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domenica 28 agosto 2011

L'Angelo della Morte


La penombra domina su quel lungo corridoio. solo una esile lampada al neon sul soffitto cerca di portare avanti la sua epica battaglia contro il buio. Il rumore ritmico e, diciamocelo, anche un po' fastidioso delle continue scariche di corrente rompono il silenzio perfetto della notte. Provano ad eccitare quel poco gas ancora rimasto nel tubo della lampada, ma è una battaglia persa. Un po' una metafora dell'uomo moderno che vive in una costante guerra contro l'impotenza. Niente eccitazione, niente luce e la battaglia continua estenuante, snervante, inutile.
Di quei cento metri di cemento e piastrelle e porte e sedie e quadri rimane solo l'immagine impressa nella retina che subito dopo l'ennesima scarica sfuma nello scuro abisso della notte. Ombre e riflessi come fantasmi abbandonati si agitano sul fondo dei miei occhi come echi di tutte le persone che sono state qui, che qui hanno trascorso i loro ultimi giorni e che infine sono scomparse. Scomparse come nebbia al mattino e che adesso riappaiono tra gli sprazzi di vita di una lampada moribonda.
Sarebbe ora di cambiare quella lampada, e forse anche le altre due che si sono arrese al buio esalando il loro ultimo sbuffo di gas. Il problema è che dovrei farlo io, dovrei essere io a sostituirle. Ho qui sotto la scrivania le lampade nuove ancora dentro i loro imballaggi originali, mi basterebbe prendere la scala dallo sgabuzzino, svitare i vecchi tubi di neon e installare quelli nuovi. Un lavoretto da cinque minuti appena, ma questo significherebbe dire addio ai miei fantasmi, ai miei echi, alla mia vita. Quindi me ne rimango qui sdraiato sulla mia poltrona in poliestere e metallo, coi piedi appoggiati sul bancone a godermi lo spettacolo delle anime danzanti.

Qui di anime ormai ce ne sono davvero troppe. Se mi fossi preso la briga di raccogliere in una bottiglia, ampolla o barattolo le ultime esalazioni di tutti i pazienti che sono morti in queste camere, probabilmente adesso avrei una cisterna piena di anime. Una sorta di salvadanaio della vita umana, una raccolta degli ultimi istanti terreni delle migliaia di persone che qui sono venute a morire.
Il reparto Hemerton del Memorial Hospital non è un posto dove si cura la gente. Oddio, dipende da cosa voi intendiate per 'curare'. Qui vengono ricoverate tutte quelle persone per le quali non è più possibile fare nulla. Malati terminali di cancro, pazienti con malformazioni cardiache gravi che non sono risultati idonee al trapianto e così via, la lista è lunga. Dite una malattia grave e io l'ho vista. Abbiamo anche la sezione riservata alle malattie infettive gravi. Nel momento in cui varchi la soglia di questo corridoio hai già il cartellino bianco attaccato all'alluce del piede con sopra il tuo nome, la tua data di nascita e il mese e l'anno della tua morte. Manca solo il giorno, quello è variabile, ma di solito, se arrivi qui, non ti restano più di cinque o sei giorni di vita. Anche meno se io sono di turno.

E' la vita, l'intollerabile legge della vita: si nasce, si vive, si muore, cambiano solo le modalità. Nessuno può sottrarsene, si può solo sperare di vivere in maniera decente e morire senza troppo dolore, cose che qui di solito non si vedono, e quindi i fantasmi si accumulano e le anime si mischiano e si conpenetrano con l'aria appesantita e dolciastra che ogni notte continuo a respirare.
Odore pungente di pelle rancida che si mischia alle essenze di mughetto. Odore acre di vomito che si annulla nel profumo di pino selvatico. Odore metallico di sangue che si dissolve nell'aroma di violette. L'unica cosa che è rimasta da curare qui sono gli odori, e anche quello lo si fa più per i familiari che per i pazienti, per creare l'illusione che il caro estinto stia bene. Col pannolone pieno di merda fumante, con i polmoni pieni di liquido ormai viscoso, con lo stomaco pieno di ulcere e sangue, ma almeno non puzza, e tanto basta alla gente per rasserenarsi, per avere la forza di sorridere. La forza di sostenere il senso di colpa per quel distaccato disinteresse che progressivamente prende forma nei confronti di chi un tempo si è amato, odiato, sopportato e che ora è poco più di un impegno trascurabile su una agenda dimenticata chissà dove.

E' una reazione normale, un po' come andare a portare i fiori sulla tomba di uno che da questo reparto è già uscito. Poco più di un rito per sentirsi la coscienza a posto, per darsi l'illusione di non aver dimenticato. La sofferenza, quella vera, quella con le lacrime e i songhiozzi, con la disperazione che ti osplode dagli occhi e dal naso, quella la gente l'ha già vissuta. Un giorno arriva un dottore, uno vero, non come quelli che si aggirano per questi luoghi. Arriva e ti comunica che tua madre, tua nonna, tuo fratello o tuo figlio verranno spostati qui da noi al quinto piano. Ti dice che lo fanno per metterlo più a suo agio, per dargli conforto in questi ultimi momenti e tu all'inizio non capisci, pensi quasi di aver vinto alla lotteria. Gli daranno una stanza più grande che non dovrà condividere con altri pazienti. Avrà grandi finestre che daranno sul cortile interno e sul roseto. Avrà la TV e il bagno privato. Avrà tre pasti al giorno e su ordinazione. Quello che non ti dice ma che dopo poco capisci da te è che potrà godere di questo paradiso solo per pochi giorni, poi il letto verrà rifatto, le lenzuola verranno lavate, la composizione floreale sul davanzale verrà cambiata e un altro paziente occuperà la camera.

Nel momento in cui questo pensiero si fa strada nella tua testa, la consapevolezza di aver perso il tuo caro diventa una certezza. Quei pochi chili di carne e ossa sono solo il ricordo della persona che era un tempo e che ormai ti ha abbandonato. Da lì alla disperazione il passo è breve. Abbiamo uno psicologo interno che si guadagna lo stipendio semplicemente cercando di dare conforto ai vivi, mentre noialtri del reparto Hemerton cercheremo di dare conforto ai morti. E io questa missione l'ho presa sul serio. L'ho sposata e amata da quel lontano giorno di quattro anni fa.

