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venerdì 7 gennaio 2011

Poteri

 La piccola stanza era quasi completamente buia. Una flebile luce ambrata filtrava dalle imposte chiuse rendendo a malapena distinguibile il mobilio presente. Una cassapanca chiusa se ne stava appoggiata ai piedi del letto situato sulla parete opposta alla finestra. Un piccolo tavolino era disposto accanto alla porta con un vaso in terracotta appoggiato sopra. Al suo interno una silenziosa calendula se ne stava a bagno in poche dita di acqua. Elliot se ne stava seduto su quel materasso troppo piccolo per la sua statura. Con le spalle appoggiate alla parete, teneva le ginocchia vicino al petto e continuava a fissarsi i palmi delle mani. Aspettava come se da un momento all'altro quelle potessero parlargli, raccontargli, spiegargli ciò che gli stava accadendo, ma le sue mani continuarono a rimanere silenti, e così il resto della camera. Un lieve spiffero dalla finestra. Lo zampettio di un qualche insetto solitario. Per il resto solo silenzio. Il silenzio è il rumore dei pensieri che si affollano. I dubbi che cercano una risposta. Il cuore che cerca di rasserenarsi. Una sensazione di malessere allo stomaco lo stava facendo impazzire. Non era dolore fisico, semplicemente un accumulo di sentimenti repressi che gli stavano agitando i succhi gastrici. 
 L'arrivo ad Hangwick era stato quasi un evento sensazionale. Erano stati accolti come degli eroi, anche se in realtà non avevano fatto un bel niente. Anzi, avevano dato fuoco al bosco e per poco non si facevano ammazzare. Cosa ci fosse di così sensazionale in quegli eventi ad Elliot non era ancora chiaro. Avevano dato loro degli alloggi e degli abiti puliti. Peccato che in quel mondo sotterraneo tutto fosse troppo piccolo per loro. I letti troppo corti, le sedie troppo basse, gli abiti troppo risicati. In un mondo di Nani loro erano come giganti fuori luogo. Tutto sommato la cosa non gli aveva creato problemi, Elliot era solo felice che finalmente qualcuno potesse prendersi cura di Lara. Lara. Era passato solo un giorno da quando erano partiti per la loro avventura. Ventiquattro ore o poco più. Eppure gli sembrava così lontano il tempo in cui la odiava. Si era preso cura di lei come non aveva mai fatto con nessun altro. Anche quando Peter era partito per la sua folle missione suicida, l'unico pensiero di Elliot era di tenere al sicuro Lara quasi dimenticando le sorti del suo migliore amico.
 Adesso Lara era al sicuro e tutto ciò che aveva forzatamente ignorato fino a quel momento era tornato a far visita alla sua anima. Peter si era sacrificato per la loro salvezza e lui non poteva fare nulla per aiutarlo. Il non sapere che fine avessero fatto il suo amico e il professore lo stava uccidendo. Sperava che un miracolo facesse apparire tra le sue mani un'immagine dei due al sicuro da qualche parte. Al riparo dai soldati e da chissà quali altri pericoli. Aveva visto una magia del genere in qualche film e si chiedeva se in quel mondo una cosa del genere fosse possibile. In due diverse occasioni aveva dimostrato di essere in grado di usare degli strani poteri, ma lui non ne aveva memoria. Era stato Mallory che glielo aveva raccontato. Gli aveva detto che sembrava posseduto, come uno zombie. L'ombra di se stesso. Più si sforzava di ricordare, più il mal di testa aumentava.
 Elliot aveva la sensazione di avere una zona della sua mente completamente offuscata dalla nebbia. Cominciava ormai a credere all'ipotesi di essere posseduto. Qualcuno o qualcosa si era stabilito dentro di lui e guidava i suoi movimenti, modificava la sua sorte. Si sentiva impotente di fronte a quell'idea. L'idea di non essere più padrone di se stesso. Aveva provato a replicare il miracolo, a fare qualche magia, ma non ci era riuscito. Avrebbe voluto usare quei poteri per curare Lara e per salvare Peter, ma non c'era stato verso.
 Forse quell'energia che aveva dimostrato di possedere era in realtà il frutto del sortilegio di qualcun altro. Forse lui non aveva alcun potere. Forse era solo Elliot Summer, lo sfigato cervellone di una scuola che in quel mondo neanche esisteva. Forse i poteri appartenevano a quello spirito che albergava tra le nebbie della sua mente e della sua anima. Se fosse riuscito a controllare la magia avrebbe avuto la prova di non essere posseduto da una qualche entità misteriosa, ma non ebbe successo.

