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lunedì 13 dicembre 2010

Braccati

Se ne stava lì, ferma sul bordo della voragine a fissarmi. Bella, per carità, però forse un po' idiota. Era in controluce, quindi non riuscivo a vederla bene, ma sembrava avesse indosso un sacco di patate e dei pantaloni anni '60, probabilmente ricavati da un altro sacco di patate. Cercavo di sorriderle per farle capire che non ero pazzo. Mi stava venendo una paresi alla faccia. Intorno a me c'erano alcuni oggetti. Tutto ciarpame e paccottiglia. Eccolo. Quel grosso candelabro mi era finito diritto in testa. Una male cane. Forse aveva scambiato quel buco per una discarica, perché quelli che aveva buttato avevano tutta l'aria di essere rifiuti. Quelle cose inutili che si ritrovano aprendo le scatole dopo un trasloco e che non sai proprio dove metterle. Alla fine il secchio della spazzatura si rivela essere sempre il posto più adatto. Non capisco però come facesse a sapere di quel buco. Se non fosse per noi che ci siamo crollati dentro, quello doveva essere un bel terreno piatto e apparentemente solido.
"Ehi, dico a te, lassù. Avremmo bisogno di aiuto. Siamo bloccati qui sotto da ieri sera. Abbiamo una corda, ma ci serve che qualcuno la leghi ad un albero". La corda. Bella storia quella della corda. Peter e il prof l'avevano legata ad un albero prima di cadere, eppure adesso se ne stava lì per terra con la cima tutta bruciacchiata. Come se fosse stata tagliata con una fiamma e ributtata dentro al buco. Tutta colpa di Elliot. Sinceramente ancora non riesco a capire cosa abbia combinato. All'improvviso il suo sguardo era diventato vitreo. Camminava come uno zombie verso il centro della stanza e poi... Boh! Ricordo solo che stava canticchiando una specie di canzoncina in una lingua strana che per quel che mi riguarda poteva anche essere aramaico antico. Poi c'è stata l'esplosione, ma non un'esplosione vera, solo luce. Un lampo accecante e un sibilo fortissimo che ci ha fatto perdere conoscenza. Quando mi sono ripreso c'era solo Elliot in piedi al centro della stanza. Se ne stava lì fermo con lo sguardo basso. All'inizio avevo pensato fosse uno scherzo di cattivo gusto quindi gliele volevo suonare di santa ragione, però quando l'ho strattonato sembrava come se si fosse appena svegliato. Aveva sussultato. Lo sguardo era tornato normale, anzi, sembrava sperduto. Incredulo quanto me. "Che è successo?" mi aveva chiesto. "E che ne so io? Sei tu quello che è diventato strano!"
E pensare che lo stavo rivalutando. Tutto sommato si era comportato bene in quella situazione particolare. Non aveva perso lucidità nel momento del pericolo e mi aveva anche aiutato a sistemare Lara. La prima conseguenza pratica di quello strano lampo è che i fantasmi che avevano illuminato la stanza fino ad un attimo prima se l'erano squagliata. Evidentemente si erano spaventati. Poverini. A quanto pare non si limitavano ad illuminare la stanza, ma la riscaldavano anche. Una volta spariti, il freddo aveva riempito tutta la cupola. Un freddo umido, tipico delle cantine d'inverno. Una sensazione tremenda perché senti uno ad uno tutti gli arti che ti si intorpidiscono. Lara aveva iniziato a tremare e con quella brutta frattura rischiava di non superare la notte, così a turno l'abbiamo coperta con le nostre giacche. Il risultato è stato che Lara aveva smesso di battere i denti mentre noi avevamo iniziato.
Il Professor Stevens aveva acceso un bel fuocherello con alcuni rami secchi, ma non era servito a granché. Tutti quanti avevamo un cellulare, ma sembrava non esserci campo. Non c'era modo di chiamare aiuto. L'unica nostra speranza era quella ragazza. Imbambolata e più spaventata di noi. "Cosa ci fate lì dentro?" chiese. Un vero genio. "Facciamo una piccola vacanza, non si vede?" Non doveva essere molto pratica del concetto di sarcasmo perché il suo sguardo sembrò sempre più confuso. "Siamo caduti ieri sera. Eravamo su alla villa e scendendo il terreno ci è franato sotto i piedi". Forse era meglio cercare di evitare le battute ironiche, dopotutto era la nostra via d'uscita da quella situazione insostenibile. "Quale villa?" Ok, idiota era un po' riduttivo. Che vuol dire 'quale villa'! Casale Spavento si vede anche da un chilometro di distanza. Con certa gente è meglio andarci con i piedi di piombo "Senti, abbiamo solo bisogno di qualcuno che ci leghi la corda ad un albero, così usciamo, portiamo la nostra amica in ospedale e non diciamo a nessuno che cos'hai buttato qui dentro". Quelle ultime parole dovevano aver colpito nel segno perché la ragazza sembrò riscuotersi dal torpore e ridiventare lucida. Legai la corda al candelabro che mi aveva colpito in testa e glielo lanciai. Lei lo prese al volo, slegò la corda e ributtò giù il candelabro. Per poco non mi colpiva di nuovo "Oh, scusa". Idiota e imbranata. Prese la corda e la legò ad un tronco. Essendo tagliata era più corta, ma sembrava essere sufficiente.
"Allora, Elliot e Peter salgono per primi. Io e il professore rimaniamo giù ad assicurarci che Lara non cada di nuovo". Lara era pallida in viso e aveva la fronte imperlata di sudore. Probabilmente aveva la febbre. Faceva fatica a respirare. Aveva assoluto bisogno di un dottore. Ci volle un po', ma alla fine riuscimmo a farla risalire dal buco. Una volta salita Lara fu il nostro turno. Il professore volle a tutti i costi far salire prima me. Come se finora fosse servito a qualcosa il suo aiuto.

Impiegai un po' per capire. E tuttora non sono sicuro di aver afferrato bene. La ragazza, Kaila, non era del tutto stupida. Effettivamente la villa non c'era. Scomparsa. Anzi, come se non fosse mai neanche esistita. Ma non era tanto quello a preoccuparmi, quanto il fatto che anche la nostra città sembrava essere sparita. Vicino al buco c'era una radura e da lì si vedeva chiaramente. Al posto della città era sorto una specie di borgo medievale. Uno di quelli che si vedono sui libri di storia. Inoltre in lontananza si vedeva una... beh, sembrerebbe proprio una montagna, ma in quella zona non c'erano montagne. Oddio, non che io sia un esperto di geografia, ma una montagna come quella l'avrei notata. Alta e a punta con sulla vetta delle specie di... torri? Avevano tutta l'aria di essere le dita di una mano, ma a rifletterci bene sembravano più le torri di un castello.
"Dove diavolo siamo finiti?" chiese Peter. "Direi esattamente dove eravamo ieri sera. Noi non ci siamo spostati" fece il prof andando da una parte all'altra della radura "guardate la collina, è identica a come era ieri sera. Gli stessi alberi, lo stesso buco. La cupola lì dentro non sembra diversa da ieri sera. E' come se tutto il resto del mondo fosse cambiato all'improvviso". Kaila sembrava decisamente perplessa. Non avevo sbagliato di molto ad identificare i suoi vestiti. Certo, non erano sacchi di patate, però ricordavano molto gli abiti da contadini che si vedevano al museo di storia medievale. Non dovevano venire dagli anni '60, ma più probabilmente dal '600. "E se fossimo tornati in dietro nel tempo?" Lo dissi quasi scherzando, ma gli altri sembravano prendere l'ipotesi sul serio. "No, non è possibile, altrimenti il buco si sarebbe richiuso" mi rispose Peter. Dovevo decisamente smetterla con le battute sarcastiche, sembravo essere l'unico ad avere un minimo di senso dell'umorismo.
"Beh, adesso che facciamo? In ogni caso dobbiamo far curare Lara, cercheremo più tardi di capire cos'è successo". Nessuno si preoccupava della ragazza. Tutti erano molto più interessati a capire dove fossimo finiti. Mi sentivo debole, come tutti del resto. La nottata ci aveva sfiancati e non avevamo nulla da mangiare. Il borgo sembrava essere molto lontano e se davvero eravamo finiti indietro nel tempo dubito che avremmo potuto comprare del cibo coi nostri soldi. "Avete fame?" disse Elliot. "No, perché io sto morendo e qui ho parecchia roba". Non lo capisco quel ragazzo. Non si era portato neanche una torcia elettrica, però aveva tanto cibo in quello zaino da poter sfamare un esercito. Anche Lara si riprese un po' dopo aver mangiato e bevuto un succo di frutta. Elliot la aiutò sia a mangiare che a bere come un bravo infermierino. Bah, all'inizio mi era sembrato di capire che si odiassero, ma evidentemente mi ero sbagliato. Quei due sembravano parecchio legati. Lui era estremamente servile e lei era tutta un sorriso.