La prima volta è sempre un incidente, mi avevano avvisato, ma pensavo fosse la solita solfa che si dice per spaventare i novellini. Sbagli a dosare la morfina, dimentichi di controllare che non ci siano bolle d'aria nella siringa, agganci male la sacca nuovo con la fisiologica. Capita a tutti, è un po' un iniziazione il tuo primo omicidio. Beh, non è proprio questo che viene scritto sul certificato di morte. Cause naturali. E' questo che diciamo ai parenti e loro di solito non fanno storie, non piangono nemmeno, erano già preparati. Dopotutto non è un grave errore, al massimo hai rubato un paio di giorni di vita ad una persona che non li avrebbe vissuti. Come rubare i broccoli dal piatto di un bambino, difficilmente nessuno se ne lamenterà, soprattutto non il bambino.

Nel mio caso dimenticai di aprire la bombola dell'ossigeno. Il respiratore si bloccò e madre natura fece il resto. Quando me lo dissero rimasi agghiacciato. Ero lì da pochi mesi e mi aspettavo una lavata di testa epocale e invece ricevetti solo una pacca sulle spalle e alcune parole di conforto. Cose che capitano. Rimasi ore a fissare quel corpo esanime che non voleva saperne di ricominciare a respirare. Mi aspettavo odio e ricevetti gratitudine. La nipote arrivò nel pomeriggio, cercai di spiegarle cosa era successo, mi sentivo in colpa ed ero pronto a costituirmi. Lei mi guardò con i suoi profondi occhi blu, si scostò una ciocca di capelli biondi da davanti alla bocca e con quelle labbra carnose pronunciò una parola che mi rimase scolpita per sempre nell'anima: "Grazie".
Non una lacrima, non un singhiozzo, neanche un insulto, solo un profondo e sincero ringraziamento. Avevo dato la pace ad una persona che se lo meritava. Cos'avesse fatto per meritarlo non l'ho mai saputo, ma io l'avevo salvata. Sono cose che ti segnano e che ti cambiano. I sensi di colpa erano spariti, come lavati via dal vento. Rimorsi, rimpianti, paure, tutto scomparso, come l'anima imprigionata in quell'ammasso di pelle e tumori. La mia prima anima. Mi sentivo onnipotente, mi sentivo realizzato. Avevo trovato il modo di adempiere alla mia missione, il mio modo di aiutare la gente.

Per definizione un serial killer è uno che ammazza la gente, ma quelli che arrivano qui sono già morti, quindi non è un vero e proprio omicidio, è più un modo per accorciare i tempi. Come quando si trova una soluzione per evitarsi di riempire montagne di scartoffie. Come quando si cerca di preparare un esame difficile studiando solo le dispense e i riassunti fatti da altri. La gente muore, è un dato di fatto, l'unica vera legge alla quale non si può sfuggire. Il vero assassino si macchia della colpa di aver sottratto l'esistenza o parte di essa a persone che avevano ancora qualcosa da dare al mondo o alla gente che li circonda e che li ama, li odia, li sopporta. Io qui non sottraggo niente a questi pazienti, non hanno più niente da dare al mondo se non escrementi e vomito. Anche i parenti delle mie vittime non si sentono privati di nulla, quello che avevano da perdere lo avevo già perso. Hanno solo bisogno di poter voltare pagina e io do loro il modo di farlo, di ricominciare a vivere la loro vita e di risparmiarsi altri giorni di affanno e di depressione. Sono loro i miei pazienti, quelli che a conti fatti posso davvero curare. Dopo il mio speciale trattamento ritornano a respirare, a sorridere, a vivere. Io do loro una nuova esistenza, e ogni tanto ci rimedio anche qualcosa. Il più delle volte una scatola di cioccolatini, un mazzo di fiori o un maglione, ma a volte anche qualche soldo e persino una scopata di straforo nello sgabuzzino. Negli ultimi quattro anni ho imparato ad amare questo lavoro.

***

Il quadro di segnalazione prende vita all'improvviso. Sotto il numero 14 inizia a lampeggiare furiosamente una luce bianca. Devo essere sincero, so a cosa serve quel quadro, ma mai lo avevo visto attivo, non ero neanche tanto sicuro che funzionasse. Di sicuro di giorno servirà a qualcosa, le infermiere vengono chiamate di continuo dai parenti dei cadaveri qui ricoverati per qualsiasi tipo di inezia, dal cambio del pannolone all'acqua per i fiori. Ma mai era capitato durante il turno di notte di vedere quel quadro illuminarsi.
Prendo la cartella con la lista dei degenti. La mia personale lista delle cose da fare, o meglio, delle persone da 'aiutare'. Scorro lentamente tra i nomi sul foglio e sul quale ancora non ho scritto il giorno e l'ora del decesso. Casualmente muoiono tutti durante il mio turno. La signora Perez ha ricevuto ieri la sua dose di varecchina. Il signor Joden ci ha lasciato col sapone per i pavimenti. Hellen della numero 6 ha scoperto che la CocaCola è meglio berla piuttosto che averla in circolo nel sangue. Il povero signor Rupert della stanza 9 credo abbia avuto qualche problema con delle bollicine d'aria nelle vene. La stanza numero 13 è il mio fiore all'occhiello, la signora Jensen si è ritrovata un grammo sano sano di acido lisergico nella sua fisiologica. Prima di morire si deve essere fatta uno di quei trip che neanche posso sognarmi.
La maggior parte dei nomi neanche me li ricordo. Sono solo numeri su una lista di cose da fare. C'è chi va a fare la spesa e chi dispensa morte, ad ognuno la sua specialità. Eppure il 14 proprio non me lo ricordo, la signora Madison ancora non ha avuto il piacere di incontrarmi e adesso sembra che abbia fretta di conoscermi.

La luce del quadro continua a lampeggiare insistentemente. I miei occhi ormai abituati ad una vita in penombra iniziano a fare male abbagliati da quella misera lampadina. Vediamo cosa vuole. Camminare per questi corridoi fa un certo effetto, nel silenzio quasi totale i miei passi sembrano quelli di un elefante nella savana. Il rumore da al cervello e sembra di camminare nel braccio della morte di un penitenziario nel giorno dell'esecuzione, sensazione che, per inciso, prima o poi temo dovrò provare. L'iniezione letale sarebbe l'ideale, quasi poetico, il classico cerchio che si chiude. Devo ricordarmi di proporlo al giudice che dovrà emettere la mia condanna, nel frattempo sarò io a decidere di che morte dovrà morire la signora Madison.
La stanza all'interno è buia e silenziosa. La porta si apre lentamente con un leggero cigolio. Mi aspetto da un momento all'altro le luci che si accendano e un nutrito gruppo di persone mi urla: "Sorpresa!" Poi però mi accorgo che sono tutti in divisa e con le pistole puntate verso di me. Devo decisamente rivedere il mio concetto di senso di colpa, non sono più tanto sicuro di non averne.
Con un filo di voce sussurro "Signora Madison?"
"Finalmente!" l'urlo arriva dall'altro lato della stanza e mi trapassa il cranio. Sento distintamente il mio cuore perdere diversi colpi, la testa gira mentre i brividi percorrono i miei muscoli improvvisamente tesi. Le vertigini sono la naturale risposta dell'organismo a qualcosa di imprevisto, inatteso e, soprattutto, indesiderato. Che sia un virus o qualcuno che ti fa prendere un colpo, la prima reazione è quella di sentire il pavimento girare mentre si perde l'equilibrio. Maledetta signora Madison.