 Continuava a fissare intensamente le sue mani nella speranza di vedere i palmi illuminarsi come aveva detto Mallory. Si sforzava di concentrarsi, di imprimere la sua forza in unico punto come se stesse cercando di rompere una noce a mani nude, ma senza stringere il pugno. Niente. Le mani erano solo mani e lui era solo un ragazzo qualsiasi. Elliot non voleva necessariamente avere dei poteri, ma voleva a tutti i costi trovare un senso a quelle ultime ore. Voleva capire cosa si agitava dentro di lui, perché fossero arrivati in quel posto e soprattutto perché proprio lui. Che cosa aveva di diverso rispetto a tutti quegli idioti che ogni anno ad Halloween cercavano di intrufolarsi a Casa Madison? Era quasi un'usanza, ma nessun ragazzo era mai sparito sul serio. Elliot ricordò i fantasmi di nebbia. Non era mai stato così spaventato in vita sua, eppure anche quello adesso sembrava un ricordo lontano, appartenente ad un'altra vita.
 Un leggero scricchiolio ritmico proveniva dal corridoio fuori dalla sua porta. Si faceva sempre più forte come se qualcuno stesse camminando su quel pavimento di legno. Passi. Passi lenti e cauti che si avvicinavano alla sua stanza. Elliot intravvide un ombra dalla fessura sotto la porta. I secondi passarono e l'ombra rimase immobile.
 All'improvviso sembrò voler proseguire oltre. Alcuni passi scricchiolarono nuovamente sul legno, poi tornò indietro e di nuovo l'ombra si parò davanti alla sua porta. Altri secondi di silenzio passarono in cui Elliot si mise seduto con i piedi poggiati in terra. Le gambe del letto erano sensibilmente basse, tanto che ebbe la chiara sensazione di essere seduto sul pavimento. Due colpi secchi rimbombarono nella stanza. La porta aveva vibrato debolmente e poi di nuovo era sceso il silenzio. Un lungo silenzio di attesa. Elliot non aveva voglia di vedere nessuno e aspettò immobile nella speranza che chiunque fosse venuto davanti alla sua porta decidesse di andarsene senza poi ripensarci per tornare indietro.
 "Elliot, ci sei?" sussurrò la voce di Mallory. Elliot c'era, ma non voleva essere disturbato, soprattutto non da Mallory. Il bulletto. Quello che gli aveva dannato l'anima, che se non fosse per lui adesso se ne starebbe comodamente sdraiato sul letto di casa sua a preoccuparsi dell'interrogazione di storia. Invece era lì su quel materasso troppo piccolo in quella stanza opprimente a schiumare di rabbia per colpa di quel deficiente.
 La maniglia della porta si abbassò lentamente producendo un leggero cigolio. Mallory sembrava esitare ed Elliot era tentato di andargli a sbattere la porta in faccia. Aprì quasi con circospezione, senza esagerare, come una persona che lentamente si avvicina ad una belva feroce con l'inspiegabile istinto di volerla accarezzare. La luce del corridoio riempì progressivamente la camera infastidendo gli occhi ormai abituati al buio di Elliot. Ci vollero alcuni minuti perché i suoi occhi riuscissero a mettere a fuoco la figura del ragazzo che stava in piedi davanti l'uscio.

 I due si fissarono per qualche istante ed Elliot ebbe il tempo di riflettere su come anche i sentimenti per Mallory fossero cambiati in quelle poche ore. I due si odiavano, questo era un dato di fatto, eppure all'inizio di quell'incredibile avventura Elliot più di una volta era stato contento di avere Mallory al suo fianco. Aveva quel senso pratico che a lui mancava e si era reso indispensabile alla loro sopravvivenza. Era persino riuscito a farsi voler bene. Elliot pensava a come sarebbe stata dura quella giornata senza Mallory, poi però realizzò che quella giornata non sarebbe proprio esistita se il bulletto non si fosse intestardito a voler andare a Casa Madison. La risposta che cercava non era arrivata dai palmi delle sue mani, ma dalla vista del ragazzo che se ne stava in piedi su quel corridoio. Elliot forse non aveva bisogno di una spiegazione, ma solo di qualcuno a cui addossare tutte le colpe, e Mallory interpretava il ruolo del colpevole alla perfezione.
 "Che vuoi?" chiese asciutto il ragazzo seduto cercando di proteggersi gli occhi dalla luce troppo forte.
 "Alcuni tizi con la tunica e non so che strani oggetti si stanno prendendo cura di Lara. Dicono che se la caverà" rispose Mallory con lo sguardo che vagava all'interno della stanza.
 "Bene, grazie." rispose brusco Elliot alzandosi in piedi e avviandosi a chiudere la porta.
 "Aspetta, volevo chiederti come stavi tu". Elliot non riusciva a credere alle sue orecchie. A quel tipo non gliene era mai fregato nulla di come stava, anzi, ogni volta che stava male era sempre per colpa sua e dei suoi scagnozzi. E ora era lì a preoccuparsi per lui. Un fugace riso di scherno si dipinse sul suo volto, abbassò lo sguardo e scosse la testa mentre con la mano cercava di chiudere la porta.
 "Ehi, che problema hai?" chiese Mallory bloccando la porta con una mano.
 Elliot alzò lo sguardo e fissò gli occhi dell'altro con uno sguardo a metà tra l'incredulo e il furibondo "Che problema ho mi chiedi?" la sua voce era decisamente alterata. "Il mio problema sei tu! Tu e le tue bravate! Tu e il tuo orgoglio ferito! Se non ti fosse venuto in mente di fare quell'allegra scampagnata adesso non ci troveremmo qui, Lara starebbe bene e Peter sarebbe al sicuro".
 "Cosa? E sarebbe colpa mia? Chi è che ci ha fatto arrivare... qui!" Mallory sottolineò le ultime parole guardandosi intorno e indicando con entrambe le braccia la stanza.
 "Tu stesso hai detto che sembravo posseduto. Magari uno di quei fantasmi mi ha usato per chissà quale scopo. Se tu non ci avessi portati lì non sarebbe successo nulla"
 "Non c'entrano i fantasmi, quando eravamo nel bosco e hai appiccato l'incendio non c'erano strani banchi di nebbia in giro -sai, ho controllato-" sottolineò ironico Mallory.
 "E allora come lo spieghi quello che è successo? Come spieghi questo posto?"
 "Non lo so, so solo che siamo tutti nella stessa barca e l'ultima cosa che dobbiamo fare è metterci l'uno contro l'altro."
 "Strano, pensavo fosse il tuo passatempo preferito quello di accanirti contro di me" Elliot sentiva la rabbia montargli dentro come un fuoco appiccato su una catasta di fascine secche. "Hai passato gli ultimi anni a rovinarmi la vita. Mi hai fatto diventare lo zimbello della scuola. Mi hai persino usato come spazzolone del cesso, e adesso questo, siamo in pericolo in un mondo sconosciuto ed è tutta colpa tua... e io dovrei stare calmo?"
 "Si, dovresti decisamente, stai bruciando!" disse Mallory un po' spaventato.
 "Certo, sono arrabbiato. Arrabbiato come non lo sono mai stato e sono stufo di dovermi nascondere da te, di..."
 "No, no! Non mi hai capito! Stai bruciando davvero, guarda la tua mano!"