Il problema principale per potersene andare da lì era trovare il modo di spostare la barella di Lara. Con l'aiuto del professore e di Kaila ci procurammo una serie di rami per rinforzare la struttura della lettiga e un paio di bastoni particolarmente lunghi da usare per trasportarla a braccio. Kaila sembrava sempre sul punto di dirmi qualcosa, ma poi abbassava lo sguardo e si allontanava. Forse avrei dovuto darle corda, ma non era il momento. All'improvviso poi sparì esattamente com'era comparsa. Il tramonto calò in fretta e probabilmente ci saremmo dovuti accampare lì. Kaila tornò con alcune strane foglie e delle bacche. Non esattamente quello che mi aspettavo per cena. "Non si mangiano queste. Servono per la gamba della vostra amica. Sono erbe curative". Beh, almeno Lara sarebbe arrivata viva fino all'indomani.
Preparammo un grande falò che ci permettesse di combattere il freddo della notte e consumammo in fretta i pochi avanzi che Elliot aveva conservato. "Da dove venite?" chiese Kaila. Avrei voluto risponderle, ma sinceramente non sapevo cosa dirle. "Io vengo da quella città laggiù. Quella sulla cima del monte. Si chiama Elengar. Non la conoscete, vero?" Sembrava sapere cosa stesse accadendo. "Tu sai come siamo finiti qui?" chiese il professore. "Sinceramente no, ma comincio a credere che quel lampo di luce che ho visto ieri sera foste voi. Probabilmente vi siete teletrasportati". Il lampo era un dato di fatto, l'aveva visto anche lei, ma l'idea del teletrasporto era davvero insolita. "Non sai cosa sia un accendino, ma sai cos'è il teletrasporto?". Sembrava che la cosa la facesse ridere. "Certo che lo so, è una magia che permette ad oggetti e persone di spostarsi da un luogo ad un altro. Non sono una strega ma qualcosa sulla magia la so anche io". Dopo questa le avevo davvero sentite tutte. Pazza, come altro definirla. Adesso si era messa a blaterare di magia come se fosse la cosa più normale del mondo. Certo che da quel poco che so sul Fantasy, quello che Elliot aveva pronunciato all'interno della cupola aveva tutta l'aria di essere un incantesimo.

Fu rapido come un fulmine. Ne riuscii a sentire solo il sibilo. Il rumore sordo del metallo che si conficcava nel legno attirò il mio sguardo. Una freccia si era conficcata nell'albero accanto a quello al quale ero appoggiato. Mi voltai verso gli altri "Qualcuno ci sta... sparando... come diavolo si dice quando ti tirano una freccia?". Kaila scattò in piedi. Buttò il resto della sua acqua sul fuoco per spegnerlo. "Presto! Dobbiamo scappare! Mi hanno seguita!".
"Chi diavolo sono? E come facciamo con Lara?"
"Non lo so, ma se vuoi puoi rimanere a chiederglielo. Dobbiamo risalire la collina".
Oh che bello, anche Kaila sapeva essere sarcastica. Peccato per la pessima scelta dei tempi. Elliot ed io sollevammo di peso la portantina con Lara sopra e iniziammo a correre dietro a Kaila. Veloce la ragazza. In pochi minuti ci aveva quasi seminato. Frecce su frecce continuavano a conficcarsi nei tronchi degli alberi lungo il nostro cammino. O il tizio aveva una pessima mira o stava cercando di farci cadere in una trappola. "Non ce la facciamo a correre più veloce con Lara in queste condizioni". Peter, che ci aveva superato, si fermò di colpo. "Dividiamoci! Io sono di sicuro il più veloce, posso cercare di attirarmeli dietro e darvi il tempo di scappare. Ci vediamo domattina dall'altro lato della collina". Non ricordavo fosse così coraggioso. Lui era quello che si defilava sempre quando mi avvicinavo ad Elliot. "Non fare l'eroe, quelli ti ammazzano". Non sembrava rendersi conto del pericolo. Prima che riuscissimo a farlo ragionare era già scattato verso valle. "Fermati!" Il professore sembrava disperato. Perdere un alunno in una bravata notturna non doveva essere una cosa carina da scrivere sul curriculum. "Voi andate avanti e proteggete Lara, a lui ci penso io". Scattò all'inseguimento di Peter lasciandoci da soli con Kaila. La ragazza si fermava di tanto in tanto per permetterci di raggiungerla, ma le braccia iniziavano a cedere.
Il rumore delle frecce sembrava aver deviato percorso. Forse Peter e il prof erano riusciti nel loro intento, ma Elliot ed io eravamo al limite. Non saremmo riusciti a trascinarci dietro la barella per molto ancora. A valle calò il silenzio. Kaila ci fece segno di raggiungerla, aveva trovato una specie di piccola rientranza nella roccia che poteva fornirci riparo. Nascondemmo per bene Lara e ci accucciammo tra le rocce. Le braccia erano puro dolore e facevo fatica a respirare. Difficilmente sarei riuscito e risollevare di nuovo quella barella.