Cerco con la mano l'interruttore e accendo la luce. La signora Madison è dall'altra parte della stanza nel suo letto che si copre gli occhi con un braccio.
"Che bisogno c'era di accendere la luce?" mi chiede con quel tono perentorio che non vedo l'ora di soffocare.
"Come potrei assisterla se non riesco a vederla?" rispondo io col tono più pacato che mi riesce.
"Non ho bisogno della sua assistenza" questo lo dice lei, a breve cambierà opinione.
"Allora come mai mi ha chiamato?" un po' di inutile conversazione non fa mai male, di solito i miei 'pazienti' sono tutti in coma o addormentati o ridotti a qualcosa di estremamente simile ad un vegetale.
Afferro la cartella clinica agganciata ai piedi del letto e scorro velocemente tra le varie note. La signora ha un tumore al pancreas con metastasi estese. Soffre di itterizia e arteriosclerosi. Perfetto, abbiamo nonna Simpson qui. Direi che la mia cura prevederà una soluzione di perossido di idrogeno al 30%. Nelle sue vene ci saranno dei veri e propri fuochi d'artificio. Una bella emolisi e tanti saluti alla signora Madison. Dovrebbero farmi impiegato del mese.

"Non voglio sapere di cosa sto per morire, lo so già" non mi piace ripetermi, ma questo lo dice lei, a breve cambierà opinione. 
"Voglio solo sapere se Jonathan è passato a trovarmi" e qui la sua voce si affievolisce, lo sguardo si abbassa, le guance si increspano come se fossero leggermente risucchiate all'interno della bocca, sulla fronte una fittissima ragnatela di rughe si contrae. Se al corso d'arte, uno dei tanti che ho abbandonato a metà, mi avessero chiesto di dipingere la tristezza, l'avrei rappresentata così.
Per queste cose paghiamo uno psicologo, non sono certamente io la persona più adatta a consolare un paziente, al massimo potrei dare una ripassatina alla nipote, ammesso che ce l'abbia e ammesso che sia carina, mah, in realtà non è così necessario che sia carina, mi basta sia disponibile. Devo ricordarmi di chiederle se ha una nipote, o forse potrei scoprirlo dalla cartella clinica.
"Adesso controllo" le dico e intanto mi faccio un po' di affari suoi, ma delle tante informazioni inutili riportate, nella cartella non trovo niente su parenti o visite. Niente nipotina ne informazioni su questo Jonathan.
"Jonathan sarebbe..." lascio morire la voce con la classica intonazione che nel linguaggio universale significa: completa la frase stupida vecchia. Alzo lo sguardo dalla cartella per sollecitare una risposta, ma lei non se ne accorge, con gli occhi rossi e lividi ormai è persa nei suoi ricordi, o almeno quei pochi che le restano.
"Jonathan è mio figlio" risponde lei con un filo di voce increspata dal pianto.

Appoggio la cartella al suo posto e mi avvicino al letto. Le chiedo "Ha per caso il suo numero di telefono? Posso provare a rintracciarlo" ma non ricevo risposta. Un rivolo di bava scende lentamente lungo la sua guancia e il suo respiro lento e regolare indica che si è addormentata. Adoro gli arteriosclerotici.
Beh, questa donna non si ammazzerà di certo da sola, qualcuno dovrà pur farlo, quindi vado in bagno a prendere l'acqua ossigenata. Mentre armeggio nel mobiletto dietro lo specchio alla ricerca del barattolo giusto, una confezione di pillole mi cade e si rovescia a terra. Tante piccole pastiglie si sparpagliano ovunque sul pavimento del bagno.
"Jonathan, sei tu?" la voce della signora Madison arriva un po' a singhiozzi. Mi affaccio dal bagno per tranquillizzarla e nonappena mi vede le pupille le si dilatano quasi nascondendo le sue iridi argentate, la fronte le si distende per quanto le rughe riescano a permetterle, le guance si tirano indietro creando due piccole fossette, le labbra le si tendono fino quasi a creparsi. Se al corso d'arte mi avessero chiesto di dipingere la felicità, l'avrei rappresentata così.

"A dire il vero io..." provai a dire lasciando morire la voce e accennando a voltarmi verso il bagno. Gesto che nel linguaggio universale significa: e adesso che mi invento?
"Accidenti, mi hai fatto proprio sospirare, avevo così voglia di rivederti prima di tirare le cuoia" neanche raccogliendo tutto il cinismo e l'astio nei confronti della vita che mi scorre nelle vene riesco a disilludere tutta quell'aspettativa. Per la prima volta ho l'occasione di curare almeno l'anima di uno dei miei pazienti, dei miei fantasmi. Certo magari eviterò di scriverlo nel curriculum, ma potrebbe essere un modo interessante per ammazzare almeno la noia.
"Scusami... mamma... c'era traffico" non sono mai stato bravo ad inventare balle.
"Oh, non ti preoccupare, l'importante è che tu sia qui adesso. Vieni a sederti" e con la mano indica la sedia accanto al letto. Lentamente esco dal bagno e con il barattolo di acqua ossigenata ancora in mano mi dirigo verso la sedia. Accanto a me, sul comodino, alcuni effetti personali della signora ed una foto incorniciata. La prendo e la guardo distrattamente, è la foto di un bell'uomo giovane in giacca e cravatta, probabilmente Jonathan. Jonathan, Jonathan, Jonathan. Perché mi ricordo questa faccia? Se ne ho memoria io non è buon segno. Difficilmente mi capita di incontrare gente al di fuori dell'ospedale. Coi turni che faccio, durante il giorno dormo e le notti le passo sempre qui dentro. Vita alienante ma tranquilla. Non mi piace la confusione del mondo esterno, preferisco la pacata calma dei miei fantasmi. Jonathan, dov'è che ti ho già visto?
"Ancora trovi il coraggio di prendere la macchina dopo quel brutto incidente? Te l'ho detto un sacco di volte che devi andare in giro con i mezzi pubblici" questo spiega tante cose. Buffo, il parente che stavo per curare in realtà è già stato mio paziente. Jonathan l'ho ammazzato io.