 Elliot per un attimo smise di inveire e notò che la stanza era più illuminata e quella strana sensazione che aveva alle viscere era più forte che mai. Guardò la mano sinistra, quella che Mallory stava fissando spaventato. Il palmo era completamente ricoperto di fuoco, una fiamma di un intenso color rosso come non ne aveva mai viste. Tutta la mano era avvolta dalle fiamme ma non scottava, certo, sentiva un leggero calore, ma in quelle condizioni doveva aver già le dita carbonizzata. Era quasi ipnotizzato da quel fuoco, mentre lo fissava sentiva la mente più leggera. Tutto il peso delle sue preoccupazioni si era fatto più lieve. A stento sentì la voce di Mallory che gli stava urlando "Metti la mano nel vaso" Elliot si riscosse e semplicemente scrollò il braccio per cercare di spegnere il fuoco, ma la fiamma mutò colore diventando di un blu intenso e si staccò dalla sua mano. Schizzò via nella direzione in cui aveva agitato la mano lasciandosi dietro un sibilo ovattato. Andò ad infrangersi contro il vaso in terracotta facendolo esplodere in mille pezzi.
 Piccole lingue di fuoco si sparsero sul tavolino sottostante che prese subito a bruciare. Mallory entrò nella stanza con prepotenza scansando l'altro, si tolse la giacca e la sbatté con violenza sul legno infuocato per impedirgli di trasformarsi in un incendio. Elliot continuò ad indietreggiare incredulo finché le sue spalle non urtarono contro il muro. Fissò la mano che conservava ancora un briciolo di tepore mentre lentamente scivolava con la schiena lungo la parete fino a toccare terra. Era seduto sul pavimento, o forse sul letto, non avrebbe saputo distinguerlo, intanto Mallory continuava la sua opera di spegnimento del fuoco.
 Il rumore ritmico della giacca che colpiva il tavolino sembrava lontano anni luce. Elliot era di nuovo seduto con le gambe vicino al petto a fissarsi i palmi delle mani. Era spaventato. "Che mi sta succedendo?" riuscì a singhiozzare trattenendo a stento le lacrime. Mallory tirò un sospiro di sollievo quando finalmente l'ultima fiammella si spense. Del fumo si alzò dal legno bruciato. Alcune gocce della poca acqua contenuta nel vaso caddero dal tavolino. Pezzi di terracotta erano sparsi in tutta la stanza. Alcuni petali volteggiarono lenti fino a terra andandosi ad adagiare a pochi passi da Elliot.
 "Non lo so, davvero! Ma questa volta è stato diverso" Mallory si era avvicinato e con le spalle alla parete era scivolato a terra seduto vicino ad Elliot "Questa volta non sembravi un morto vivente".

