare di magia come se fosse la cosa più normale del mondo. Certo che da quel poco che so sul Fantasy, quello che Elliot aveva pronunciato all'interno della cupola aveva tutta l'aria di essere un incantesimo.

Fu rapido come un fulmine. Ne riuscii a sentire solo il sibilo. Il rumore sordo del metallo che si conficcava nel legno attirò il mio sguardo. Una freccia si era conficcata nell'albero accanto a quello al quale ero appoggiato. Mi voltai verso gli altri "Qualcuno ci sta... sparando... come diavolo si dice quando ti tirano una freccia?". Kaila scattò in piedi. Buttò il resto della sua acqua sul fuoco per spegnerlo. "Presto! Dobbiamo scappare! Mi hanno seguita!".
"Chi diavolo sono? E come facciamo con Lara?"
"Non lo so, ma se vuoi puoi rimanere a chiederglielo. Dobbiamo risalire la collina".
Oh che bello, anche Kaila sapeva essere sarcastica. Peccato per la pessima scelta dei tempi. Elliot ed io sollevammo di peso la portantina con Lara sopra e iniziammo a correre dietro a Kaila. Veloce la ragazza. In pochi minuti ci aveva quasi seminato. Frecce su frecce continuavano a conficcarsi nei tronchi degli alberi lungo il nostro cammino. O il tizio aveva una pessima mira o stava cercando di farci cadere in una trappola. "Non ce la facciamo a correre più veloce con Lara in queste condizioni". Peter, che ci aveva superato, si fermò di colpo. "Dividiamoci! Io sono di sicuro il più veloce, posso cercare di attirarmeli dietro e darvi il tempo di scappare. Ci vediamo domattina dall'altro lato della collina". Non ricordavo fosse così coraggioso. Lui era quello che si defilava sempre quando mi avvicinavo ad Elliot. "Non fare l'eroe, quelli ti ammazzano". Non sembrava rendersi conto del pericolo. Prima che riuscissimo a farlo ragionare era già scattato verso valle. "Fermati!" Il professore sembrava disperato. Perdere un alunno in una bravata notturna non doveva essere una cosa carina da scrivere sul curriculum. "Voi andate avanti e proteggete Lara, a lui ci penso io". Scattò all'inseguimento di Peter lasciandoci da soli con Kaila. La ragazza si fermava di tanto in tanto per permetterci di raggiungerla, ma le braccia iniziavano a cedere.
Il rumore delle frecce sembrava aver deviato percorso. Forse Peter e il prof erano riusciti nel loro intento, ma Elliot ed io eravamo al limite. Non saremmo riusciti a trascinarci dietro la barella per molto ancora. A valle calò il silenzio. Kaila ci fece segno di raggiungerla, aveva trovato una specie di piccola rientranza nella roccia che poteva fornirci riparo. Nascondemmo per bene Lara e ci accucciammo tra le rocce. Le braccia erano puro dolore e facevo fatica a respirare. Difficilmente sarei riuscito e risollevare di nuovo quella barella.