Ci furono lunghi momenti di silenzio rotti solo dall'ululato di un lupo in lontananza. "Ehilà! Dove siete? E' inutile che vi nascondete, abbiamo catturato i vostri amici e tra poco sarà il vostro turno. Vogliamo solo la ragazza!".
Elliot ed io ci girammo verso Kaila che sembrava sorpresa quanto noi. "Allora, si può sapere chi sono? E cosa vogliono da te?"
"Fanno parte di un esercito speciale. Non ne so molto. Da poco controllano la guardia di Elengar. Quella roba che ho buttato nel buco l'avevo rubata nel palazzo reale. Devono averlo scoperto e mi avranno seguita". Perfetto, ci trovavamo in un mondo sconosciuto insieme ad una criminale ricercata. Beh, non importava molto di quali crimini si fosse macchiata, ci aveva salvato la vita e non l'avrei lasciata nelle mani di quei tizi. Il problema è che non sapevo proprio cosa fare. Avevamo lasciato tracce ovunque. Se quello era anche solo un cacciatore mediocre, ci avrebbe trovato in pochi minuti.
Elliot si alzò in piedi all'improvviso. "Scemo, torna giù, ti farai beccare!" Si muoveva con quel passo incerto che già aveva mostrato nella cupola. Lo afferrai per un braccio e lui si voltò di scatto. Aveva di nuovo quello sguardo vitreo ed esanime. Sembrava un morto che camminava. Devo ammettere di essermi spaventato. Ovviamente solo per un attimo. Mica ho paura dei morti io. Però lasciai andare la presa ed Elliot ricominciò a camminare. Raggiunse il centro del sentiero e si fermò. Un bersaglio facilissimo. Vidi la freccia avvicinarsi a lui quasi al rallentatore. No, un momento. Non ero io a vederla al rallentatore. Era proprio la freccia che stava rallentando. Elliot aveva alzato la mano davanti a sé e il palmo gli si era leggermente illuminato. La freccia si fermò a mezz'aria e prese fuoco. In quello stesso istante da ogni albero o cespuglio di fronte ad Elliot si alzarono enormi fiamme. Un vero e proprio muro di fuoco si formò di fronte al ragazzo. Si estendeva per centinaia di metri in entrambe le direzioni. Dovevo decisamente riconsiderare come attendibile l'ipotesi del teletrasporto magico.
Il pericolo era passato. Nessuno sarebbe riuscito ad oltrepassare quell'inferno. Potevamo scappare. Dovevamo trovare il modo di liberare Peter e il prof, ma se Elliot poteva usare la magia, forse ce l'avremmo fatta. Andai da lui per congratularmi sinceramente. Gli diedi una pacca sulla spalla e lui trasalì. "Che è successo? E da dove viene il fuoco?"
"Sei stato tu, non ricordi?"
"Io? Ma che stai dicendo, io ero con te nel nascondiglio... un momento, come ci sono arrivato qui?"
"Eri tipo in trans. Non so come hai fatto, ma ci hai salvato. Ora andiamo. Dobbiamo scappare".
Kaila sembrava sorpresa quanto me. Forse neanche in quel mondo assurdo era così usuale vedere un mago all'opera. Comunque l'incombenza di Lara ci riportò alla realtà. Elliot ed io risollevammo la barella con enorme fatica e ricominciammo a muoverci. Andavamo piano. Un po' perché ci sentivamo più sicuri, un po' perché eravamo allo stremo delle forze.
La salita era finita, avevamo raggiunto la vetta. Là dove doveva sorgere Casale Spavento c'era solo una piccola radura. Al centro sgorgava una polla d'acqua. Un posto perfetto per recuperare un po' di energie. Appena depositata Lara a terra, quasi mi tuffai con la testa nell'acqua gelida. Avevo freddo, ma la sensazione era stupenda. Sembrava quasi di rinascere. Bevvi tutta l'acqua che riuscii ad ingoiare. Quando riemersi vidi che Kaila aveva seguito il mio esempio. I capelli bagnati le calavano sulla fronte e i suoi occhi risplendevano al buio.
Solo Elliot non si era tuffato. Dallo zaino aveva preso un bicchiere di carta e faceva la spola tra la pozza e Lara. Effettivamente la ragazza era quella che aveva più bisogno di rinfrescarsi. Doveva avere la febbre alta e Elliot faceva di tutto per abbassarle la temperatura. Tamponava la sua fronte con un fazzoletto imbevuto d'acqua e ogni volta che ne aveva bisogno le portava altra acqua.
Per un attimo le appoggiò la mano sul ventre e chiuse gli occhi con forza. Forse voleva provare a curarla con la magia, ma senza alcun esito. Rimanemmo lì per un po'. In lontananza si sentiva ancora il crepitio dell'incendio che Elliot aveva appiccato. Grosse nuvole di fumo si alzavano verso il cielo. L'odore del legno bruciato riempiva l'aria. Kaila si alzò e si scrollò via la terra dai pantaloni. "Dobbiamo andare. Quel fuoco non li terrà impegnati per molto". Ci alzammo controvoglia e ci stiracchiammo. Eravamo stanchi ma non era quello il momento di riposarsi, così ci incamminammo con Kaila in testa.
Avevamo appena iniziato a scendere dall'altro versante della collina quando all'improvviso la ragazza si immobilizzò. "Che succede?" fece Elliot andandole quasi a sbattere addosso. "Lupi!" rispose lei.
Davanti a noi si era schierato un intero branco di lupi. Dovevano essere almeno una dozzina e altri si stavano avvicinando dietro di noi. Eravamo completamente circondati. "Ok Elliot, questo è il momento di fare un'altra di quelle cose alla Harry Potter".
"Non ho la più pallida idea di come ci sia riuscito."
"Basta una scintilla. Un fuocherello. I lupi si spaventano facilmente con queste cose."
"Ti ripeto che non so farlo a comando. C'ho già provato prima."
I lupi si avvicinavano lentamente. Lara era una preda troppo facile. Era impossibile proteggerla in quella situazione. Non c'era via di scampo. Proprio nel momento in cui pensavamo di esserci salvati.
Bel modo di concludere la giornata.


sabato 27 novembre 2010

Tra Sogno e Realtà

I sogni sono da sempre un argomento strano. In teoria tutti sognano, è un processo naturale con cui il cervello rielabora le informazione che ha incamerato. Di solito poi il risveglo provvede inesorabilmente a cancellarne il ricordo preciso, ma qualcosa rimane. Una sensazione. La traccia che i sogni lasciano nell'anima.
Ad Elliot non era mai rimasta nessuna traccia nell'anima. Dubitava persino della sua esistenza. Quando alle elementari una sua insegnante affidò alla classe un tema da scrivere sul loro sogno più bello, lui non riuscì a scrivere nulla. Il voto più basso della sua vita.
Quel giorno Elliot rimase basito non tanto dal suo voto, quanto dai temi dei suoi compagni. Raccontavano storie incredibili con dovizia di particolari. Molti probabilmente avevano inventato di sana pianta. Altri avevano semplicemente esagerato un po'. Eppure tutti avevano qualcosa da raccontare. Tutti tranne lui. Non che gli mancasse la fantasia, però non sapeva proprio da dove cominciare. Per inventare qualcosa bisogna avere delle basi, degli elementi su cui costruire la storia. Lui semplicemente quelle basi non le aveva. Elliot Summer non aveva mai sognato.
La cosa non lo aveva mai turbato più di tanto. Come tutte le persone che non riescono a fare qualcosa, aveva deciso che i sogni non erano poi tanto importanti. Quando con gli amici si finiva a parlare di sogni, semplicemente lui cambiava argomento. A volte cercava di nascondere l'invidia col sarcasmo. Prendeva in giro gli altri per la loro ignoranza, perché credevano che quei ricordi costruiti potessero avere un qualche significato.
Elliot si sentiva privato di qualcosa. Un elemento che legava tutti tranne lui. Probabilmente i suoi genitori avrebbero saputo trovare una spiegazione, però esisteva anche la possibilità che la cosa li facesse preoccupare più del necessario. Preferì quindi evitare di parlare con loro di questa sua mancanza. Ogni tanto si faceva passare sotto banco qualche sogno dal suo amico Peter, così da poterlo usare in qualche discorso. I suoi come al solito dimostravano un falso interesse in quello che raccontava, così lui capiva che era riuscito a dargliela a bere. Era riuscito a fargli credere di essere un bambino normale.

Il giorno in cui Anna, sua madre, aveva parlato a cena delle chiavi di Casale Spavento, qualcosa si era spezzato. La consuetudine si era interrotta. Elliot aveva sognato. Non era un grande esperto di sogni, eppure quello sembrava proprio un ricordo. Un ricordo molto sfumato, quasi sbiadito. Antico. Al risveglio non gli era rimasta solo la sensazione di aver sognato, ma il ricordo di ciò che era successo. Leggero come una piuma. Volatile. Eppure c'era. Un ricordo nuovo, non suo, ma pur sempre un ricordo.
Quella magia continuò a ripetersi ogni notte. Sempre lo stesso sogno. Sempre lo stesso ricordo. Ad ogni replica le immagini diventavano più nitide, i contorni meno sfumati, le sensazioni sempre più vivide. Quel singolo evento si radicò completamente nella memoria di Elliot. Ormai era impossibile distinguerlo da un qualsiasi altro ricordo. Pensandoci razionalmente sapeva di non aver mai vissuto un'esperienza simile, eppure quel ricordo era reale, forse anche più degli altri. Troppi dettagli. Troppe sensazioni. Non poteva esserselo immaginato.
Ricordava con precisione la forma di quella stanza. Una cupola sorretta da quattro archi incrocati che poggiavano direttamente sul pavimento. Non c'erano colonne a dare altezza a quella camera, c'era solo la cupola. Tutto era in marmo bianco. Elliot si sorprese a ricordare persino le nervature argentee che solcavano il bianco assoluto dei lastroni che ricoprivano le pareti. Otto in totale, otto spicchi di parete separati dai possenti archi.
La precisione geometrica di quella cupola era interrotta soltanto da quella che sembrava essere una porta. Un piccolo arco a sesto acuto poggiato su due esili colonne dava l'idea di un passaggio. Di qualcosa che doveva essere possibile attraversare. Pertanto stonavano un po' quei grossi massi di pietra squadrati posti a riempire quell'apertura. Elliot sentiva ancora nelle narici l'odore della malta fresca che era stata usata per tenerli insieme. Era evidente che chiunque li avesse fatti entrare, non voleva più farli uscire. Erano sigillati dentro quella prigione di marmo.
Elliot non era solo, c'erano altre persone con lui. Col tempo capì che erano tutti giovani, più o meno della sua età. Indossavano tutti la stessa tunica scura con il simbolo di una montagna sovrastata da una falce di luna. I grandi cappucci coprivano quasi per intero i loro volti, ma Elliot imparò a distinguerli uno ad uno. Le loro altezze, i loro occhi, la loro postura, persino la forma delle loro mascelle.
Erano tutti in piedi su quel pavimento fatto da grandi lastroni di pietra. Si erano disposti a circonferenza. Ognuno aveva davanti un piccolo falò che illuminava la stanza proiettando le loro inquietanti ombre sulle pareti circostanti. Stavano tutti intorno ad un enorme cilindro, anch'esso di pietra, che sembrava uscire direttamente dal terreno. Era poco più alto di loro e c'erano dei simboli strani incisi sopra. Un testo molto fitto in una lingua sconosciuta formava una stretta spirale che ricopriva tutta la superficie della roccia.
Nonostante sapesse che nella stanza ci fossero un totale di quindici persone compreso lui, dalla sua posizione Elliot riusciva a vederne solo otto. Erano tutti ragazzi tranne la persona che stava alla sua sinistra. La tunica abbastanza aderente tradiva le sue forme femminili. Il suo sguardo era spaventato ma, a differenza degli altri, non provava astio nei suoi confronti. Nell'unico istante in cui i loro occhi si incrociarono gli concesse anche un abbozzo di sorriso.