 I due rimasero seduti a terra uno accanto all'altro a fissare il vuoto. L'odore di bruciato aveva lasciato la sua impronte aromatica nell'aria ed era lentamente svanito. "Che intendi?" Elliot ruppe il silenzio come se si fosse ricordato in quel momento che Mallory gli aveva rivolto la parola.
 "Le altre volte avevi lo sguardo perso nel vuoto, mentre questa volta sembravi lucido. Eri incavolato di brutto" sorrise il ragazzo.
 "E quindi?" la voce di Elliot sembrava distante, il ragazzo era ancora perso nel vuoto della stanza a fissare il punto dove il vaso era esploso.
 "E quindi questa volta sembravi tutt'altro che controllato da qualcuno." Elliot si riscosse e si girò verso Mallory. Il ragazzo era decisamente più alto di lui perché anche da seduti la sua testa raggiungeva a malapena le spalle dell'altro. "Ma com'è possibile?" Chiese quasi supplicando una risposta chiara.
"Non lo so, mi spiace. Però quei poteri sono tuoi, non di chissà quale fantasma. Forse non è neanche vero che qualcuno ti controlli. Magari semplicemente ti si attiva una specie di modalità di sicurezza quando sei in pericolo. Cosa ricordi di quei momenti?" Elliot abbassò di nuovo la testa sprofondando nello sconforto. Ci pensò un attimo e poi confermò che no, non si ricordava nulla.
 "Un momento!" un'idea balenò nella sua mente e la attraversò come un fulmine a ciel sereno "Avevo paura!" disse.
 "Beh, resti tra noi, ma anche io me la stavo facendo sotto, non per questo ho dato fuoco alla foresta!" scherzò Mallory.
 "No, no, non intendo questo! Ricordo distintamente che in entrambe le occasioni ho pensato di non potermi più muovere dal terrore! Non ero semplicemente spaventato, ma completamente terrorizzato come non lo ero mai stato in tutta la mia vita. Esattamente un attimo prima di perdere conoscenza ricordo di aver supplicato aiuto nella mia mente, e poi tutto è diventato buio".
 Mallory rifletté per qualche istante su quelle parole e alla fine concluse che dopotutto non era così impossibile la storia della modalità di sicurezza. "Quando il panico ha superato un certo limite è partito il 'programma di difesa' e tu sei diventato una specie di supereroe zombie."
 "Si ma questo come spiega l'esplosione del vaso? Di sicuro non ero spaventato in quel momento."
 "Beh, forse ha qualcosa a che fare con i tuoi stati d'animo. Magari c'è un modo per controllarli questi poteri. Prova a ripensare a come ti sentivi in quel momento."
 "Lo so benissimo come mi sentivo. Ero arrabbiato con te, e se devo dirla tutta non mi è ancora passata."
 "Devi cercare di rivivere quel momento, quelle sensazioni" insistette Mallory.
 "Certo, come se fosse facile! Ti credi che sia una cosa divertente? Beh, vuoi sapere la novità? E' spaventosa e sta capitando a me! Tu ci scherzi come fosse un gioco, sei solo un idiota!" I nervi di Elliot erano di nuovo tesi e la rabbia nei confronti di Mallory stava divampando di nuovo. Si sentiva frustrato da quella sensazione e l'ultima cosa che voleva era scherzarci sopra.
 "Bravo, continua così" esclamò il ragazzo evidentemente divertito. Elliot aveva raggiunto il limite di sopportazione. Sentiva avvampare la rabbia nel petto "Senti tu! Credi forse che sia..." ma Mallory lo interruppe di nuovo col sorriso sulle labbra e con la voce più calma che Elliot gli avesse mai sentito "Guardati il palmo della mano".

 Elliot voltò di nuovo lo sguardo e nella sua mano trovò un piccolo globo di fuoco non più grande di una pallina da tennis. Era caldo e la sua fiamma saliva leggera di un paio di spanne. Illuminava la stanza con la sua luce tenue e morbida. Elliot rimase a fissarla incredulo per un po' ammirandone ogni movimento e ogni evoluzione. Di nuovo la sua mente si schiarì e il senso di pesantezza allo stomaco svanì. "La puoi controllare Elliot, e io ti aiuterò a farlo."
 "Da quando in qua sei un esperto di magia?" Chiese Elliot senza distogliere lo sguardo dalla fiamma.
 "Non lo sono, ma sono bravissimo a far arrabbiare la gente." Provò a sorridere Mallory, ma l'altro rimase impassibile "Mi dispiace per come mi sono comportato con te in passato. Sono uno stupido, su questo avevi ragione. Ero solo invidioso della tua tranquillità". Allo sguardo perplesso di Elliot, Mallory abbassò la testa e poi continuò "Lascia stare, ma ti prometto che ti aiuterò. Andremo a salvare gli altri e troveremo il modo di tornare a casa!" I due si fissarono per qualche istante e alla fine Elliot sorrise all'amico.
 La fiamma si spense. La rabbia era svanita.