Ci furono lunghi momenti di silenzio rotti solo dall'ululato di un lupo in lontananza. "Ehilà! Dove siete? E' inutile che vi nascondete, abbiamo catturato i vostri amici e tra poco sarà il vostro turno. Vogliamo solo la ragazza!".
Elliot ed io ci girammo verso Kaila che sembrava sorpresa quanto noi. "Allora, si può sapere chi sono? E cosa vogliono da te?"
"Fanno parte di un esercito speciale. Non ne so molto. Da poco controllano la guardia di Elengar. Quella roba che ho buttato nel buco l'avevo rubata nel palazzo reale. Devono averlo scoperto e mi avranno seguita". Perfetto, ci trovavamo in un mondo sconosciuto insieme ad una criminale ricercata. Beh, non importava molto di quali crimini si fosse macchiata, ci aveva salvato la vita e non l'avrei lasciata nelle mani di quei tizi. Il problema è che non sapevo proprio cosa fare. Avevamo lasciato tracce ovunque. Se quello era anche solo un cacciatore mediocre, ci avrebbe trovato in pochi minuti.
Elliot si alzò in piedi all'improvviso. "Scemo, torna giù, ti farai beccare!" Si muoveva con quel passo incerto che già aveva mostrato nella cupola. Lo afferrai per un braccio e lui si voltò di scatto. Aveva di nuovo quello sguardo vitreo ed esanime. Sembrava un morto che camminava. Devo ammettere di essermi spaventato. Ovviamente solo per un attimo. Mica ho paura dei morti io. Però lasciai andare la presa ed Elliot ricominciò a camminare. Raggiunse il centro del sentiero e si fermò. Un bersaglio facilissimo. Vidi la freccia avvicinarsi a lui quasi al rallentatore. No, un momento. Non ero io a vederla al rallentatore. Era proprio la freccia che stava rallentando. Elliot aveva alzato la mano davanti a sé e il palmo gli si era leggermente illuminato. La freccia si fermò a mezz'aria e prese fuoco. In quello stesso istante da ogni albero o cespuglio di fronte ad Elliot si alzarono enormi fiamme. Un vero e proprio muro di fuoco si formò di fronte al ragazzo. Si estendeva per centinaia di metri in entrambe le direzioni. Dovevo decisamente riconsiderare come attendibile l'ipotesi del teletrasporto magico.
Il pericolo era passato. Nessuno sarebbe riuscito ad oltrepassare quell'inferno. Potevamo scappare. Dovevamo trovare il modo di liberare Peter e il prof, ma se Elliot poteva usare la magia, forse ce l'avremmo fatta. Andai da lui per congratularmi sinceramente. Gli diedi una pacca sulla spalla e lui trasalì. "Che è successo? E da dove viene il fuoco?"
"Sei stato tu, non ricordi?"
"Io? Ma che stai dicendo, io ero con te nel nascondiglio... un momento, come ci sono arrivato qui?"
"Eri tipo in trans. Non so come hai fatto, ma ci hai salvato. Ora andiamo. Dobbiamo scappare".
Kaila sembrava sorpresa quanto me. Forse neanche in quel mondo assurdo era così usuale vedere un mago all'opera. Comunque l'incombenza di Lara ci riportò alla realtà. Elliot ed io risollevammo la barella con enorme fatica e ricominciammo a muoverci. Andavamo piano. Un po' perché ci sentivamo più sicuri, un po' perché eravamo allo stremo delle forze.
La salita era finita, avevamo raggiunto la vetta. Là dove doveva sorgere Casale Spavento c'era solo una piccola radura. Al centro sgorgava una polla d'acqua. Un posto perfetto per recuperare un po' di energie. Appena depositata Lara a terra, quasi mi tuffai con la testa nell'acqua gelida. Avevo freddo, ma la sensazione era stupenda. Sembrava quasi di rinascere. Bevvi tutta l'acqua che riuscii ad ingoiare. Quando riemersi vidi che Kaila aveva seguito il mio esempio. I capelli bagnati le calavano sulla fronte e i suoi occhi risplendevano al buio.
Solo Elliot non si era tuffato. Dallo zaino aveva preso un bicchiere di carta e faceva la spola tra la pozza e Lara. Effettivamente la ragazza era quella che aveva più bisogno di rinfrescarsi. Doveva avere la febbre alta e Elliot faceva di tutto per abbassarle la temperatura. Tamponava la sua fronte con un fazzoletto imbevuto d'acqua e ogni volta che ne aveva bisogno le portava altra acqua.
Per un attimo le appoggiò la mano sul ventre e chiuse gli occhi con forza. Forse voleva provare a curarla con la magia, ma senza alcun esito. Rimanemmo lì per un po'. In lontananza si sentiva ancora il crepitio dell'incendio che Elliot aveva appiccato. Grosse nuvole di fumo si alzavano verso il cielo. L'odore del legno bruciato riempiva l'aria. Kaila si alzò e si scrollò via la terra dai pantaloni. "Dobbiamo andare. Quel fuoco non li terrà impegnati per molto". Ci alzammo controvoglia e ci stiracchiammo. Eravamo stanchi ma non era quello il momento di riposarsi, così ci incamminammo con Kaila in testa.
Avevamo appena iniziato a scendere dall'altro versante della collina quando all'improvviso la ragazza si immobilizzò. "Che succede?" fece Elliot andandole quasi a sbattere addosso. "Lupi!" rispose lei.
Davanti a noi si era schierato un intero branco di lupi. Dovevano essere almeno una dozzina e altri si stavano avvicinando dietro di noi. Eravamo completamente circondati. "Ok Elliot, questo è il momento di fare un'altra di quelle cose alla Harry Potter".
"Non ho la più pallida idea di come ci sia riuscito."
"Basta una scintilla. Un fuocherello. I lupi si spaventano facilmente con queste cose."
"Ti ripeto che non so farlo a comando. C'ho già provato prima."
I lupi si avvicinavano lentamente. Lara era una preda troppo facile. Era impossibile proteggerla in quella situazione. Non c'era via di scampo. Proprio nel momento in cui pensavamo di esserci salvati.
Bel modo di concludere la giornata.