La luce rende lucido il vetro della cornice e il riflesso del mio volto si sostituisce all'immagine di Jonathan. Il mio sguardo è vitreo, quasi inespressivo, la barba incolta, le mascelle serrate e le orecchie arrossate. Se al corso d'arte mi avessero chiesto di dipingere i sensi di colpa è così che li avrei rappresentati. Il peso delle mie azioni, delle mie certezze e delle mie convinzioni è improvvisamente troppo grande da sorreggere. Le vertigini sono la naturale risposta dell'organismo a qualcosa di imprevisto, inatteso e, soprattutto, indesiderato. Faccio per posare la foto sul comodino ma manco l'obiettivo e la cornice si infrange per terra. Jonathan continua a sorridermi attraverso i frammenti del vetro.
"M-mi dispiace, non volevo... mi è scivolata".
"Oh, non ti preoccupare, adesso che sei qui non mi serve una stupida foto" dice lei. Io non riesco a fissarla negli occhi e non riesco neanche a balbettare nulla. Non riesco a vederlo, ma percepisco il suo sorriso benevolo, il sorriso ignaro del male che le ho fatto. Cerco di farmi forza e recuperare la lucidità. In mano ho ancora la boccetta di perossido di idrogeno. La morte è un vincolo universale, prima o poi tutti gli andiamo incontro e nessuno vi si può sottrarre. Non credo in un aldilà ne nella reincarnazione, ma il cerchio si deve chiudere e volente o nolente è mio dovere far ricongiungere la madre al figlio perduto. Almeno è quello che mi ripeto come un mantra per convincermi che quello che sto per fare è giusto e corretto. Allora perché le mani mi tremano mentre prelevo il liquido trasparente con la siringa? Una goccia mi bagna il dorso della mano e mi chiedo come abbia fatto a versare il contenuto della boccetta senza accorgermene, alla fine mi rendo conto che non è acqua ossigenata ma una lacrima, una mia lacrima.

"Perché piangi piccolo mio?" mi chiede la signora Madison.
"Perché devo fare una cosa, ma non sono sicuro di volerla più fare" le parole mi escono da sole dalla bocca. Piango come un ragazzino che si è appena sbucciato un ginocchio e abbasso la testa fino ad appoggiarla sul materasso. Sento frotissimo l'odore acre di bile e pelle morta, mi chiedo dove sia l'essenza di mughetto. La mano della signora accarezza i miei capelli radi e riesco a sentire il suo tepore che mi scalda fin dentro l'anima.
"Quando avrai fatto questa cosa potremo finalmente stare insieme per sempre, giusto? Allora che aspetti?" Mi alzo a guardarla negli occhi. Vivi e vispi come non ne avevo mai visti in questi letti. Lei non è un mio paziente, non deve essere un mio paziente, non voglio che sia un mio paziente, ma non ci si può sottrarre alla legge della vita e della morte. Nessuno è immune dal decadimento, non ci sono sensi di colpa che tengano. Il respiro si fa lento, la forza abbandona il corpo e poi c'è soltanto l'oblio. Potrei scappare da tutto questo, voltarmi, cambiare lavoro, tapparmi in casa per il resto dei miei giorni, eppure è più forte di me. Quando ti spingi oltre un limite ormai non puoi più tirarti indietro e ripensarci. Sono un drogato in cerca della sua dose di morte. La sensazione di onnipotenza e superiorità che ti si scarica nel cervello quando sai di essere il responsabile della vita e della morte altrui, questa è la mia droga, questa è la mia vita. Una vita che non voglio più, che non riconosco più, che devo combattere. Ma cosa cambia poi? Questa donna morirà comunque tra qualche giorno perdendo ogni barlume di dignità.
Ci risiamo. Prima avevo gli altri a giustificare le mia azioni e ora mi giustifico da solo. Sono un caso disperato. E mentre lo stantuffo della siringa spinge la soluzione letale nella flebo, la signora mi sorride e mi dice "Grazie".


mercoledì 29 dicembre 2010

Tecnica di Scrittura Top-Down

Quello che vorrei fare in questo post è parlarvi di come mi approccio alla scrittura, del mio metodo e di come ci sono arrivato. Ovviamente ci tengo a sottolineare che questo è il mio metodo, quindi potrebbe non risultare adatto a tutti. Ognuno si rapporta alla scrittura nel modo in cui si sente più a suo agio. Resta il fatto che se qualcuno ancora non ha trovato il suo metodo o magari è solo curioso di conoscere il mio, potrebbe trovare interessante quanto ho da dire.

Chi mi segue fin dall'inizio saprà che di lavoro faccio il programmatore. In un certo qual modo anche lo sviluppo di software ha un ché di artistico, o per lo meno così è quando si ha una certa libertà di azione. Programmare stimola molto la creatività ed è una sorta di punto di incontro tra la risoluzione di problemi matematici e la scrittura creativa come quella che potete leggere in queste mie pagine. Allora la domanda vien da sé, come si legano le due cose?
Effettivamente il lavoro di sviluppo influenza molto il mio metodo di scrittura, tanto che potrei dire di approcciarmi alla stesura dei capitoli con la stessa tecnica con la quale programmo.

Facciamo un passo indietro. Una piccola dissertazione informatica necessaria ad introdurre l'argomento. Ancor prima di scrivere il codice che darà vita ai programmi che ogni giorno girano sui vostri computer, un programmatore deve affrontare una lunga fase di progettazione. In realtà questa fase è la parte più consistente del lavoro perché, una volta terminata, il software in pratica si scrive da sé. Non importa che linguaggio si decida di usare per lo sviluppo, durante la progettazione il software viene analizzato in ogni sua parte e viene organizzato il lavoro che dovrà essere fatto -non come dovrà essere fatto, verrà solo identificato quale è il lavoro da fare- quindi questa metodologia può essere applicata a qualsiasi campo, dalla scrittura creativa all'organizzazione di una cenetta a lume di candela alle vacanze estive con gli amici.