martedì 23 novembre 2010

Fallimenti

L'ultima volta che l'aveva vista, Claire stava uscendo da quella porta. Senza urlare. Senza entusiasmo. L'aveva aperta con delicatezza come quando si cerca di non svegliare qualcuno rientrando in casa. Solo che lei se ne stava andando, e sarebbe stato per sempre. Il suo sguardo continuava a vagare distrattamente per la stanza, come per dire addio a tutte quelle cianfrusaglie che col tempo aveva imparato ad amare. Una fuga calma, quasi al rallentatore. L'ultima occasione che inconsciamente stava concedendo a lui, Eric, di rincorrerla, di fermarla, di impedirle di fare quell'ultima sciocchezza. Eric se ne rimase seduto sulla sua poltrona con lo sguardo fisso a terra, la testa fra le mani a contemplare il suo ennesimo fallimento.
L'aveva conosciuta ad una festa. Una delle tante che ciclicamente infestavano la palestra della scuola. Una di quelle alla cui organizzazione partecipava per tenere la mente occupata. Per non pensare troppo. Lei era la nuova infermiera, assunta da poco più di una settimana. Avevano fatto anche una riunione in sala professori per presentarla, a cui però l'impegnatissimo professore di Scienze non aveva potuto prendere parte.
Claire si era offerta di aiutare nella preparazione dei festoni. Rose. Ecco cos'erano. Era la festa delle Rose. Quindi ad occhio e croce doveva essere la prima settimana di aprile. Lei si era appena trasferita in città. Era al suo primo incarico di lavoro e, come tutti quelli che iniziano una nuova avventura, vi aveva infuso ogni sua energia. Sarebbe esplosa entro breve se non si fosse data una calmata. Eppure c'era qualcosa di strano in lei, qualcosa di esotico.
La sua giovane età e la sua aria innocente la facevano sembrare più una studentessa che una professionista. Aveva uno splendido sorriso e sembrava divertirsi davvero mentre ritagliava il cartoncino rosso per creare delle decorazioni a forma di bocciolo di rosa. I suoi lunghi capelli biondi le coprivano il viso, aveva dei bellissimi occhi del colore dell'oceano. Eric iniziò ad avvicinarsi a lei senza quasi accorgersene. Facendo finta di controllare l'andamento dei lavori. Uno sguardo a destra, uno a sinistra e uno su Claire. Un passo, un altro passo.
Uno studente con un grosso cesto pieno di materiali lo intruppò da dietro, per un attimo perse l'equilibrio e andò ad appoggiarsi di peso sul banco sul quale l'infermierina stava lavorando. Lei alzò lo sguardo per vedere cosa accadeva e lui si affrettò a scusarsi: "Oh, mi scusi... non volevo... è che uno dei ragazzi..." lasciò cadere la frase cercando di trovare con lo sguardo lo studente che lo aveva colpito. Una scusa per evitare il suo sguardo diretto "Non si preoccupi, succede" rispose lei gioviale "Io ho le gambe piene di lividi" continuò mimando il gesto di massaggiarsi il polpaccio "Lei deve essere il professor Stevens! Non avevamo ancora avuto modo di conoscersi".
"Mi chiami pure Eric" si affrettò ad aggiungere. "Va bene Eric, io mi chiamo Claire" rispose lei allungando la mano per stringere quella del professore. Si erano conosciuti.

Da quel giorno ogni scusa era buona per stare insieme. Parlavano, ridevano, si punzecchiavano. La sera della festa lei venne ad invitarlo a ballare. Eric non era sicuro di ricordarsi come si faceva. Era abbastanza certo di averle pestato i piedi almeno un paio di volte, ma lei non lo aveva dato a vedere. Troppo persa nei suoi occhi per preoccuparsi del mondo circostante. Il classico colpo di fulmine. Non che Eric ci credesse, eppure non sapeva che altra spiegazione darsi.
La loro storia iniziò quel giorno. Fu intensa come un incendio. E con altrettanta velocità si spense. La colpa era sua, Eric ne era consapevole, ma non riusciva a farci niente. Non era in grado di impegnarsi. A dire il vero non era in grado di prendere alcun tipo di decisione. Claire era stata molto paziente con lui. Gli aveva lasciato i suoi tempi, i suoi spazi. Eric non aveva fatto altro che crearsi un muro intorno, fatto di tristezza ed autocommiserazione. Aveva commesso degli errori nella sua vita. Tanti errori. Ma questo non voleva dire essere perduti. Claire aveva cercato di farglielo capire, ma lui non era riuscito a lasciarsi andare. L'aveva chiusa fuori dal suo mondo, e lei se n'era andata. Per sempre. Non avevano neanche litigato. Erano semplicemente diventati due persone che non si capivano, che non si conoscevano.
Lei era uscita da quella porta e lui non l'aveva fermata e ora, dopo tre giorni, era ancora lì a chiedersi il perché della sua inettitudine. Seduto su quella stessa poltrona a fissare la porta della sua casa, Eric aspettava. Non sapeva cosa di preciso, ma ogni sera rimaneva ore seduto ad aspettare il momento in cui la sua vita sarebbe cambiata. D'altra parte era così che il professor Stevens viveva le sue giornate. Rimaneva immobile aspettando i cambiamenti, in balia degli eventi. Senza mai fare nulla per lasciare il segno, per cambiare le cose, per raccogliere le redini della sua esistenza.