martedì 7 dicembre 2010

Pioggia Battente

Felz si alzò di buon ora. La luce ancora non filtrava dalle imposte e il profumo di pane fresco non si spandeva nell'aria. Kaila probabilmente stava ancora dormendo. Si mise a sedere sul letto per non rischiare di riaddormentarsi. Era stanco, mai come in questi giorni c'era stato tanto da fare. Aveva ripulito la taverna e riportato indietro buona parte dei barili di birra. Aveva preparato dei secchi con il mangime degli animali. Dosi ben ponderate per durare abbastanza tempo da permettergli di arrivare a Salingar e tornare indietro senza rischiare di ritrovare le bestie morte di fame. Suo padre Ivan avrebbe potuto facilmente sfamarle versando il contenuto dei secchi nella mangiatoia ogni giorno.
Aveva portato i cavalli dal maniscalco per ferrare gli zoccoli e aveva contattato diverse badanti per trovare quella più adatta ad occuparsi del padre durante la loro assenza. Alla fine aveva optato per Olga, la corpulenta cuoca della caserma di Elengar. In questo periodo di ristrutturazione dell'esercito aveva perso il lavoro e quindi aveva iniziato a fare la badante. Quella mattina Felz sarebbe andato in città a prenderla per portarla a casa. Prima però doveva passare dalla birreria per appendere il cartello che avvisava gli avventori della temporanea chiusura.
La tentazione di rimettersi a dormire fu grande, ma alla fine riuscì ad alzarsi. Una volta fuori dall'uscio di casa si fermò un attimo ad ammirare il panorama. In venticinque anni non si era mai alzato così presto. Nonostante la sua sorellina gli avesse più volte parlato della cascata di nebbia che in autunno ricopre il versante del monte Hoen, lui non l'aveva mai vista. Era uno spettacolo incredibile. Surreale. Un leggero chiarore iniziò a dare colore alle cose. Il canto del gallo in lontananza confermava l'arrivo dell'alba. Del sole però non c'era traccia. Troppo impegnato a nascondersi dietro un fitto strato di nubi scure. L'eco leggero di un tuono arrivò a preannunciare l'avvicinarsi di un temporale. Pessimo momento per mettersi in viaggio. Ormai però era tutto organizzato e più tempo passava e più Kaila rischiava di essere scoperta. Sarebbero partiti comunque, ma prima avrebbe inchiodato qualche asse sul carro per fare da tettoia contro la pioggia.

I cavalli erano ancora addormentati e ci vollero parecchie carrube perché diventassero collaborativi. Li portò fuori dalla stalla e li legò al carro. Alcuni rumori arrivarono da dentro casa. Probabilmente Kaila si stava svegliando. Forse al suo ritorno avrebbe trovato del pane fresco. Il freddo era liquido. Si infiltrava fin dentro le ossa. Le mani si intorpidivano e i piedi arrancavano.
Il tragitto verso Elengar fu breve. Senza carico, i cavalli coprirono il percorso in meno di venti minuti. La città era ancora addormentata. Il silenzio rendeva ogni passo oltremodo rumoroso. Davanti al Grande Portone le guardie erano sveglie e vigili. Cosa insolita a quell'ora del mattino. I grandi cambiamenti si notano dalle piccole cose. Insieme ai due armigeri di guardia c'era un ragazzino con una casacca nera. Portava sulle spalle faretra e arco, mentre al fianco, dal fodero della spada, spuntava quello che sembrava essere l'impennaggio di una freccia. Sul petto portava l'insegna dell'Esercito Unificato e probabilmente era lì per controllare l'operato delle guardie del Portone.
Sembrava annoiato da quell'incarico. Era completamente assorto nel compito di limare la punta di una freccia. Gli armigeri però non sembravano rilassarsi, ogni tanto lanciavano qualche occhiata indietro per controllare la sua posizione. Felz fece cenno di saluto con il capo ad entrambi. I due militari si limitarono a spostarsi lasciando libero il passaggio. Mentre attraversava il Portone colse con la coda dell'occhio lo sguardo del ragazzino. Aveva una specie di ghigno stampato sulla faccia mentre lo fissava.

Decise come prima cosa di passare alla birreria. La strada era completamente sgombra e silenziosa. Gli stoppini dei lampioni erano già stati spenti. La luce mozzata di quel mattino uggioso rendeva difficile distinguere le forme. La taverna di famiglia si trovava sul corso principale che dal Grande Portone arriva fino al piazzale della Reggia. Felz però era solito entrare dall'ingresso posteriore, e per raggiungerlo era necessario addentrarsi nell'alveare di case che componevano la cittadella esterna.
Il silenzio era snervante. Il ragazzo dell'Esercito aveva messo Felz di cattivo umore. Si sentiva come un ladro braccato. Il ché non era troppo lontano dalla verità. Solo che il ladro era sua sorella. Kaila era sempre stata una ragazza amabile, dolce e disponibile. Eppure da sempre nei suoi occhi c'era un velo di malinconia. Una tristezza nascosta e radicata che sembrava non conoscere conforto. Era sempre taciturna. Da piccola si rintanava nei luoghi più ameni pur di essere lasciata in pace. Più di una volta lui e suo padre si erano presi un bello spavento vedendola arrampicarsi su alberi, tetti e rocce. Non era mai caduta e mai aveva dimostrato timore. Quando si arrampicava sulla vetta del suo piccolo mondo sembrava ritrovare la calma, la serenità. La tristezza però, quella non se n'era andata mai.
Poi un giorno era cambiata. Aveva ritrovato il sorriso e la spensieratezza. Aveva trovato qualcosa per cui vivere. Felz non avrebbe mai sospettato che potesse essere stata sua sorella a commettere il furto, ma quando Kaila glielo confessò non ne rimase sorpreso. In fondo aveva sempre saputo il perché di quella tristezza inconsolabile. Lo sapeva perché in parte la condivideva. Entrambi sapevano che nella loro vita mancava qualcosa. Qualcosa che gli era stato strappato via da piccoli. E non era solo l'affetto della madre ciò di cui si sentivano privati. No, loro sentivano di aver perso le loro origini. Certo, Kaila accusava maggiormente questa mancanza, ma anche Felz non vi era rimasto indifferente. Forse fu questo il motivo che lo spinse a non arrabbiarsi con la sorella e a cercare in tutti i modi di aiutarla. In fondo anche lui voleva conoscere il contenuto di quel diario.