Si presero tutti per mano formando un cerchio perfetto. Erano tutti terrorizzati. Anche Elliot sentiva quel bruciore alla bocca dello stomaco. Quella sensazione di ansia che ti toglie il respiro. Eppure in lui c'era anche qualcos'altro che col tempo identificò come senso del dovere. C'era anche una punta di orgoglio. Piccola, insignificante e sommersa dal terrore, ma c'era. Fu proprio quella piccola scintilla in fondo al suo cuore che gli diede la forza di alzare lo sguardo verso la pietra ed iniziare a leggere.
L'inizio del testo era proprio di fronte a lui e, cosa inspiegabile, si rese conto di essere in grado di capire cosa ci fosse scritto. Riusciva ad associare dei suoni, anch'essi incomprensibili, a quei simboli sconosciuti. Dalla sua bocca si levò una lenta litania che lasciava un sapore amaro sulla lingua. Man mano che andava avanti nella lettura, si accorse che la pietra aveva inizato una lenta rotazione su se stessa che gli permetteva di avere sempre cose nuove da leggere di fronte a se. Quando l'inizio del testo passava davanti ad uno dei suoi compagni, anche questo iniziava a leggere. Quindici litanie tutte uguali, con la stessa cadenza e con la stessa velocità, ma ognuna sfasata dalle altre di pochi secondi. Tutte quelle voci insieme si mischiavano rendendo le parole ancora più incomprensibili.
Ogni volta che terminavano di leggere, ricominciavano da capo. Ad ogni giro, la pietra accellerava la sua rotazione. Sempre più veloce. Elliot faceva quasi fatica a distinguere le parole sulla pietra, ma ormai le sapeva a memoria. Il canto continuava ininterrotto. Sempre più misterioso e terribile.
Un leggero venticello sembrò alzarsi nella stanza. I quindici falò iniziarono a bruciare con più intensità. Le fiamme divennero alte quanto i ragazzi che vi stavano di fronte. La legna si consumò completamente in pochi istanti. Le fiamme si spensero all'improvviso, ma la luce rimase. Sempre più forte. Intensa. Accecante. Grandi scariche elettriche avvolgevano il cilindro di pietra. La litania rimase costante ma venne coperta dal sibilo della pietra che strideva sul terreno.
Il cilindro era ormai un unico ammasso di luce. Sporadiche scariche si staccavano dal centro e andavano a colpire gli archi della cupola formando degli strani giochi di luce. Il volume della litania si alzò per sovrastare il rumore. Dal cilindro partirono quindici fasci di luce che colpirono in pieno petto i ragazzi. La luce divenne assoluta. Totale. Le coscienze si fusero in un unico agglomerato di energia. E poi più nulla. La luce sfumava. L'oblio sopraggiungeva. Maestoso e avvolgente. La sensazione di vittoria segnava il momento del risveglio.

Quella mattina l'inquietudine era più forte del solito. Elliot si sentiva nervoso. Irascibile. A colazione quasi non rivolse la parola a nessuno. Quando suo fratello Edward gli lanciò un giocattolo per attirare la sua attenzione, gli urlò con così tanta cattiveria che lo fece mettere a piangere. Quando Harry apostrofò il suo comportamento inappropriato, Elliot si limitò a bofonchiare delle scuse per poi alzarsi e andarsene.
Gli dispiaceva per come aveva reagito, ma non era riuscito ad evitarlo. C'era qualcosa di sbagliato in quella giornata che lo metteva a disagio. Sentiva l'adrenalina invadere il suo corpo. Era arrabbiato senza motivo. Quando il bulletto della scuola, quel Mallory, venne ad attaccar briga, Elliot sfogo tutta la sua rabbia. Assestò un pugno sulla guancia del ragazzo con tutta la forza che aveva in corpo. Provò un piacere immenso e sbagliato nel vederlo sputare un dente. Si sarebbe avventato anche su Coso e Cosetto se non fosse arrivato il professor Stevens a fermarlo.
Il suo odio silenzioso continuò tutto il giorno. Quando poi si ritrovò faccia a faccia con Mallory nell'aula punizioni non lo degnò neanche di uno sguardo. Il suo nervosismo gli permise anche di essere cinico e sarcastico con Lara, di solito era il contrario. Provò di nuovo quel piacere distorto ad umiliarla davanti al professore. Riuscì persino a strappare un mezzo sorriso a Mallory. E poi accadde. Gli altri discutevano animatamente su Casale Spavento. Decidevano se era il caso di organizzare lì la festa di Halloween, quando Lara e Mallory si misero a litigare. In un flash Elliot rivide la stanza. Le quindici persone. Sentì quella litania nelle orecchie. Chiuse gli occhi con forza per cacciare via quell'immagine. Nella sua mente regnava la confusione, ma una voce era distinguibile. Sovrastava le altre. Era sua madre. Un ricordo di un paio di settimane prima. Il giorno in cui i sogni erano iniziati, sua madre a cena aveva parlato di Casa Madison. Casale Spavento. Prima di addormentarsi il suo ultimo pensiero fu che aveva le chiavi di quella casa.
Evidentemente aveva ripetuto quel pensiero a voce alta, perché tutti si erano zittiti e lo fissavano. Mallory sembrava eccitato mentre Lara sorrideva un po' spaventata. Uscendo dall'aula Elliot fu raggiunto dal bulletto che non sembrava interessato a picchiarlo come suo solito. Voleva quelle chiavi e lui gliele avrebbe dovute fornire.