Si alzò per riempirsi un bicchiere di scotch. Era un gesto meccanico, l'unico che avesse mai appreso da suo padre. Lui, il grande ricercatore. Lui, il docente universitario più stimato. Sempre in giro per tenere conferenze e simposi. Mai un momento da dedicare alla famiglia. Non si fece neanche vivo al funerale di sua madre. Non aveva mai avuto una parola di conforto per il figlio. Mai un incoraggiamento ne un apprezzamento. Neanche il giorno della sua laurea. Meccanica quantistica, la stessa di suo padre.
Probabilmente Eric avrebbe avuto un brillante futuro se avesse accettato di vivere all'ombra dell'uomo che lo aveva generato. Un giorno avrebbe anche potuto succedergli, e magari quel giorno avrebbe ricevuto anche la tanto agognata approvazione da parte del suo vecchio. Ma lui era un fallito, glielo aveva ripetuto sempre. Ogni volta che aveva avuto un dubbio, un'incertezza, dal padre non aveva ricevuto altro che quell'epiteto: Fallito. Ormai ci credeva, si era convinto che dalla vita non poteva ottenere di meglio. Decise pertanto di comportarsi di conseguenza. Di fuggire da quell'ombra che lo asfissiava e di andarsi a nascondere lontano. Fece richiesta per diventare insegnante e fu mandato al McFrancis. Da li non era più scappato.
Mentre si versava quell'ennesimo bicchiere, si guardò allo specchio. Quei profondi occhi marroni troppo scavati dall'amarezza. Quei capelli castani che aveva tagliato e riempito di gel per darsi un aspetto più giovanile, per stare al passo con Claire. Si era lasciato anche un accenno di basette, che però ora iniziavano a confondersi con la barba incolta. Gli zigomi, quelli li aveva ereditati dalla madre. Pieni e morbidi. Ogni volta che sorrideva la rivedeva, la ricordava. Aveva le guance un po' incavate, erano giorni che non mangiava, inoltre la barba accentuava le ombre sul suo volto dandogli un aspetto ancora più emaciato.
Si accarezzò la barba e sentì la ruvida peluria grattargli sul palmo della mano. Si sentiva stanco. Di se, della sua vita, del suo carattere. Tornò alla sua poltrona, col suo scotch, con la sua tristezza. Si rimise ad aspettare.

L'attesa terminò all'improvviso. Una raffica di colpi secchi si schiantò contro la sua porta. Chiunque fosse doveva avere fretta, perché dopo aver selvaggiamente picchiato la porta, si accanì contro il campanello. Eric si riscosse dal suo torpore e cercò di alzarsi, si sentiva un po' brillo e si accorse di avere un impellente necessità di andare in bagno. Si assicurò di essere completamente vestito. Pantaloni e camicia erano al loro posto, un po' sgualciti ma ancora presentabili, la cravatta era allentata ma ancora al suo collo. "Un attimo! Arrivo!" urlò al suo assalitore. Poggiò il bicchiere sul tavolo e si avviò alla porta con passo incerto. Il pavimento freddo gli ricordò che era scalzo, ma non se ne curò. Non gli andava di cercare le scarpe, e se avesse fatto aspettare ancora il suo ospite inatteso avrebbe rischiato di ritrovarsi senza più una porta da aprire.
Trovò più difficile del solito sbloccare il chiavistello. Forse avrebbe dovuto evitare gli ultimi due bicchieri di scotch. Quando alla fine riuscì ad aprire la porta, un ragazzino si proiettò letteralmente nel suo soggiorno. Era uno dei suoi studenti, non uno di quelli più brillanti, ricordava di averlo visto spesso in compagnia di Summer, il suo pupillo. Sembrava spaventato e accaldato. Da quel che ricordava doveva far parte della squadra di atletica, quindi tutto quell'affanno era un po' strano. Gli ci volle un po' per riuscire a riprendere fiato, soprattutto perché continuava ad articolare parole confuse e incomprensibili.
Eric cercò di farlo sedere ma lui non volle "Dobbiamo andare! Lei deve venire con me!" continuava a ripetere. "Andare dove? Che ti è successo". Il ragazzo rifletté un attimo prima di parlare di nuovo, come se stesse cercando una scusa valida. Ne approfittò anche per riprendere un po' di fiato. "Stavamo facendo... una passeggiata... si, stavamo passeggiando nel bosco di Plumdale quando si è aperta una voragine" mimò l'ampiezza del buco con le mani e si assicurò guardando le sue braccia di aver preso bene le misure. "Io mi sono salvato, ma Elliot, Mallory e Lara sono caduti dentro."

Si, certo, una passeggiata. Proprio vicino al casale nel quale gli aveva intimato di non andare quel pomeriggio nell'aula di punizione. Si massaggiò le tempie per decidere il da farsi. Questa volta era facile. Bastava chiamare un'ambulanza, se ne sarebbero occupati loro. "Si, si! Chiami l'ambulanza, ma non possiamo aspettare, Lara si è fatta male, bisogna tirarla fuori." Si picchiettò la testa e strizzò gli occhi. Cercava di recuperare un ricordo "Ah già, Mallory dice di portare una corda!"
Una corda? Cosa si aspettavano che facesse? Notò che il ragazzo, dovrebbe chiamarsi Peter, una volta consegnato il messaggio si era un po' calmato. I suoi occhi avevano iniziato a vagare per la stanza. Eric si sentì in imbarazzo per il disordine e per la trascuratezza che trasudavano dalle pareti di quella casa. Decise di accontentarlo non tanto perché lo desiderasse, quanto per evitare che quello sguardo curioso si trasformasse in uno sguardo di biasimo. Non sarebbe stato in grado di tollerarlo, non da un suo studente. Era più che sufficiente quello che ogni mattina vedeva riflesso nel suo specchio.
Corse in camera a recuperare le scarpe e la sua giacca di tweed. Mentre raggiungeva Peter si ricordò di non aver preso le chiavi della macchina. Fece per tornare indietro e passò davanti allo specchio. Si guardò, quasi di sfuggita, e non si riconobbe. Era contento di aver qualcosa da fare per non pensare ai suoi problemi, ma questo non giustificava ciò che lo specchio gli stava riflettendo. Sembrava felice. Col suo vestito indosso, con la sua cravatta annodata, coi suoi capelli dritti per via del gel. Un'altra persona rispetto al volto disfatto che aveva intravisto nello specchio solo pochi minuti prima. Si guardò ancora un attimo e si sorrise.