Nello specifico, esistono due metodi principali che vengono utilizzati per la progettazione del software: la Bottom-Up e la Top-Down. Come suggeriscono i nomi, quello che cambia è il senso in cui si decide di muoversi.
Nella programmazione Bottom-Up si parte da un livello di astrazione molto basso, ovvero più vicino al codice macchina e meno orientato alla fruizione, per poi procedere aggiungendo funzionalità che man mano rendano il software adatto all'utilizzo da parte dell'utente finale. Questo tipo di progettazione è utile quando si intende realizzare software di ampio respiro, con finalità generiche e molteplici applicazioni. Si prenda per esempio un sistema operativo come Windows o Linux, la progettazione parte necessariamente dal basso, ovvero dal kernel che è a tutti gli effetti il cuore del sistema operativo e che permette la comunicazione diretta del software con la macchina. Una volta realizzato il cuore, si passa ad aggiungere gli altri organi, i programmi che forniranno le varie funzionalità al sistema ed infine si realizzerà un'interfaccia grafica che permetterà all'utente di gestire il tutto.
Al contrario, la programmazione Top-Down è orientata a software più 'piccoli' di cui si conosce fin dall'inizio la finalità. In questo caso si parte da un'idea e si cerca di trasformarla in realtà procedendo per suddivisioni. Come quando in matematica si scompone un problema per ricondurlo ad operazioni basilari e quindi di semplice soluzione, anche in informatica si cerca di suddividere il software in blocchi sempre più piccoli definendone man mano le connessioni tra le varie parti e rendendo il processo di sviluppo facile e immediato. Questo è il tipo di approccio che utilizzo per scrivere e di cui voglio parlarvi.
Di seguito vi riporterò le varie fasi che partono dall'idea iniziale fino ad arrivare alla stesura del singolo capitolo utilizzando i passi della programmazione Top-Down.


Lo Scopo (Le Idee)

Per scopo in informatica si intende la finalità del software. Nel nostro caso, la finalità che vogliamo raggiungere è scrivere una storia, quindi come prima cosa dobbiamo avere delle idee ben chiare in mente. Non dobbiamo necessariamente conoscere ogni vicenda che porterà dal prologo all'epilogo, in questa fase non ci interessa neanche sapere chi sono i personaggi e cosa faranno. L'unica cosa sulla quale dobbiamo focalizzarci è l'idea.
Una storia nasce sempre da un'idea, che sia vaga o specifica non importa, l'unica cosa che conta è che sia nostra, che la sentiamo dentro e che sia per noi fonte di ispirazione.
Nel mio caso l'idea era quella di un mondo dove convivessero magia e tecnologia e che per una qualche ragione queste venissero separate in modo da non potersi più incontrare.
E' molto generica e a questo punto non si può ancora identificare un racconto, ma è la tela sulla quale dipingere la nostra storia.

Lo Scenario (L'Ambientazione)

Questa è la fase in cui la storia viene 'sbozzata'. L'idea viene applicata in maniera concreta e viene dipinta l'ambientazione del romanzo. In informatica, il significato del termine scenario è un po' diverso da quello che si intende comunemente. Ci si mette nei panni dell'utente e si definisce cosa ci si aspetta dal software. In un programma di video-scrittura, l'idea è di avere uno strumento che permetta di scrivere dei testi, lo scenario è l'interfaccia che ci permetterà di farlo. Ovviamente a questo punto l'interfaccia è solo ipotizzata, il più delle volte non assomiglia per nulla a quella finale che verrà proposta all'utente, ma serve da linea guida per ottenere il risultato.
Avendo a disposizione una bozza di interfaccia, si può immaginare quali azioni vorrà compiere l'utente e quindi iniziare a suddividere le varie funzionalità. Nel nostro caso questo aiuto ce lo fornisce l'ambientazione. Descrivere nella maniera più accurata possibile il mondo all'interno del quale si muoveranno i nostri personaggi ci aiuterà a dare forma alla storia. Badate bene che a questo punto non ho ancora definito cosa dovrà accadere nella storia, ma so in che modo potrà evolversi e posso quindi iniziare a delineare una serie di avvenimenti che potrebbero accadere e ho definito le regole alle quali dovranno sottostare i personaggi.
Ci sarebbe molto da parlare sulle regole, ma finirei per scrivere un altro libro. Diciamo che come nella vita di tutti i giorni, ci sono alcuni aspetti che sono indipendenti dalla nostra volontà e che dobbiamo semplicemente accettare. Ogni giorno il sole sorgerà e tramonterà, la forza di gravità sarà sempre uguale, l'arsenico è una sostanza tossica e l'ossigeno è una necessità per sopravvivere. Non dico che dovrete creare tante regole quante ne esistono nel mondo reale perché altrimenti impazzireste, ma vanno fissati alcuni punti sui quali bisogna essere rigidi e coerenti. Nella mia storia le persone che vengono dal mondo della tecnologia non possono fare uso di magia e viceversa (se a qualcuno è venuto in mente Elliot, vi rimando al capitolo delle eccezioni). Una volta create delle regole generali, si possono definire delle regole più piccole e soggette a restrizioni, come ad esempio nel caso di Kaila che, essendo una discendente degli Edori, ha il potere della preveggenza. In questa fase possiamo definire cosa esiste e cosa non esiste nel nostro mondo -elfi, nani, vampiri, licantropi, mutaforma, cervi con le ali, etc...-, cosa è possibile e cosa non lo è -volare, teletrasportarsi, saltare da una torre senza morire spiaccicati, viaggiare nel tempo e nello spazio in una cabina blu, etc...-
Una volta definite le regole si avranno a disposizione tutti gli strumenti per iniziare e delineare una storia vera e propria.

Casi d'Uso (La Storia)

I casi d'uso sono delle descrizioni sommarie di cosa gli utenti faranno con il software, di come si muoveranno all'interno dello scenario e di cosa ci si aspetta come risultato. Eccola qui la nostra storia. Ora che abbiamo delineato il mondo in cui questa si svolgerà, è giunto il momento di trasformare la nostra idea in qualcosa di più concreto. Ovviamente anche in questa fase non ci servono i dettagli degli avvenimenti, ci basta sapere in maniera per sommi capi cosa vogliamo raccontare e come vogliamo raccontarlo. Butteremo giù poche righe per descrivere la storia, una sorta di riassunto o sinossi che poi andremo man mano ad affinare.
In questa fase può anche avvenire una prima suddivisione. Per identificare i casi d'uso infatti si definisce cosa un utente potrà fare in una determinata schermata, ma non è detto che il lavoro completo potrà essere ricondotto all'interno dello stesso caso d'uso. In poche parole è questo il momento di definire come organizzare la storia in macro-sezioni, libri, saghe o quello che meglio si adatta al nostro genere. A questo punto sarà necessario scrivere accanto alla sinossi della storia completa anche le sinossi dei singoli libri o sezioni mantenendo ben presente la storia generale. In questo modo potremo concentrarci sulla prima parte della storia avendo però un riferimento a ciò che dovrà accadere sia in senso generico sia nello specifico nelle macro-sezioni successive (ad esempio potremo far accadere un evento nel primo libro e spiegarlo solo nel secondo, così si crea curiosità e aspettativa nel lettore). Personalmente cerco di non esagerare, perché ogni parte della storia avrà bisogno di un finale che lasci il lettore soddisfatto, altrimenti potrebbe decidere di non leggere il seguito.