La sensazione di inquietudine si faceva più forte ogni minuto che passava. Corse dal suo amico Peter per chiedere aiuto. Aveva bisogno di sfogarsi. Aveva bisogno di sostegno. Tutta l'adrenalina che aveva in corpo si sprigionò nell'atto della corsa. Una volta raggiunto l'amico quasi vomitò l'anima, ma si sentì meglio. Più calmo. Più sereno. Da sempre Peter gli faceva quell'effetto. Si sentiva completato. Lui era quello impulsivo mentre l'amico era quello razionale. Si misero d'accordo per vedersi quella sera. Peter non sembrava molto felice all'idea, ma Elliot sapeva che non lo avrebbe mai abbandonato nel momento del bisogno.
Con l'animo meno agitato e la mente più lucida, si rese conto che sì, la madre aveva le chiavi, ma questo non significava che lui potesse prenderle a sua discrezione. Avrebbe dovuto sottrarle di nascosto. E questo significava altri guai. Inoltre in quindici anni non aveva mai fatto niente del genere. Mai una volta aveva deluso i suoi genitori. La sensazione di inquietitudine tornò più forte di prima.
Quella sera a cena non alzò lo sguardo dal piatto, si sbrigò a finire di mangiare e sgattaiolò in camera sua. Aveva appuntamento alle nove con Peter. Erano le otto passate e lui non aveva la più pallida idea di dove iniziare a cercare. Qualcuno bussò alla porta. Due deboli colpetti. Doveva essere Edward che come al solito era in vena di scherzi. Aprì la porta controvoglia. Il fratello era lì davanti, silenzioso. Aveva lo sguardo basso. Indossava ancora il suo bavaglino e teneva per mano un orsacchiotto poco più basso di lui.
Elliot si spazientì in fretta. Edward non sembrava intenzionato a proferire verbo. "Che cosa vuoi?" lo incalzò. Il piccolo alzò gli occhi verso il fratello maggiore. Era triste, sul punto di piangere. Sembrava sconvolto. Alla fine si decise a parlare stringendo a sé il pelouche che aveva portato "Te ne vai?" chiese con voce quasi disperata. "No, non vado da nessuna parte, adesso se non ti dispiace dovrei fare i compiti" rispose asciutto Elliot. "No, non è vero, tu te ne vuoi andare. Me l'ha detto il tizio col cappuccio" il cuore di Elliot perse un colpo. Una tremenda sensazione di aridità alla bocca dello stomaco gli fece venire la nausea. "Q-quale tizio col cappuccio?" chiese con ansia. "Mi ha detto che avevi bisogno di queste" aprì la zip sul dorso dell'orsetto e ne estrasse un mazzo di chiavi con un portachiavi a forma di spirale "Vero che però poi torni?" concluse Edward trattenendo a stento le lacrime.
Suo fratello gli voleva bene. Gliene aveva sempre voluto. Era la sua ombra. Stimava Elliot come fosse un eroe e non voleva perderlo. Quel pensiero intenerì il ragazzo che si inginocchiò per avere gli occhi all'altezza di quelli del fratellino "Tornerò, te lo prometto" Edward ritrovò il sorriso e lanciò le braccia al collo del fratello stringendolo con tutta la forza che un bambino di quattro anni può avere. Quando si staccò lascio cadere le chiavi e scappò in camera sua.
Elliot raccolse il mazzo da terra e richiuse la porta. Fissò per qualche minuto il portachiavi a spirale. Un problema si era risolto da solo. Aveva come la sensazione che qualcosa di più grande avesse iniziato a muovere i fili della sua vita. Si distese un attimo sul letto per scacciare via quel pensiero.

Alle nove meno un quarto Elliot era pronto, aveva preparato lo zaino con il cambio per la notte. Aveva detto ai suoi che sarebbe andato a passare la notte da Peter. Cosa che avrebbe fatto subito dopo aver portato Mallory a Casale Spavento. Scese le scale con calma. Assaporò ogni gradino. C'era qualcosa dentro di sé che lo tratteneva a casa. Non voleva andare. Aveva paura.
Anna lo aspettava ai piedi delle scale. Gli aveva preparato un fagotto con gli avanzi della cena e alcune fette di torta. "Mamma, vado solo a dormire da Peter, non ne ho bisogno" provò a dire. Dopotutto non era la prima volta che andava a dormire dall'amico. Che bisogno c'era di portarsi da mangiare? "Beh, non si sa mai quello che può succedere" era visibilmente preoccupata, ma non sembrava volerlo fermare. Elliot quasi ci sperava. Forse se avesse detto qualcosa di cattivo la madre lo avrebbe messo in punizione e non sarebbe dovuto uscire. Non fece in tempo. Anna interruppe il flusso dei suoi pensieri "C'è tuo padre che ti vuole vedere. E' in laboratorio" disse "Ma io dovrei andare, c'è Peter che mi aspetta, poi i genitori si preoccupano" cercò di protestare "Ci vorrà solo un minuto vedrai" e si chinò a baciargli la fronte. Un bacio lungo. Sembrava spaventata. Anche lei. Cosa avevano tutti da essere spaventati. Era lui quello che doveva andare a Casale Spavento, non gli altri. Cercò di divincolarsi, abbozzò un sorriso e si diresse verso il garage.
Le luci del laboratorio erano spente. Elliot sentì alcuni rumori metallici provenire dal fondo. All'improvviso si accese una lampadina "Finalmente! Non riuscivo a trovare le lampadine nuove, quella vecchia si è fulminata" disse Harry "Mi volevi vedere?" chiese spazientito Elliot "Oh, si! Ho qualcosa per te". "Non potresti darmela domani? Adesso devo andare da Peter" guardò l'orologio da parete. Erano le nove in punto. Peter era già all'ingresso di Cherrydale ad aspettarlo e lui come al solito sarebbe arrivato in ritardo.
Harry ignorò l'impazienza del figlio. Tirò fuori dal cassetto quello che sembrava essere un vecchio orologio da taschino "Sai, è per via di questo che io e la mamma ci siamo conosciuti. Un giorno me ne stavo per i fatti miei quando uno strano ragazzo con un mantello mi venne addosso. Non si fermò neanche a chiedermi scusa. Questo orologio deve essergli caduto di tasca ma quando lo raccolsi era già sparito." accennò un sorriso con gli occhi carichi di nostalgia "Decisi di tenerlo come risarcimento!" sembrò volersi giustificare "Insomma me ne stò sul ponte di Hummingdale a giocherellare con questo coso che tra l'altro era pure rotto quando mi scivola dalle mani. In quel momento tua madre passava lì sotto e la presi proprio in testa" Elliot voleva che il vecchio tagliasse corto, ma dalla felicità con cui raccontava non sembrava intenzionato a farlo. "Devo averle rotto qualcosa in testa quel giorno, altrimenti non si spiega il perché abbia accettato di sposarmi!" era quasi commosso da quel ricordo.
"Vorrei che lo prendessi tu! Spero che ti porti la stessa fortuna che ha concesso a me!" Elliot non sapeva che dire. Non gliene fregava niente di quel ninnolo. Voleva solo chiudere quella storia. O gli impedivano di uscire, o lo lasciavano andare. Cobtinuare a torturarlo in quella maniera non aveva senso. Si limitò a sorridere e a ringraziare. Infilò di fretta l'orologio nella borsa e si incamminò verso la porta. "Fai attenzione e in bocca al lupo!" furono le ultime parole di Harry "Ma cosa avete tutti stasera? Sto solo andando a dormire da Peter" sbottò spazientito, ma Harry si limitò a sorridire. Elliot gli rispose tra sé e sé "Crepi!"

Peter non protestò per il ritardo dell'amico. Probabilmente se lo aspettava. La strada verso Casale Spavento fu accompagnata dal silenzio e dal buio. Per la prima volta in vita sua fu grato per la presenza di Mallory. Aveva portato una torcia. A lui proprio non era venuto in mente. Lara lo guardò con superiorità mentre estraeva la sua. Elliot si chiese per l'ennesima volta perché ce l'avesse tanto con lui. Non gli sembrava di averle fatto niente di male.
La casa era buia e fredda ma si sentiva tranquillo. O almeno così fu finché non si accorse che Peter era sparito. Si girò a cercarlo con lo sguardo, ma era troppo buio. Cercò di fermare gli altri per andarlo a cercare, ma quando si voltò gli si materializzò davanti un'enorme colonna di luce. Una nebbia fitta e dorata che iniziò a corrergli incontro. L'urlo esplose dalla sua gola. Lara e Mallory si voltarono per cercare di capire cosa fosse successo. Elliot era paralizzato dallo spavento. Fu Mallory a riscuoterlo urlandogli "Corri!".
I tre si ritrovarono a scappare compatti verso l'uscita. Elliot si voltò a cercare di identificare il loro inseguitore e si accorse che Peter era ricomparso dietro di loro. Come se non se ne fosse mai andato. Corsero a perdifiato cercando di evitare tutti quei cosi, quei, beh, fantasmi, come altro chiamarli. La luce era intensa e tutta intorno a loro. Elliot non capiva più quanti ce ne fossero di questi fantasmi e dove si trovassero. Si accorse a malapena di essere stato sorpassato da Peter. Se ne rese conto quando lo vide spiccare un balzo. E poi il vuoto. Si sentì mancare la terra sotto i piedi. Cadde.
Fu una cosa veloce, quasi indolore. Era finito su Mallory che col suo giaccone di piume d'oca gli aveva attutito l'impatto. Cercò di rialzarsi quasi subito ma fu investito da un flusso di nebbia che andò a riempire tutta la stanza. Rimase immobile. Di nuovo. Completamente terrorizzato.