Disse al ragazzo dove poteva prendere una corda. Il garage era aperto e poteva tranquillamente servirsi da solo. Eric intanto spense le luci, rimise il tappo alla bottiglia di scotch e si avviò. Quando chiuse la porta provò una strana sensazione. Per un attimo appoggiò una mano sul quella solida superficie, probabilmente ciliegio. Sentì le venature del legno che correvano sotto la sua mano. Aveva costruito un muro intorno alla sua vita, e in quel momento sentiva di essersene chiuso fuori. Non sapeva perché, ma sentiva che non avrebbe mai più varcato quella soglia.
Una ventata d'aria lo riportò alla lucidità, si riscosse dal suo sogno ad occhi aperti e si diresse alla macchina. Peter era lì che sistemava la corda arrotolandola intorno al suo avambraccio. Salirono in macchina ed Eric mise in moto. "Dove dobbiamo andare di preciso" chiese "Lungo questa strada, a non più di tre chilometri, c'è una specie di incrocio... " Eric aveva capito, dopotutto quella strada la faceva tutti i giorni.
Decise di non chiedere nulla al ragazzo del perché si trovavano lì, lo sapeva già. Non aveva voglia di sgridarlo. Non lui che probabilmente in quella casa c'era stato solo trascinato da Elliot. In parte poi si sentiva responsabile. Quando era uscito dall'aula di punizione, quel pomeriggio, sapeva che i tre ragazzi non avrebbero dato peso alle sue parole. Ma come al solito non aveva saputo imporsi. Aveva preferito che fosse il preside a decidere cosa fare. Che razza di professore non è in grado di gestire una situazione così semplice? Eric si sorprese a pensare che dopotutto suo padre non aveva tutti i torti.

Durante tutto il tragitto provò a chiamare un'ambulanza ma sembrava che qualcosa disturbasse il segnale del suo telefonino. Arrivarono in pochi minuti sul luogo indicato da Peter. Lasciarono la macchina e si incamminarono nel folto del bosco. C'era un silenzio innaturale e da non molto lontano arrivava il riverbero di una fioca luce. Camminarono per diversi minuti lungo il pendio della collina. Peter sembrava riuscire ad individuare con facilità ogni ostacolo che si parava sulla via. Ogni tanto diceva ad Eric dove rischiava di inciampare su una radice di quercia o dove un sasso particolarmente grande rischiava di farlo scivolare.
Man mano che si avvicinavano al luogo dell'incidente il chiarore si faceva sempre più forte. "Da dove viene questa luce?" provò a chiedere all'altro "Dal buco" fu l'unica risposta che accennò il ragazzo. Probabilmente avevano delle torce ed erano finite nella voragine. Solo quando furono sul posto capì realmente il significato di quella risposta. La voragine si era aperta su una specie di camera sotterranea. Una cupola molto grande, con quattro archi molto ampi che si incrociavano al centro e sostenevano l'intera struttura. La cosa più incredibile era proprio quella luce. Sembrava che le pareti trasudassero una specie di nebbiolina dorata che illuminava tutta la camera. Uno spettacolo meraviglioso.
Quando li videro, Elliot e Mallory esultarono. Tirarono entrambi un grosso sospiro di sollievo e sorrisero. Se qualcuno gli avesse detto che quei due si erano picchiati quella mattina, probabilmente non ci avrebbe creduto. Avevano costruito una sorta di barella con rami secchi e radici di alberi che dovevano essere finiti nella cupola al momento del crollo. Lara era semi-cosciente, muoveva la testa e farfugliava parole incomprensibile. Almeno era viva. I due l'avevano bloccata sulla barella con le cinture dei loro pantaloni. Tutto sommato avevano fatto un buon lavoro perché la soluzione sembrava solida e stabile.
"Avete portato la corda?" chiese Mallory "Si" fece Peter mostrandogliela "Bene, legate un capo ad un albero e lanciateci l'altro." Qualcuno lì in mezzo sembrava perfettamente in grado di prendere decisioni, quindi Eric si rilassò ed eseguì l'ordine. Una volta calata la cima, Elliot la legò ai piedi della lettiga di Lara avendo cura di farne avanzare un bel po'. La fecero passare sotto i rami secchi e legarono anche l'altro lato della barella. Infine Mallory annodò l'ultimo pezzo di corda rimasto libero alla parte iniziale della stessa formando un triangolo. Una sorta di altalena che avrebbe permesso ad Eric e Peter di tirare su la ragazza.
Elliot e Mallory aiutarono i due sostenendo il peso della ragazza finché l'altezza glielo permise. Lo sforzo era enorme, ma i due sembravano essere in grado di sostenerlo. La corda faceva male sui palmi delle mani, ma resisterono e continuarono a tirare.
Tirarono.
Tirarono.
Tirarono.
Il terreno cedette. Di nuovo.