Un gatto attraversò la strada all'improvviso e Felz sussultò. Non era abituato a perdersi nei suoi pensieri. Era un tipo pratico e meticoloso. Non certo un sognatore. Dal giorno del furto probabilmente era cambiato qualcosa anche in lui e adesso iniziava ad accorgersene.
Raggiunse il retrobottega della taverna. Il vicolo era stretto. Il carro ci passava per poche spanne. Era uno di quei vicoli senza uscita dove non ci sono finestre a fare capolino sulla strada. Felz legò i cavalli davanti all'ingresso ed entrò nel locale. Tutto era perfettamente in ordine e da terra si alzava profumo di pulito. Tutte le sedie erano disposte a rovescio sul bancone e sui tavoli. Tutte le bottiglie erano state portate in cucina e i boccali di vetro erano stati riposti negli armadietti sotto il bancone. Con una mano sfiorò il bancone e si sorprese a pensare alla sua vita. Tutto il suo mondo esisteva all'interno di quelle quattro mura. Aveva dedicato ogni suo giorno, ogni suo momento, ogni suo respiro a quel locale. Si chiese se fosse davvero quello il suo posto. Se non avesse sprecato il suo tempo per seguire una stupida tradizione di famiglia. Non aveva neanche avuto il tempo di trovarsi una moglie per colpa di quella maledetta taverna.
Cercò di cacciare via quel pensiero e andò a prendere il cartello che Kaila aveva preparato. Doveva semplicemente appenderlo sulla porta e andarsene. Almeno per qualche giorno avrebbe condiviso qualche momento piacevole con sua sorella. Non avevano mai avuto del tempo da trascorrere insieme. Quando Kaila era abbastanza grande per correre e giocare, Felz aveva ormai iniziato a lavorare con il padre alla birreria. Avrebbe approfittato di quella vacanza improvvisata per cercare di recuperare un po' del tempo perduto.
"Andate da qualche parte?" La voce arrivò improvvisa. Felz non si era accorto di avere qualcuno alle spalle. Non aveva sentito nessuno avvicinarsi, nonostante il silenzio accentuasse ogni singolo rumore. Perse la presa sul cartello che cadde a terra. Si chinò per raccoglierlo senza voltarsi. Sapeva a chi apparteneva quella voce. In città c'era un nuovo Capitano e spesso lo aveva visto seduto al suo bancone. Mai una volta aveva consumato qualcosa. L'unica cosa che riusciva a fare era spaventare la clientela. "Gli affari non vanno bene, andiamo a vendere le scorte di birra in un'altra città" rispose in tono asciutto. Senza far trapelare tutto l'astio che aveva in gola. "Capisco. E per quanto rimarrete chiusi?". Felz non era stupido, aveva visto come quell'uomo guardava sua sorella e sinceramente non gli piaceva. Avrebbe voluto rispondergli a tono, magari anche dargli una bella lezione. Non solo allontanava i clienti, ma stava rovinando la vita della sorella. Purtroppo però il coraggio non era una delle sue virtù quindi lasciò cadere l'argomento. "Partiremo oggi, ma potremmo doverci fermare lungo la strada. Il tempo non promette nulla di buono."
"Potrei mandarvi una scorta, non si sa mai quali pericoli potreste incontrare nel tragitto, e io sono pieno di uomini scansafatiche che non hanno alcun impiego se non sperperare il denaro del regno. Un po' di moto gli farebbe bene". Ci mancava solo la scorta. Dei militari che accompagnano dei fuggiaschi a seppellire della refurtiva. Forse avrebbe anche trovato la cosa divertente in altre circostanze. "Non ci serve il tuo aiuto". Rispose Felz ormai sul punto di esplodere. Si rese conto di aver calcato troppo l'accento su 'tuo' e capì al volo che l'atteggiamento del Capitano era cambiato. Gli si fece vicino. Felz sentì il suo fiato sul collo. "Non ti conviene avermi come nemico" gli sussurrò gelido nell'orecchio. "Vi auguro un buon viaggio" aggiunse sprezzante mentre si allontanava nei vicoli dell'alveare.