Funzionalità (Gli Eventi)

Ogni caso d'uso dovrà fornire diverse opzioni all'utente fornendo così una prima suddivisione in funzionalità. In questa fase di scrittura, riconduciamo la storia ad una serie di eventi. Gli eventi non sono altro che momenti in cui accadono fatti che definiranno l'evolversi della storia. E' utile creare un vero e proprio diagramma di flusso in cui tutti gli eventi sono descritti brevemente e in ordine cronologico, così da avere una scaletta da seguire in fase di scrittura. Il concetto alla base della programmazione Top-Down è di avere un quadro generale ma di specializzarsi sui singoli oggetti di sviluppo. In pratica la cosa più importante è concentrarsi di volta in volta sul singolo evento. E' per questo che definendo una scaletta si dovranno descrivere tutti gli intrecci che avverranno nel libro, così quando si inizierà a scrivere la storia si avranno già a disposizione tutte le informazioni necessarie per poter accantonare temporaneamente il quadro generale.
Per facilità è bene scrivere per ogni evento una lista di avvenimenti che devono accadere fornendo un'ulteriore suddivisione del lavoro all'interno di ogni passo.

Gli Attori (I Personaggi)

In fase di progettazione per attori si intendono quei blocchi di programma che parteciperanno attivamente alla funzionalità in esame. Personalmente non ho ancora chiaro quanti e quali saranno i personaggi di tutto il libro/saga. Di volta in volta mi limito ad esaminare un evento particolare e cerco di immaginare chi vi prenderà parte. Ogni evento ha i suoi protagonisti che si alterneranno sulla scena, è quindi necessario in questa fase buttare giù due righe per dare una descrizione dei vari personaggi, sia fisicamente che psicologicamente, inoltre va descritto cosa faranno mentre saranno presenti in scena. In questa maniera sarà sempre possibile aggiungere nuovi personaggi e lo si potrà fare con metodo e senza troppe forzature. Tra l'altro questo sistema permette di dimenticarsi completamente dei personaggi già introdotti ma non presenti in scena, facendo in modo di rendere più semplice la stesura del testo. Qualora ci venga in mente qualche nuovo evento durante la stesura delle descrizioni (a me capita spesso di voler creare degli eventi che spieghino il cambiamento caratteriale di un personaggio in base a come l'ho descritto) potremo sempre tornare al passo precedente e aggiungerlo, non bisogna mai tenere nulla a mente, la memoria è molto labile e rischieremmo di perdere l'idea.

Gli Oggetti (I Capitoli)

Quando si parla di oggetti significa che si è in una fase intermedia in cui la progettazione si fonde con lo sviluppo reale. Gli oggetti sono le porzioni di codice che descrivono un attore e che eseguono le azioni. In questa fase quindi si prende in esame un attore alla volta e si definisce cosa può fare e come lo può fare, sempre ovviamente all'interno della funzionalità che si sta analizzando. Prendiamo quindi di volta in volta i nostri personaggi e raccontiamo la loro storia, li facciamo muovere all'interno dell'evento e ne descriviamo le varie interazioni con gli altri personaggi. A conti fatti stiamo stendendo una prima bozza di quello che sarà un capitolo del nostro libro e se le descrizioni dei personaggi, dello scenario e dell'evento sono state adeguatamente approfondite, la storia si scriverà da sola.
Ho scelto questa via perché mi permette di vedere una stessa scena attraverso gli occhi di diversi personaggi, sia buoni che cattivi, con l'intenzione di dare una maggiore tridimensionalità alla storia. In questa maniera nulla è lasciato al caso e si ha la possibilità di spiegare tutte le cause e gli effetti delle varie azioni.
Inoltre, scrivere ogni capitolo dal punto di vista di un personaggio diverso permette di approfondire la psicologia della persona e vivere più intensamente le relazioni che questa crea con gli altri attori.

Le Eccezioni

Quando si studiano i casi d'uso, vanno prese in considerazione anche le cosiddette eccezioni. Queste sono delle condizioni di errore gestite, nel senso che si prevede che possano accadere e quindi si studia il modo di reagire opportunamente. Nel caso della scrittura, è possibile prevedere che alcune regole possano essere aggirate o addirittura infrante, anzi, è importante che ogni tanto qualche regola venga infranta perché vi permetterà di descriverla nel dettaglio e fornire un maggiore spessore all'evento o al personaggio che ha infranto quella determinata regola.
*SPOILER* (Evidenziare per leggere ^_^)
Nel mio caso Elliot è in grado di utilizzare la magia nonostante sia nato nel mondo della tecnologia. Questo è un evento fondamentale che verrà spiegato più avanti e che determinerà in modo significativo le dinamiche della storia.

*SPOILER*


Il Linguaggio (Lo Stile)

Una volta definiti gli oggetti con le loro proprietà e le loro funzioni, passeremo alla scrittura vera e propria del codice. Per farlo è necessario scegliere un linguaggio appropriato -che può essere C, C++, Java, Assembly, etc...- e non deve essere necessariamente lo stesso per tutti gli oggetti. Non è impossibile trovare librerie all'interno dello stesso software scritte in linguaggi diversi. Anche se in informatica questa pratica è deprecata, in scrittura invece si rivela essere una pratica molto divertente. Permette all'autore di spaziare tra i vari stili e fornisce al personaggio descritto nel capitolo delle peculiarità uniche. Nel mio caso ad esempio ho scelto di narrare in prima persona i capitoli dedicati a Mallory. Questo ovviamente sta alla fantasia dello scrittore, purché poi si mantenga una certa coerenza all'interno del libro (Nel mio caso tutti i capitoli dedicati a Mallory saranno scritti in prima persona).