giovedì 21 ottobre 2010

Prologo

Come si può iniziare un blog?
I libri di solito iniziano con un prologo che introduce la narrazione, magari racconta una breve storia che fino alla metà del libro non si capisce cosa possa significare, oppure semplicemente presenta il protagonista o gli eventi che creeranno il contesto all'interno della quale si dipanerà l'avventura che si vuole raccontare.
Beh, questo è il prologo del mio blog, un blog strano, almeno per me: magari su internet ci sono già migliaia di blog che pubblicano le stesse cose che intendo pubblicare io, ciò non toglie che, quando l'idea mi è balenata in testa, ho pensato che fosse piuttosto strana...
Partiamo da un presupposto: io non sono uno scrittore, ne aspiro a diventarlo (nella vita faccio il programmatore). Eppure...
Mettiamola così: ho delle idee... ogni tanto mi vengono... buffe, strane, bislacche, divertenti... e fin qui non c'è nulla di strano; ognuno ha delle idee, sarebbe strano il contrario... il mio problema e che queste idee tendo a dimenticarle con una certa velocità!
Il più delle volte queste idee riguardano storie: frammenti di pagine di un libro scritto nella mia mente; ma non un libro qualsiasi, uno di quei libri enormi e pesanti che restano lì sullo scaffale per mesi (se non anni) a prendere polvere solo perché nello zaino proprio non ci vuole entrare. Tu ti ripeti che prima o poi lo leggerai, e non lo dici solo tanto per dire, quel libro tu lo vuoi leggere davvero. Poi però ti immagini mentre viaggi sulla metropolitana per andare al lavoro (rigorosamente in piedi) con questo librone in mano a fare l'equilibrista per non cadere alla prima fermata. Oppure mentre cammini per strada con quello zaino nel quale, dopo aver conseguito il master europeo in Tetris applicato, quel libro tu ce l'hai fatto entrare; però ora è li coi suoi bei chiletti a gravare sulla tue già fragili spalle e inizi a vedere il secchio della spazzatura come un'allettante alternativa al mal di schiena!
Alla fine lo lasci lì, sullo scaffale, a torreggiare su una pila di altri libri che prima o poi leggerai. "Quando uscirà l'edizione tascabile" ti dici. Oppure, meglio ancora, l'edizione elettronica: magari da leggere su quel meraviglioso telefono di ventinovesima generazione, dicendo definitivamente addio a quelle poche diottrie che ti restano!
Certo è che nel mio caso quel libro non mi è indifferente, lo sento che mi chiama, e spesso mi avvicino anche solo per dargli una sfogliata, giusto per fargli prendere un po' di ossigeno: Fargli fare una passeggiata, oppure offrirgli un dolcetto, di quelli col fruttino glassato sopra. Ai libri bisogna volergli bene, altrimenti si intristiscono. Così l'occhio mi cade lì tra quelle righe, come se un invisibile lazo avesse catturato la mia pupilla a non gli permettesse di divincolarsi. A quel punto, già che ci sono, inizio a leggere. Poche righe, al massimo un paragrafo, arrivo giusto alla fine del capitolo e poi vado a preparare la cena.
E' in quel momento che le idee prendono forma e si dipingono storie, racconti, dialoghi e battute. Non sono io a scriverle, sono loro che si proiettano nella mia testa: evidentemente non avevano di meglio da fare. Alcune sono pessime, ma altre sono buone, buone davvero. Certo, sono buone per me, magari a qualcun altro fanno schifo, però l'importante è che a me piacciano.
E poi? E poi spariscono. Inesorabilmente, inevitabilmente, ingiustificatamente spariscono... Che ci posso fare, sono nato con la memoria di un pesce rosso: mi scordo le cose! Poco male se mi scordo a casa le chiavi, tanto il mio gatto sa aprire la porta, ma le mie storie, quelle me le vorrei ricordare.
In questo blog non ho intenzione di scrivere un libro, non ne sarei capace, non ne avrei il tempo... mi limiterò invece a riportare quegli stralci che riesco di volta in volta a carpire da quel libro che mi ritrovo in testa: frammenti sparsi, senza un ordine preciso (e spesso neanche appartenenti allo stesso racconto).
Niente titoli, niente nomi, solo storie: senza capo ne coda, senza alcuna pretesa di impressionare o interessare, solo le mie storie.
E' un modo come un altro per prendere i classici due piccioni con una fava, oddio, avrei preferito due quaglie, ma si sa, con le fave si pigliano solo i piccioni. In questo modo io le mie storie non le scordo, e magari qualcuno a cui piacciono ci si imbatte e ci passa quella mezz'ora che non sapeva proprio come impegnare.