Gocce d'acqua iniziarono a cadere leggere. Poi via via sempre più intense. Un tuono squarciò il silenzio. Tambureggiante e battente, la pioggia riempì l'aria. Grosse pozze iniziarono a formarsi lungo la strada. Piccoli ruscelli cominciarono a solcare i vicoli della città. La rabbia di Felz aveva raggiunto il limite. Nessuno avrebbe messo le mani su sua sorella.
Corse nel retrobottega. Prese alcune tavole di legno che avevano tenuto da parte per accendere il fuoco e iniziò a costruire la tettoia per il carro. Batteva sui chiodi con tutta la rabbia che aveva in corpo. Sfogava la sua impotenza contro quelle poche assi di legno. I tuoni si facevano sempre più forti e facevano da sottofondo al suo animo inquieto. Il lavoro che ne uscì fuori non era perfetto, ma sarebbe bastato a proteggerli dalla pioggia. Caricò sul carro i pochi barili di birra rimasti nel locale e montò la tettoia. Era ora di partire.
Raggiunse l'abitazione della badante che le strade erano già diventate un torrente in piena. Olga era sull'uscio ad aspettare e quando vide arrivare il ragazzo si illuminò in volto. "Pensavo che non venivi più. Con 'sto tempo scuro!" Felz non rispose e la donna notò lo sguardo cupo del ragazzo. Rimasero in silenzio per tutto il tragitto di ritorno. Ci volle del tempo perché le strade erano quasi impraticabili.
"Non è meglio se partite domani? E' pericoloso andare in giro con 'sta pioggia" cercò di farlo ragionare Olga, ma Felz voleva mettere più leghe possibile tra sua sorella e il Capitano e voleva farlo il più in fretta possibile. Voleva fuggire. Una volta raggiunta la fattoria, corse verso la cantina sotto la pioggia per caricare il carro con più barili possibili. Fece attenzione a riporre quello con la refurtiva in fondo a tutti gli altri, così da rimanere al sicuro da eventuali controlli. Il carro si stava lentamente riempiendo d'acqua piovana. Coprì le botti con quanti più teli riuscì a trovare per proteggerli dalla pioggia e alla fine tornò alla stalla.

Kaila lo stava aspettando. Era avvolta nel suo grande mantello col cappuccio calato fin sopra gli occhi. Aveva in mano un grosso fagotto che sosteneva a fatica. Sembrava allegra e spensierata. Quasi non si accorse dell'aria funerea del fratello. "Qui ci sono le provviste per il viaggio. So che tu e papà di solito vi fermate nelle locande, ma preferisco di gran lunga la mia cucina... e poi mi è venuta una strana voglia di ciliege sotto zucchero". Sembrava il ritratto della felicità. Tutta quell'allegria era contagiosa e Felz si ritrovò a scherzare con la sorella come se non fosse successo nulla. Iniziò a sentirsi più sereno. Erano al sicuro e si sarebbero allontanati. Per almeno un paio di settimane sarebbero stati tranquilli. In quel mentre li aveva raggiunti anche Ivan che, come Olga, cercò di convincerli ad aspettare la fine del temporale prima di intraprendere un viaggio così lungo. I due non vollero sentire ragioni e partirono senza altri indugi.
La pioggia era incessante, ma la tettoia teneva. Per Kaila questo era il primo viaggio. Non aveva mai visto il mondo oltre le pendici della montagna e tutto sembrava meraviglioso. Continuava a chiedere informazioni su tutto. Dalla durata del viaggio a quali villaggi avrebbero incontrato lungo il cammino. Chiese dove avrebbero dormito e si informò sui costi delle varie locande di cui Felz le parlava. Sembrava una fonte inesauribile di domande.
Ogni tanto qualche tuono interrompeva le loro discussioni, ma nessuno dei due sembrava darci peso. Il Capitano, l'Esercito, la refurtiva. Tutto sembrava un problema lontanissimo e intangibile. Finalmente avevano il tempo di stare insieme e non lo avrebbero sprecato rimuginando sui loro problemi.
Il viaggio era iniziato.


lunedì 6 dicembre 2010

Un Incarico Scomodo

Il crepitio del fuoco andava lentamente scemando. Grossi pezzi di carbone perdevano rapidamente la loro sfumatura rossastra. Piccole fiammelle si agitavano agonizzanti su un letto di cenere cercando gli ultimi brandelli di legno di cui nutrirsi. Le ombre si amalgamarono col buio impietoso della notte. Un leggero alito portò via l'ultima parvenza di tepore rimasta, lasciando solo il freddo e il gelo a spartirsi l'aria. Nikolas non temeva le basse temperature. Nella sua terra aveva conosciuto il vero freddo, quello che ti gela le ossa. Era cresciuto sentendo il suo respiro condensarsi sulla pelle del suo viso. Quel mite venticello di fine novembre era come una calda vacanza estiva per il suo animo congelato.
Le terre della Stirpe di Mana erano considerate maledette. Il gelo sferzava quei luoghi come per punirli della colpa di cui si erano macchiati. Ormai erano passati più di duemila anni dal termine della Grande Guerra, eppure gli eredi di quella Stirpe venivano ancora additati come rinnegati. Nessuno si fidava di loro. Non ancora. Nikolas era il primo erede di quella gloriosa Stirpe a varcare i confini delle terre di Hoen dai tempi della fine della Guerra. Quando gli fu affidato l'incarico di andare a presidiare la capitale di quel regno da sempre considerato nemico, per un attimo si sentì mancare. Non era paura la sua, anzi, era fiero di quel compito. No, la sua era rabbia. La rabbia frustrata degli sconfitti. Una rabbia non sua, ma della sua gente, che tutta insieme si riversò nelle sue vene e nella sua anima lasciandolo sbigottito. Perché lui? Il Maestro sapeva delle sue origini. Era l'unico a saperlo. Nonostante ciò aveva deciso di mandare lui per quell'incarico. Non riusciva ad apprezzare la sottile ironia di un discendente dei Mana sul trono di Elengar.