Conclusione

Spero che questo post possa essere utile a qualcuno, ma ci tengo a ribadire che non esiste un unico metodo e che quello qui descritto è solo quello che uso io e potrebbe anche non essere condiviso dai più. Buona scrittura!


sabato 25 dicembre 2010

Christmas Special

Questo è il mio personale regalo di Natale per tutti quelli che finora mi hanno seguito e mi hanno sostenuto. Con questo capitolo vorrei inaugurare una serie di storie slegate dalla trama principale e che narrano vicende secondarie o comunque incentrate su personaggi minori. Prendendo spunto dagli speciali del Doctor Who spero di riuscire a regalarvi un capitolo speciale per ogni ricorrenza. Di volta in volta cercherò di trovare le storie che meglio si adattano alla festività di turno. Ovviamente questi capitoli non verranno inseriti nell'indice dei libri che man mano si alterneranno, però sono sicuro che troverete queste storie farcite di piccoli rimandi che di volta in volta approfondiranno alcuni aspetti del romanzo che stiamo leggendo. Per questo primo speciale ho scelto di dedicarlo ad uno dei personaggi più importanti della mia storia che però per forza di cose è ben lungi da essere un protagonista: Jonah!

Detto questo vi lascio alla lettura e vi auguro un Buon Natale. Non posso promettere nulla, ma se ce la faccio avrò modo di farvi anche gli auguri di Buon Anno ;-)


Un Regalo Inaspettato

La bufera imperversava e si insinuava in ogni crepa della porta di legno. I cardini erano allentati, quindi ogni raffica di vento la faceva sbattere come se qualcuno stesse cercando di buttarla giù con violenza. La fiamma nel focolare si faceva via via più debole e non c'erano più ciocchi per sfamare quel che rimaneva del fuoco. Jonah strinse a sé la pesante coperta di lana e si fece più vicino al camino. Se ne stava rannicchiato per terra a giocherellare con un pezzettino di carbone ormai privo di calore. Il freddo gli faceva battere i denti e stridere le ossa, sentiva il gelo intorpidirgli l'anima. Accanto a lui l'ultimo barattolo di ciliege sotto zucchero. Una ciliegia solitaria galleggiava in poche dita di sciroppo.
Jonah si era da poco trasferito ad Hangwick, la città dei maghi, dove tutti i novizi dovevano terminare il loro addestramento sul campo. Era appena uscito dalla scuola di magia, non con il massimo dei voti, ma se l'era cavata. La sua massima aspirazione era quella di passare le sue giornate a prendersi cura dei libri della biblioteca di Elengar, ma le sue capacità non arrivavano a quel livello. Il suo maestro e mentore l'aveva fatto entrare nel programma di addestramento per i maghi cerusici. Se tutto fosse andato per il meglio sarebbe finito in uno dei tanti fronti di quella guerra secolare a curare ferite e a rinsaldare ossa rotte.
Era arrivato nella città dei lupi sul finire dell'estate, mentre i corsi sarebbero iniziati con l'autunno. La casa in cui viveva era poco più di una topaia ed era appartenuta ad un ramo della sua famiglia che non aveva mai conosciuto. Era stato affidato ad una zia della cugina di terzo grado del nipote della sorella di sua madre. Una vecchina silenziosa e pigra che passava le sue giornate stravaccata sulla sedia a dondolo a dormire russando o, in rari casi, a dormire senza russare. Ad ogni fragile respiro della donna, la sedia emetteva un leggero cigolio e ondeggiava lenta sul pavimento. Quel rumore ritmico e sgraziato era una tortura per il povero apprendista che non ricordava più cosa si provasse a svegliarsi dopo un'intera notte di riposo.

Il freddo era arrivato di soppiatto. Si era intrufolato progressivamente da ogni porta della città e aveva agitato il vento per quelle strade senza alberi e senza ripari. Jonah pensava che, sopravvissuto ai gelidi inverni di Elengar, non avrebbe mai più affrontato la sensazione tremenda di quando il sangue non raggiunge più le estremità. Come se un centinaio di formiche carnivore della Valle di Assua avessero iniziato a banchettare sui palmi delle sue mani. Era contento di essere fuggito dalla vetta di quella montagna altissima con le sue ancor più alte torri, ma non poteva immaginare che, tutto sommato, potesse esserci di peggio.
Il peggio era il vento. Le alte mura di Elengar erano uno scudo efficientissimo contro le intemperie. Hangwick aveva delle basse mura, ma soprattutto si trovava al centro di una delle valli più ventose della regione, con solo una piccola collina ad est a proteggerli dalle correnti. E il vento spegne i focolari, frusta le case strappandogli via brandelli di tepore, neanche il sole riusciva a infrangere quella cortina di gelo che ammantava la città.
Il peggio era il ghiaccio. I pesanti stalattiti che trasformavano l'umidità e le intemperie in spade di ghiaccio minacciose. Le lisce e scivolose lastre che ricoprivano le strade ampie rendendole teatri di buffe cadute e goffi giochi di equilibrio. Jonah aveva ancora i postumi del suo ultimo che lo aveva visto scivolare davanti alla bottega del panettiere e arrivare dolorante fino alla piazzetta del fontanile che ovviamente era completamente ghiacciata e piena di gente pronta ad irriderlo.