La camera nella quale erano finiti aveva qualcosa di familiare. Prima che riuscisse ad identificare cosa, la voce di Peter richiamò la loro attenzione. Lo mandarono a cercare aiuto, era l'unico ad essersi salvato ed era la loro unica speranza. Quando il ragazzo si allontanò si preoccuparono di Lara. Era stata la prima a cadere nel buco. Doveva essere atterrata malamente perché aveva una gamba visibilmente rotta.
Mallory le si avvicinò e cercò di farla riprendere senza successo. Si rivolse ad Elliot "Dobbiamo sistemarle la gamba e steccargliela" disse "Ma io non so come si fa" rispose il ragazzo intimorito. "Non ti preoccupare, tu raccogli un po' di quei rami" disse indicando il punto dove la terra aveva ceduto ed era franata dentro la stanza "Io cerco di farla rinvenire".
Mallory sembrava tranquillo. Lucido. Sapeva ciò che andava fatto e si muoveva con disinvoltura. Elliot per la seconda volta fu contento della presenza dell'altro. Lara riprese conoscenza all'improvviso, come se si fosse appena risvegliata da un incubo. "Stai calma, va tutto bene" gli fece Mallory, poi, rivolgendosi sotto voce ad Elliot "Cerca di distrarla, devo addrizzarle l'osso e non le farà molto piacere."
Elliot si inginocchiò vicino alla ragazza. Era spaventata, con i capelli in disordine, doveva aver perso gli occhiali nella caduta. Elliot non aveva mai fatto caso a quanto fossero belli gli occhi di Lara. Un verde intenso. Smeraldo. Sentì il suo profumo. Non erano mai stati così vicini. "Stai tranquilla, va tutto bene. Domani sarai di nuovo pronta a stracciarmi in ogni competizione." Lara sorrise. Dolcemente. Le sue labbra piccole si assottigliarono nel gesto e due fossette si disegnarono sulle sue guance morbide. Arricciò il nasino a punta e disse "Come sempre!" Era bellissima. Elliot si sentì avvampare. Poi l'espressione della ragazza si incrinò. Lo sguardo divenne vitreo. il dolore si dipinse sul suo volte che improvvisamente divenne rosso. Il rumore sordo dell'osso che Mallory aveva sistemato aveva rimandato Lara nel regno dell'incoscienza. Svenuta di nuovo. "Quando hai finito di ansimare sulla tua bella avrei bisogno del tuo aiuto. Dobbiamo costruirle una barella".
Mentre Mallory steccava la gamba di Lara, Elliot si occupava di intrecciare i vari rami per formare una lettiga. Era un'impresa difficile, un po' perché i rami tendevano a spezzarsi facilmente, un po' perché Elliot continuava a distrarsi pensando al sorriso di Lara. Il loro odio era reciproco e intenso, non capiva perché quel sorriso continua ad ingarbugliargli la mente.
Mallory raccolse le radici più esili e morbide per usarle come corde per legare la lettiga. Provarono a sollevarla insieme per valutarne la consistenza. Sembrava solida. La appoggiarono al fianco di Lara. Mallory si avvicinò ai piedi della ragazza e li sollevò delicatamente. Fece cenno ad Elliot di fare altrettanto con le sue spalle "Al mio tre la solleviamo e la spostiamo sulla barella" Elliot annuì "Uno, due, TRE!" All'unisono sollevarono Lara e la spostarono di pochi centimetri adagiandola sulla lettiga.
Provarono a sollevare lentamente la barella per vedere se era in grado di sostenere il peso della ragazza. Ondeggiando però rischiarono di farla cadere. "Dovremmo legarla" fece Elliot "E come?" chiese Mallory. Non c'era sarcasmo nella sua voce. "Potremmo usare le cinture dei nostri pantaloni" propose Elliot "Si può fare" concesse Mallory.
"Non ti facevo così in gamba" Elliot era visibilmente ammirato dal comportamento lucido di Mallory "Ci sono abituato. Mi piace aggiustare le cose" rispose il bullo. I due si sorrisero. In quel momento fece ritorno Peter portandosi dietro il professor Stevens.

Non era sicuro che chiamare il professor Stevens fosse stata una buona idea, ma almeno c'era qualcuno che li poteva aiutare. Inoltre Mallory sembrava avere tutto sotto controllo. Così Elliot si rasserenò un po'. Il suo sguardo tornò a vagare per quella stanza a forma di cupola. Quattro archi che si incrcoiavano. Una piccola porta murata sul lato di sud-est. Mancava solo il cilindro al centro. Come poteva essere possibile? La stanza che sognava ogni notte era lì, sotto i suoi occhi. Reale. E se la stanza era reale, anche il suo sogno doveva esserlo. Eppure lui era sicuro di non essere mai stato lì dentro. La quantità immane di ragnatele in giro per la stanza confermavano l'idea che nessuno avesse visitato quel luogo per secoli. Si chiese come mai mancasse il cilindro di pietra e quasi di istinto si avvicinò al centro della stanza. Notò un piccolo foro circolare poco più grande di un pugno. Forse il perno sul quale girava la pietra. Del cilindro non c'erano tracce, neanche i segni sul terreno che indicassero il suo spostamento. Tutti i lastroni di pietra che formavano il pavimento erano circolari e concentrici. Questo poteva aver mascherato i segni della rotazione, ma un macigno di pietra di quella portata dove aver lasciato delle tracce mentre veniva spostato.
Mallory richiamò l'attenzione di Elliot. Dovevano legare la corda portata da Peter intorno alla lettiga. Elliot non sapeva da dove iniziare, ma Mallory sembrava preparato anche su quell'argomento. Si limitò a seguire scrupolosamente le sue indicazioni.
Mentre Peter e il professore tiravano verso l'alto la barella, Lara riprese conoscenza. Sembrava spaventata. Continuava a ripetere "Cede di nuovo! Cede di nuovo". Quando Elliot capì a cosa si riferisse fu troppo tardi. La terra ricominciò a franare e i due soccorritori caddero nel buco. Elliot e Mallory riuscirono a prendere al volo la lettiga e a spostarla in modo da evitare altri incidenti alla povera Lara. I due nuovi arrivati rallentarono la loro caduta tenendosi saldamente alla corda, ma il dolore causato dall'attrito fece perdere la presa a Peter che rovinò a terra.
Dalla tasca della giacca del ragazzo uscì un disco. Un pezzo di pietra che rotolò per tutta la stanza fino a raggiungerne il centro. Sembrava guidato da una forza estranea. Forse dalla stessa nebbia luminosa che riempiva la stanza. Andò ad incastrarsi alla perfezione nel foro che Elliot aveva notato.
Il pavimento iniziò a tremare "Ma che diavolo succede" imprecò Mallory. Al centro della stanza una parte del pavimento iniziò a sollevarsi. Salì per un paio di metri rivelando un grosso cilindro di pietra. Ora il ricordo che Elliot aveva di quella stanza era completo. Si alzò d'istinto e si avvicinò alla roccia. Da dietro qualcuno chiese cosa fosse quella pietra e da dove saltasse fuori. Elliot ignorò il gruppo e raggiunse il centro della stanza quasi ipnotizzato. Appoggiò la mano sulla fredda roccia e con un dito seguì i solchi formati da quegli incomprensibili simboli. Si sentì strano, come svuotato. Sentì quella litania dentro la sua testa. "Ma che stai dicendo?" La voce di Mallory gli arrivò lontana e ovattata. Le parole della cantilena uscivano dalla sua bocca da sole. La mente si fece leggera. La nebbia iniziò a turbinare dentro la stanza. I simboli incisi sulla roccia iniziarono ad illuminarsi di una sfumatura verde.
Luce.
Tutto fu luce. le voci sparirono. Una sensazione di tepore riempì la mente dei presenti. La luce si fece intensa. Liquida. Tutti ne furono avvolti.
E poi fu di nuovo l'oblio.