Avevano avvistato la montagna sulla cui vetta si ergeva maestosa la capitale fin dal giorno del loro sbarco ad Yrida, la città frontiera. Il porto dal quale tutte le navi da e per il continente dovevano passare. L'unica città portuale sulla riva nord dello stretto. Il primo fronte di difesa delle terre di Hoen.
Avevano perso due giorni tra controlli e perquisizioni. Non si facevano sconti, neanche di fronte al sigillo regale. Il sigillo che Nikolas portava al collo. Un medaglione d'oro massiccio recante impresso lo stemma della Stirpe alla quale un tempo i suoi antenati avevano dichiarato guerra. Il peso di quell'ornamento era aggravato dal peso dell'ipocrisia che sentiva addosso mentre lo indossava. Eppure non l'aveva mai tolto, faceva parte del compito assegnatogli.
Il Maestro aveva una sola parola, e non era molto incline ad accettare obiezioni. Ma a Nikolas stava bene. Si trovava a suo agio ad eseguire gli ordini, di qualunque natura fossero. Aveva bisogno di una guida, di qualcuno che gli indicasse il cammino. Il Maestro aveva preso quel povero ragazzino mendicante che passava la sua esistenza ai margini della vita e lo aveva trasformato in un vero uomo. Un soldato eccellente. Il Capitano della guardia. Ora era stimato e temuto dai suoi uomini. Aveva un posto che poteva chiamare casa. Aveva trovato una ragione per vivere, per sopportare quel senso di inadeguatezza che il gelo delle sue terre aveva instillato fin dentro la sua anima.

Una volta oltrepassate le mura di Yrida, l'avevano vista. Alta e magnifica. Quasi irraggiungibile. La città di Elengar con le sue torri infinite era l'unica cosa che osasse interrompere la linea dell'orizzonte. Ogni giorno di cammino diventava sempre più imponente. Man mano che il drappello guidato da Nikolas si avvicinava alla montagna Hoen, la capitale diventava più nitida. Le sue torri perdevano quell'aspetto mistico di una mano ungulata che ghermisce il cielo. Iniziarono a distinguere le fattorie sul versante della montagna. Videro le piccole torrette di guardia che puntellavano le mura a ritmo regolare. Impararono a riconoscere gli ugelli che in tempo di guerra venivano usati per versare la pece e l'olio bollente sugli assedianti. Ci volle più di una settimana a cavallo perché potessero raggiungere le pendici di quella montagna solitaria.
Quella sarebbe stata la loro ultima notte all'addiaccio. All'alba Nikolas avrebbe svegliato i suoi uomini e avrebbero iniziato la scalata del versante meridionale. Se fossero riusciti a mantenere un buon passo avrebbero raggiunto la città nel primo pomeriggio. Finalmente un po' di riposo.
Stando a quanto gli era stato detto, la città imprendibile era stata presa. In realtà non era successo niente di grave: un ladruncolo si era introdotto all'interno della reggia e aveva sottratto alcuni oggetti di poco conto. Tra l'altro sembrava che il tizio per evitare la cattura si fosse suicidato. Caso chiuso. Il problema stava proprio nel fatto che qualcuno avesse trovato il modo di violare il ventre di quella che per il mondo intero era diventato il simbolo dell'impenetrabilità. Nella storia i figli del monte Hoen avevano radicato nel loro animo il senso della sicurezza. Da qui i controlli maniacali, le mura invalicabili intorno ad ogni città, le navi che pattugliavano le coste. Eppure qualcuno aveva trafitto quella sicurezza direttamente al cuore. Vista in quest'ottica quella che in principio sembrava una sciocchezza - quale reggia al mondo non è mai stata preda di furti - finì per diventare un caso politico. Il Maestro aveva giocato bene le sue carte e aveva convinto il re della Stirpe di Hoen a inviare un gruppo dei suoi fidati soldati per verificare le norme di sicurezza della città e, qualora ce ne fosse bisogno, rinforzarle.

Nikolas si sentiva come alla vigilia di un assalto. Il ché non era del tutto sbagliato visto chi era lui e dove si stava recando. Questa volta però non ci sarebbero state vittime. Ciononostante non riusciva a prendere sonno, erano giorni che non chiudeva occhio. Iniziò a sellare il cavallo per tenersi occupato. I suoi uomini erano rannicchiati nei loro giacigli di piume d'oca. Profondamente addormentati ma sempre con una mano sull'elsa della spada. Li conosceva bene ormai. Sarebbero scattati in piedi alla sua prima parola. Anni e anni di addestramenti serrati li avevano uniti. Ormai si intendevano alla perfezione. Era sufficiente uno sguardo per comunicare un ordine. Non potevano definirsi amici, no, il loro legame andava oltre, ognuno di loro avrebbe dato la vita per proteggere la squadra. Nessuno veniva mai lasciato indietro. O si avanzava uniti e compatti, o si moriva insieme nel tentativo.
Pilsk era il più giovane del gruppo. Lo avevano beccato a rubare nell'armeria dell'esercito pochi anni prima e per penitenza lo avevano arruolato. Il Maestro era scaltro: uno che riusciva ad aggirarsi indisturbato per i corridoi della caserma era sicuramente un valido elemento. Si beccò novecento frustate per quella bravata, poi però fu affidato alle 'amorevoli' cure del Capitano. Adesso se ne stava lì, accovacciato come un bambino vicino ai resti del fuoco e abbracciato ad una freccia. Ne teneva sempre una nel fodero della spada. Quel fodero avrebbe tenuto tranquillamente uno spadone a due mani, invece ospitava una freccia e uno stiletto. Quest'ultimo era completamente arrugginito, non era mai stato usato. Anche nel corpo a corpo Pilsk brandiva le sue frecce come fossero spade. Aveva una mira infallibile. Era in grado di colpire una noce da 500 iarde di distanza con vento a sfavore. Si diceva in giro che avesse discendenze elfiche, ma per il Capitano non era un problema. Nessuno meglio di lui conosceva l'amaro sapore della discriminazione.
Hector era il muro di difesa del gruppo. Aveva l'imponenza del tronco di una quercia secolare e tante cicatrici sulla pelle da farla sembrare la corteccia di un albero. Era alto più di due metri e combatteva con la grossa ascia che portava legata sulla schiena. Malgrado l'apparenza era di un'agilità incredibile. Entrò nell'Esercito Unificato ancor prima del Capitano. Nessuno conosceva la sua età ne la sua voce. Da quando fu affidato al comando di Nikolas non aveva mai proferito verbo. Le sue origini erano avvolte dal mistero come anche il perché si fosse unito spontaneamente all'esercito - di solito si veniva convocati, e nessuno era mai felice di questo onore.
Ariel era l'unico a non avere una spada. Non ne aveva bisogno. Il suo ruolo era quello del cerusico. Curava le ferite degli altri e si occupava di sfamarli. Un ottimo cuoco. Era riuscito a preparare un pasto decente anche mentre erano dispersi nelle paludi di Terahd. Sapeva produrre ogni tipo di antidoto e medicina. Lui ad Elengar c'era già stato. E si era diplomato a pieni voti alla scuola di magia. Il Maestro aveva voluto che ogni squadra fosse accompagnata da un mago. In battaglia Ariel sapeva attaccare bene quanto i suoi colleghi pur mantenendosi a debita distanza dal fronte. Era la retroguardia del gruppo. L'arma più preziosa nelle mani del Capitano.
Tak era Tak. Nikolas conosceva il suo segreto, ma una donna nell'esercito era qualcosa di anomalo. Il suo nome reale era Takalia. Nessuno però, fatta eccezione del Maestro e del Capitano, ne era a conoscenza. Tak era l'esperta di veleni e di mimetismo. Era stata per anni la spia personale del Maestro. Era riuscita ad ottenere tutte quelle informazioni che avevano permesso al loro capo di raggiungere le vette del potere. Ora che la posizione del Maestro era consolidata, era stata assegnata al Capitano. Da anni viveva come un uomo. Camuffava le sue forme grazie alla sua arte del travestimento. Prendeva ogni sera una mistura di sua invenzione che le abbassava il tono di voce. Portava i capelli sempre rasati, solo lo sguardo tradiva una femminilità dimenticata.
Quello era il suo gruppo. Il gruppo del Capitano Nikolas. Il più temuto di tutto l'Esercito Unificato. L'unico al quale il Maestro avrebbe affidato la sua stessa vita. L'unico che poteva accollarsi una missione tanto delicata.

Dalla vetta della montagna iniziò a scendere lenta una leggera nebbia che andò ad annegare la vallata. Il cielo iniziò a schiarirsi sotto una fitta coltre di nubi. L'ora del risveglio era arrivato. Il Capitano chiamò a raccolta i suoi uomini che, dopo pochi preparativi, erano pronti a partire. Montarono a cavallo e si incamminarono verso la loro meta. Verso il loro ultimo giorno di viaggio.
Si unirono alla lenta processione di fattori che portavano la loro merce in città. Raggiunsero il Grande Portone nel primo pomeriggio. Furono subito bloccati dalle guardie che mal tolleravano i forestieri. Solo il sigillo regale gli permise di avere accesso alla città. "Avrò bisogno di incontrare il vostro capitano. Ditegli che lo attendo tra un ora nella Sala del Trono." Nikolas si rivolse ad uno degli armigeri più giovani che subito scattò tra le vie del borgo per consegnare il messaggio.
Vagarono un po' senza meta tra i vicoli dell'alveare. A vederli sembravano sperduti, in realtà stavano studiando la città. Conoscere ogni via di fuga e ogni punto debole di una città era alla base di ogni strategia militare. Alla fine si fermarono alla stalla comunale dove smontarono i cavalli. Si separarono. Il Capitano si diresse verso la reggia mentre lasciò detto ai suoi di continuare l'ispezione della città a piedi.
La Sala del Trono era chiusa da diverse generazioni. Il paggio incaricato di accompagnare Nikolas fece fatica ad aprire le imponenti porte in rovere i cui cardini erano ormai profondamente arrugginiti. Era un luogo insolito per tenere una riunione militare. La scelta del Capitano era però studiata a fondo. Ricevendo qualcuno nella Sala del Trono indossando lo stemma regale avrebbe aiutato a definire facilmente il rapporto che si intende instaurare. Nikolas voleva imporsi sull'esercito locale facendo valere la sua autorità e oscurando quella del capitano di Elengar rendendolo un suo subalterno. Nessuno aveva ostacolato il suo cammino fin lì, addirittura alcuni cortigiani si erano inchinati al suo passaggio. Tutto quello spettacolo visto dagli occhi di un rinnegato aveva un ché di surreale. Andava contro l'ordine naturale delle cose. Eppure era lì, a farsi benedire dalle damigelle e omaggiare dai cavalieri. Un vinto sul trono dei vincitori.