martedì 23 novembre 2010

Fallimenti

L'ultima volta che l'aveva vista, Claire stava uscendo da quella porta. Senza urlare. Senza entusiasmo. L'aveva aperta con delicatezza come quando si cerca di non svegliare qualcuno rientrando in casa. Solo che lei se ne stava andando, e sarebbe stato per sempre. Il suo sguardo continuava a vagare distrattamente per la stanza, come per dire addio a tutte quelle cianfrusaglie che col tempo aveva imparato ad amare. Una fuga calma, quasi al rallentatore. L'ultima occasione che inconsciamente stava concedendo a lui, Eric, di rincorrerla, di fermarla, di impedirle di fare quell'ultima sciocchezza. Eric se ne rimase seduto sulla sua poltrona con lo sguardo fisso a terra, la testa fra le mani a contemplare il suo ennesimo fallimento.
L'aveva conosciuta ad una festa. Una delle tante che ciclicamente infestavano la palestra della scuola. Una di quelle alla cui organizzazione partecipava per tenere la mente occupata. Per non pensare troppo. Lei era la nuova infermiera, assunta da poco più di una settimana. Avevano fatto anche una riunione in sala professori per presentarla, a cui però l'impegnatissimo professore di Scienze non aveva potuto prendere parte.
Claire si era offerta di aiutare nella preparazione dei festoni. Rose. Ecco cos'erano. Era la festa delle Rose. Quindi ad occhio e croce doveva essere la prima settimana di aprile. Lei si era appena trasferita in città. Era al suo primo incarico di lavoro e, come tutti quelli che iniziano una nuova avventura, vi aveva infuso ogni sua energia. Sarebbe esplosa entro breve se non si fosse data una calmata. Eppure c'era qualcosa di strano in lei, qualcosa di esotico.
La sua giovane età e la sua aria innocente la facevano sembrare più una studentessa che una professionista. Aveva uno splendido sorriso e sembrava divertirsi davvero mentre ritagliava il cartoncino rosso per creare delle decorazioni a forma di bocciolo di rosa. I suoi lunghi capelli biondi le coprivano il viso, aveva dei bellissimi occhi del colore dell'oceano. Eric iniziò ad avvicinarsi a lei senza quasi accorgersene. Facendo finta di controllare l'andamento dei lavori. Uno sguardo a destra, uno a sinistra e uno su Claire. Un passo, un altro passo.
Uno studente con un grosso cesto pieno di materiali lo intruppò da dietro, per un attimo perse l'equilibrio e andò ad appoggiarsi di peso sul banco sul quale l'infermierina stava lavorando. Lei alzò lo sguardo per vedere cosa accadeva e lui si affrettò a scusarsi: "Oh, mi scusi... non volevo... è che uno dei ragazzi..." lasciò cadere la frase cercando di trovare con lo sguardo lo studente che lo aveva colpito. Una scusa per evitare il suo sguardo diretto "Non si preoccupi, succede" rispose lei gioviale "Io ho le gambe piene di lividi" continuò mimando il gesto di massaggiarsi il polpaccio "Lei deve essere il professor Stevens! Non avevamo ancora avuto modo di conoscersi".
"Mi chiami pure Eric" si affrettò ad aggiungere. "Va bene Eric, io mi chiamo Claire" rispose lei allungando la mano per stringere quella del professore. Si erano conosciuti.

Da quel giorno ogni scusa era buona per stare insieme. Parlavano, ridevano, si punzecchiavano. La sera della festa lei venne ad invitarlo a ballare. Eric non era sicuro di ricordarsi come si faceva. Era abbastanza certo di averle pestato i piedi almeno un paio di volte, ma lei non lo aveva dato a vedere. Troppo persa nei suoi occhi per preoccuparsi del mondo circostante. Il classico colpo di fulmine. Non che Eric ci credesse, eppure non sapeva che altra spiegazione darsi.
La loro storia iniziò quel giorno. Fu intensa come un incendio. E con altrettanta velocità si spense. La colpa era sua, Eric ne era consapevole, ma non riusciva a farci niente. Non era in grado di impegnarsi. A dire il vero non era in grado di prendere alcun tipo di decisione. Claire era stata molto paziente con lui. Gli aveva lasciato i suoi tempi, i suoi spazi. Eric non aveva fatto altro che crearsi un muro intorno, fatto di tristezza ed autocommiserazione. Aveva commesso degli errori nella sua vita. Tanti errori. Ma questo non voleva dire essere perduti. Claire aveva cercato di farglielo capire, ma lui non era riuscito a lasciarsi andare. L'aveva chiusa fuori dal suo mondo, e lei se n'era andata. Per sempre. Non avevano neanche litigato. Erano semplicemente diventati due persone che non si capivano, che non si conoscevano.
Lei era uscita da quella porta e lui non l'aveva fermata e ora, dopo tre giorni, era ancora lì a chiedersi il perché della sua inettitudine. Seduto su quella stessa poltrona a fissare la porta della sua casa, Eric aspettava. Non sapeva cosa di preciso, ma ogni sera rimaneva ore seduto ad aspettare il momento in cui la sua vita sarebbe cambiata. D'altra parte era così che il professor Stevens viveva le sue giornate. Rimaneva immobile aspettando i cambiamenti, in balia degli eventi. Senza mai fare nulla per lasciare il segno, per cambiare le cose, per raccogliere le redini della sua esistenza.

Si alzò per riempirsi un bicchiere di scotch. Era un gesto meccanico, l'unico che avesse mai appreso da suo padre. Lui, il grande ricercatore. Lui, il docente universitario più stimato. Sempre in giro per tenere conferenze e simposi. Mai un momento da dedicare alla famiglia. Non si fece neanche vivo al funerale di sua madre. Non aveva mai avuto una parola di conforto per il figlio. Mai un incoraggiamento ne un apprezzamento. Neanche il giorno della sua laurea. Meccanica quantistica, la stessa di suo padre.
Probabilmente Eric avrebbe avuto un brillante futuro se avesse accettato di vivere all'ombra dell'uomo che lo aveva generato. Un giorno avrebbe anche potuto succedergli, e magari quel giorno avrebbe ricevuto anche la tanto agognata approvazione da parte del suo vecchio. Ma lui era un fallito, glielo aveva ripetuto sempre. Ogni volta che aveva avuto un dubbio, un'incertezza, dal padre non aveva ricevuto altro che quell'epiteto: Fallito. Ormai ci credeva, si era convinto che dalla vita non poteva ottenere di meglio. Decise pertanto di comportarsi di conseguenza. Di fuggire da quell'ombra che lo asfissiava e di andarsi a nascondere lontano. Fece richiesta per diventare insegnante e fu mandato al McFrancis. Da li non era più scappato.
Mentre si versava quell'ennesimo bicchiere, si guardò allo specchio. Quei profondi occhi marroni troppo scavati dall'amarezza. Quei capelli castani che aveva tagliato e riempito di gel per darsi un aspetto più giovanile, per stare al passo con Claire. Si era lasciato anche un accenno di basette, che però ora iniziavano a confondersi con la barba incolta. Gli zigomi, quelli li aveva ereditati dalla madre. Pieni e morbidi. Ogni volta che sorrideva la rivedeva, la ricordava. Aveva le guance un po' incavate, erano giorni che non mangiava, inoltre la barba accentuava le ombre sul suo volto dandogli un aspetto ancora più emaciato.
Si accarezzò la barba e sentì la ruvida peluria grattargli sul palmo della mano. Si sentiva stanco. Di se, della sua vita, del suo carattere. Tornò alla sua poltrona, col suo scotch, con la sua tristezza. Si rimise ad aspettare.