Eric, il Capitano della Guardia di Elengar si presentò al cospetto di Nikolas senza farsi annunciare. Puntò dritto sull'avversario con una mano stretta a pugno su un fianco e l'altra saldamente aggrappata all'elsa della spada. Nikolas non si scompose. Si era comodamente adagiato sul trono e non azzardò nessuna reazione all'arrivo dell'altro. "Che ci fate voi qui? Nella mia città? Sul trono del mio sire?" Eric sembrava sul punto di esplodere.
"Ah, questa sediola è un trono? Non l'avrei mai detto! Sono qui per ordine del vostro sire" Nikolas fece segno al suo paggio che consegnò una pergamena al capitano Eric "Come potete leggere mi conferisce pieni poteri! I vostri poteri, per essere precisi. Da oggi sarete al mio servizio" concluse. "Cosa? E' uno scherzo!" Eric cercò di leggere la pergamena più in fretta possibile trattenendo a stento la nausea "Temo di no, mio caro amico! C'è stata garantita la vostra massima collaborazione! Siamo qui per il bene di Elengar!" Eric era furibondo, ma Nikolas intravvide nei suoi occhi un cenno di resa. Il suo furore doveva lasciare il posto al senso del dovere. Gli ordini del re andavano sempre onorati. "Non sono vostro amico, e nemmeno un vostro sottoposto..." Eric fissò intensamente il pavimento meditando su come terminare la frase, poi alzò gli occhi furenti e semplicemente se ne andò. Calcava su ogni passo come un elefante in una radura. Ora la città apparteneva al Capitano. Nikolas si prese un attimo per assaporare la sensazione.
Dopo aver oziato un po' nei suoi pensieri, raggiunse la sua squadra nell'alveare. Si incontrarono di fronte ad una taverna locale che il sole stava iniziando a tramontare. "Ehi Capo, come la vedi una bella mangiata? Ora qui ce la comandiamo, un po' di riposo ce lo siamo meritato". L'insolenza di Pilsk ormai faceva parte della quotidianità. Non avrebbe mai permesso a nessuno di rivolgerglisi in quella maniera. Ma Pilsk faceva parte della compagnia ed aveva dimostrato la sua lealtà in più di un'occasione, quindi Nikolas lasciava correre quelle sue esplosioni di gioventù. Abbozzò un sorriso e fece a tutti cenno di entrare.
Si diresse direttamente al bancone mentre gli altri prendevano posto intorno ad un tavolo. Voleva approfittarne per chiedere qualche informazione all'oste, ma fu preso in contropiede. Se c'era una cosa che a Nikolas proprio non riusciva, era di rivolgersi con disinvoltura alle donne. Ci riusciva con Tak solo perché l'aveva sempre vista prima come un compagno di squadra che come una vera donna. Inoltre lei faceva di tutto per nascondere la sua identità. Ma quella che gli si parò davanti era tutta un'altra cosa. Una ragazza bellissima. Folti capelli neri e ricci racchiudevano come un caschetto quei lineamenti delicati e quegli occhi del colore dell'ambra. Lei lo fissò con quel suo sguardo penetrante e per un attimo Nikolas perse il senso del tempo. Doveva essere molto giovane, decisamente più piccola di lui. Forse aveva quindici o sedici anni, ma aveva le fattezze di una donna. Il naso piccolo e le guance morbide, le labbra carnose e di un rosso vivo. Se ne stava lì a pulire in maniera eccessiva un unico boccale vuoto. Sembrava intimorita. Capitava spesso quando la gente lo guardava. Cercò di intavolare una discussione, ma capì subito di aver sbagliato tono, perché la ragazza si mise sulla difensiva e scappò alla prima occasione.
Era rimasto abbagliato da quella visione. Non gli era mai capitata una cosa del genere. Tutto sommato quella missione poteva avere qualche risvolto positivo. Andò a sedersi coi suoi commilitoni e finalmente si rilassò. Tra il vociare dei suoi uomini e gli sguardi rubati alla ragazza della birreria finalmente iniziò a sentirsi sciogliere un po' di quel gelo che lo attanagliava dentro.
Nikolas aveva ritrovato il sorriso.