L'attesa terminò all'improvviso. Una raffica di colpi secchi si schiantò contro la sua porta. Chiunque fosse doveva avere fretta, perché dopo aver selvaggiamente picchiato la porta, si accanì contro il campanello. Eric si riscosse dal suo torpore e cercò di alzarsi, si sentiva un po' brillo e si accorse di avere un impellente necessità di andare in bagno. Si assicurò di essere completamente vestito. Pantaloni e camicia erano al loro posto, un po' sgualciti ma ancora presentabili, la cravatta era allentata ma ancora al suo collo. "Un attimo! Arrivo!" urlò al suo assalitore. Poggiò il bicchiere sul tavolo e si avviò alla porta con passo incerto. Il pavimento freddo gli ricordò che era scalzo, ma non se ne curò. Non gli andava di cercare le scarpe, e se avesse fatto aspettare ancora il suo ospite inatteso avrebbe rischiato di ritrovarsi senza più una porta da aprire.
Trovò più difficile del solito sbloccare il chiavistello. Forse avrebbe dovuto evitare gli ultimi due bicchieri di scotch. Quando alla fine riuscì ad aprire la porta, un ragazzino si proiettò letteralmente nel suo soggiorno. Era uno dei suoi studenti, non uno di quelli più brillanti, ricordava di averlo visto spesso in compagnia di Summer, il suo pupillo. Sembrava spaventato e accaldato. Da quel che ricordava doveva far parte della squadra di atletica, quindi tutto quell'affanno era un po' strano. Gli ci volle un po' per riuscire a riprendere fiato, soprattutto perché continuava ad articolare parole confuse e incomprensibili.
Eric cercò di farlo sedere ma lui non volle "Dobbiamo andare! Lei deve venire con me!" continuava a ripetere. "Andare dove? Che ti è successo". Il ragazzo rifletté un attimo prima di parlare di nuovo, come se stesse cercando una scusa valida. Ne approfittò anche per riprendere un po' di fiato. "Stavamo facendo... una passeggiata... si, stavamo passeggiando nel bosco di Plumdale quando si è aperta una voragine" mimò l'ampiezza del buco con le mani e si assicurò guardando le sue braccia di aver preso bene le misure. "Io mi sono salvato, ma Elliot, Mallory e Lara sono caduti dentro."

Si, certo, una passeggiata. Proprio vicino al casale nel quale gli aveva intimato di non andare quel pomeriggio nell'aula di punizione. Si massaggiò le tempie per decidere il da farsi. Questa volta era facile. Bastava chiamare un'ambulanza, se ne sarebbero occupati loro. "Si, si! Chiami l'ambulanza, ma non possiamo aspettare, Lara si è fatta male, bisogna tirarla fuori." Si picchiettò la testa e strizzò gli occhi. Cercava di recuperare un ricordo "Ah già, Mallory dice di portare una corda!"
Una corda? Cosa si aspettavano che facesse? Notò che il ragazzo, dovrebbe chiamarsi Peter, una volta consegnato il messaggio si era un po' calmato. I suoi occhi avevano iniziato a vagare per la stanza. Eric si sentì in imbarazzo per il disordine e per la trascuratezza che trasudavano dalle pareti di quella casa. Decise di accontentarlo non tanto perché lo desiderasse, quanto per evitare che quello sguardo curioso si trasformasse in uno sguardo di biasimo. Non sarebbe stato in grado di tollerarlo, non da un suo studente. Era più che sufficiente quello che ogni mattina vedeva riflesso nel suo specchio.
Corse in camera a recuperare le scarpe e la sua giacca di tweed. Mentre raggiungeva Peter si ricordò di non aver preso le chiavi della macchina. Fece per tornare indietro e passò davanti allo specchio. Si guardò, quasi di sfuggita, e non si riconobbe. Era contento di aver qualcosa da fare per non pensare ai suoi problemi, ma questo non giustificava ciò che lo specchio gli stava riflettendo. Sembrava felice. Col suo vestito indosso, con la sua cravatta annodata, coi suoi capelli dritti per via del gel. Un'altra persona rispetto al volto disfatto che aveva intravisto nello specchio solo pochi minuti prima. Si guardò ancora un attimo e si sorrise.

Disse al ragazzo dove poteva prendere una corda. Il garage era aperto e poteva tranquillamente servirsi da solo. Eric intanto spense le luci, rimise il tappo alla bottiglia di scotch e si avviò. Quando chiuse la porta provò una strana sensazione. Per un attimo appoggiò una mano sul quella solida superficie, probabilmente ciliegio. Sentì le venature del legno che correvano sotto la sua mano. Aveva costruito un muro intorno alla sua vita, e in quel momento sentiva di essersene chiuso fuori. Non sapeva perché, ma sentiva che non avrebbe mai più varcato quella soglia.
Una ventata d'aria lo riportò alla lucidità, si riscosse dal suo sogno ad occhi aperti e si diresse alla macchina. Peter era lì che sistemava la corda arrotolandola intorno al suo avambraccio. Salirono in macchina ed Eric mise in moto. "Dove dobbiamo andare di preciso" chiese "Lungo questa strada, a non più di tre chilometri, c'è una specie di incrocio... " Eric aveva capito, dopotutto quella strada la faceva tutti i giorni.
Decise di non chiedere nulla al ragazzo del perché si trovavano lì, lo sapeva già. Non aveva voglia di sgridarlo. Non lui che probabilmente in quella casa c'era stato solo trascinato da Elliot. In parte poi si sentiva responsabile. Quando era uscito dall'aula di punizione, quel pomeriggio, sapeva che i tre ragazzi non avrebbero dato peso alle sue parole. Ma come al solito non aveva saputo imporsi. Aveva preferito che fosse il preside a decidere cosa fare. Che razza di professore non è in grado di gestire una situazione così semplice? Eric si sorprese a pensare che dopotutto suo padre non aveva tutti i torti.

Durante tutto il tragitto provò a chiamare un'ambulanza ma sembrava che qualcosa disturbasse il segnale del suo telefonino. Arrivarono in pochi minuti sul luogo indicato da Peter. Lasciarono la macchina e si incamminarono nel folto del bosco. C'era un silenzio innaturale e da non molto lontano arrivava il riverbero di una fioca luce. Camminarono per diversi minuti lungo il pendio della collina. Peter sembrava riuscire ad individuare con facilità ogni ostacolo che si parava sulla via. Ogni tanto diceva ad Eric dove rischiava di inciampare su una radice di quercia o dove un sasso particolarmente grande rischiava di farlo scivolare.
Man mano che si avvicinavano al luogo dell'incidente il chiarore si faceva sempre più forte. "Da dove viene questa luce?" provò a chiedere all'altro "Dal buco" fu l'unica risposta che accennò il ragazzo. Probabilmente avevano delle torce ed erano finite nella voragine. Solo quando furono sul posto capì realmente il significato di quella risposta. La voragine si era aperta su una specie di camera sotterranea. Una cupola molto grande, con quattro archi molto ampi che si incrociavano al centro e sostenevano l'intera struttura. La cosa più incredibile era proprio quella luce. Sembrava che le pareti trasudassero una specie di nebbiolina dorata che illuminava tutta la camera. Uno spettacolo meraviglioso.
Quando li videro, Elliot e Mallory esultarono. Tirarono entrambi un grosso sospiro di sollievo e sorrisero. Se qualcuno gli avesse detto che quei due si erano picchiati quella mattina, probabilmente non ci avrebbe creduto. Avevano costruito una sorta di barella con rami secchi e radici di alberi che dovevano essere finiti nella cupola al momento del crollo. Lara era semi-cosciente, muoveva la testa e farfugliava parole incomprensibile. Almeno era viva. I due l'avevano bloccata sulla barella con le cinture dei loro pantaloni. Tutto sommato avevano fatto un buon lavoro perché la soluzione sembrava solida e stabile.
"Avete portato la corda?" chiese Mallory "Si" fece Peter mostrandogliela "Bene, legate un capo ad un albero e lanciateci l'altro." Qualcuno lì in mezzo sembrava perfettamente in grado di prendere decisioni, quindi Eric si rilassò ed eseguì l'ordine. Una volta calata la cima, Elliot la legò ai piedi della lettiga di Lara avendo cura di farne avanzare un bel po'. La fecero passare sotto i rami secchi e legarono anche l'altro lato della barella. Infine Mallory annodò l'ultimo pezzo di corda rimasto libero alla parte iniziale della stessa formando un triangolo. Una sorta di altalena che avrebbe permesso ad Eric e Peter di tirare su la ragazza.
Elliot e Mallory aiutarono i due sostenendo il peso della ragazza finché l'altezza glielo permise. Lo sforzo era enorme, ma i due sembravano essere in grado di sostenerlo. La corda faceva male sui palmi delle mani, ma resisterono e continuarono a tirare.
Tirarono.
Tirarono.
Tirarono.
Il terreno cedette. Di nuovo.