Il freddo non era solo nell'aria, ma anche negli animi della gente. Jonah non poteva certo dire di essere stato accolto in pompa magna, anzi, difficilmente qualcuno si era accorto del suo arrivo. Era solo un'altra tunica col cappuccio calato fin davanti alla bocca che ogni giorno prendeva parte alle esercitazioni nel bosco. Nessuno si rivolgeva a lui. Nessuno si voleva esercitare con lui. Nessuno voleva avere a che fare con lui.
Un giorno di fine novembre, come tutte le mattine, si recò nella piazzetta del fontanile al centro della città. Di solito si riunivano lì tutti i novizi per poi raggiungere i campi di addestramento nel bosco sulla collina. Tutti stavano fermi e in silenzio, in piedi in file ordinate in attesa del Capo Mastro, ma non quella mattina. Gruppetti disordinati parlottavano agli angoli della piazza. Discutevano di tattiche e strategie, ridevano e scherzavano e, all'occasione, guardavano storto il povero Jonah. Ormai c'era abituato a quel tipo di accoglienza, quello a cui invece non sapeva dare una spiegazione era quell'insolito 'disordine'.
Il Capo Mastro arrivò con un discreto ritardo e portò con sé un cesto pieno di pacchetti. Salì lentamente sul podio posto di fronte alla piazza e iniziò a squadrare tutti i ragazzi presenti. Come per magia tutti i ranghi si serrarono nuovamente. Le file ordinate a cui Jonah era abituato si ricomposero. Il silenzio scese grave sulla piazza.
Qualche colpo di tosse sporadico rompeva lievemente la stasi di quel momento in cui il Capo Mastro continuava a fissare i suoi allievi. "Oggi, come ogni anno, si terrà la Corsa di Fine Autunno" disse l'uomo. "Formerete delle coppie, ognuna delle quali riceverà uno di questi pacchetti. All'interno c'è un bastoncino. Ogni coppia sarà legata tramite un sigillo al bastone. Se un membro della coppia si allontana per più di dieci passi dal compagno, il bastone si spezzerà. Se un membro della coppia cadrà a terra, il bastone si spezzerà. Se un membro della coppia urlerà, il bastone si spezzerà. La prima coppia che raggiungerà l'altro lato della collina con il bastone ancora intatto avrà vinto."
Il Capo Mastro aspettò qualche secondo prima di ricominciare a parlare. Fissò uno ad uno tutti i ragazzi soffermandosi con sguardo severo su quelli che ghignavano silenziosamente. Solo Jonah sembrava turbato dall'evento. Il numero di novizi era dispari, quindi lui sarebbe stato escluso, o peggio ancora avrebbe dovuto fare coppia con il Capo Mastro. La voce tonante riprese il suo discorso dal podio. "Quest'anno come premio per i vincitori ci sarà una sorpresa. Qualcosa che sono sicuro non vi aspettereste mai. Per tutti gli altri invece ci sarà una settimana di lavori forzati alla miniera di Shurbi."
Jonah era disperato. Odiava i lavori manuali, ma ancora di più odiava correre. Era goffo e impacciato nei movimenti. Difficilmente sarebbe arrivato sano al momento della punizione. Inoltre avrebbe dovuto affrontare il tutto da solo. "Ora formate le coppie, ognuno scelga il proprio compagno". Di male in peggio, oltre al danno anche la beffa e l'umiliazione di rimanere da solo senza un compagno. Nessuno lo avrebbe scelto. Jonah non osò alzare la testa, quando all'improvviso la sua perfetta visuale del pavimento lastricato della piazza fu coperta dal grigio rossastro di un'altra tunica. Due piedi esili spuntavano da sotto il mantello. Chiunque fosse se ne stava proprio piantato di fronte a lui. Alzò lentamente lo sguardo fino ad incontrare quello di una ragazza dagli occhi ambrati e i capelli lisci e chiarissimi, quasi dorati, che morbidamente le si adagiavano sulle spalle. "Mi chiamo Neja" disse la ragazza. "Ti andrebbe di fare coppia con me?" concluse la frase con un sorriso dolcissimo. Jonah ci mise un po' a riscuotersi. Continuò a perdersi in quegli occhi del colore del miele senza riuscire a proferire verbo. Muoveva la bocca come per articolare qualche suono ma nessuna parola ne veniva fuori. "Sono l'unica ragazza del gruppo, nessuno mi sceglierà perché mi considerano un peso. A quanto pare anche tu sembri essere lasciato in disparte, quindi perché non fare coppia?". Jonah rimase imbambolato per qualche secondo e alla fine riuscì a pronunciare un flebile ed incerto "V-va bene".

A turno le coppie passarono davanti al podio dove il Capo Mastro consegnò loro uno dei pacchetti sul quale impose il sigillo. Neja spiegò a Jonah che quella gara serviva a rinforzare il legame tra i maghi. Per natura gli stregoni sono schivi e solitari, ma in guerra devono sapersi amalgamare con l'esercito. La corsa aiuta a sviluppare la fiducia nel prossimo e lo spirito di squadra.
Quando fu la loro volta di ricevere il pacchetto, il Capo Mastro li squadrò per un attimo e poi sorrise scuotendo la testa. Non erano di certo la coppia meglio assortita, ma lo scopo del gioco non era vincere, bensì unire i maghi. Tutte le coppie con relativo pacchetto si ridisposero sulla piazza in file ordinate. Indossarono i cappucci per coprire i loro sguardi tesi. Jonah aveva in custodia il bastone e Neja stava in piedi al suo fianco. Il ragazzo fissava la scatolina con ansia pensando alla sua nuova amica. Ora si sentiva responsabile anche per lei. Frustrato. Sapeva perfettamente di non essere in grado di correre. Figuriamoci battere gli altri in una gara di velocità. Avrebbe condannato la sua compagna ad una settimana di lavori forzati. Si fermò un attimo a riflettere sul fatto che tutto sommato non sarebbe stato male rimanere da solo.
"Al suono delle campane la gara avrà inizio" tuonò il Capo Mastro che con un sorriso aggiunse "Vi auguro buona fortuna. Che vincano i migliori".

I rintocchi del campanile arrivarono puntuali e strazianti e tutti insieme scattarono verso le porte della città. Già dai primi passi, Neja e Jonah si ritrovarono in coda. Neja era agile abbastanza da tenere il passo con gli altri, ma Jonah era appesantito da qualche chilo di troppo e penalizzato dai lunghi anni di pigrizia e di poco movimento. Arrivati al cancello Jonah aveva già il fiato corto e la fronte imperlata di sudore.
La corsa si rivelò ad ogni passo più ostica. Ormai avevano imparato a conoscere i sentieri di quella collina, ma la distrazione e il manto di foglie dei colori dell'autunno che ricoprivano e nascondevano le radici degli alberi, rendevano la salita assai complicata. Jonah rischiò di cadere diverse volte, ma Neja si rivelò molto paziente e abile nel sorreggerlo.
Le difficoltà aumentarono quando il bosco si riempì di incantesimi che volavano da una parte all'altra. Tutti i partecipanti cercavano di far cadere gli avversari. Effettivamente l'uso della magia non era stato vietato dal Capo Mastro, ma Jonah non aveva neanche il fiato per pronunciare una qualsiasi formula. Neja aveva imposto uno scudo discretamente potente su di loro che li metteva al riparo da palle di fuoco e sferzate di vento. In breve tempo però non ci fu più nessuna magia dalla quale difendersi visto che tutti gli altri avevano letteralmente seminato i due.
"Non ti arrendere!" disse la ragazza. "Ce la puoi fare. Devi credere di più nella tua forza". La voce di Neja aveva il potere di scaldare l'anima di Jonah. Assunse uno sguardo deciso e risoluto. I due si fissarono e Neja gli sorrise di nuovo. Ce la poteva fare. Diede a Neja la scatola e prese un pezzo di carta dal suo tascapane. Lo tagliò in due e con una piuma d'oca riempì le due metà con una scrittura minuta e fitta. Come inchiostro aveva usato il suo stesso sangue. Quando ebbe finito piegò a metà i fogli e pronunciò alcune parole sottovoce. I fogli si illuminarono e divennero di colore rosso scuro.
"Cosa stai facendo?" chiese Neja.
"Non sono un bravo mago, ma se c'è una cosa sulla quale sono infallibile sono i sigilli" disse Jonah porgendo a Neja uno dei due foglietti. "Questo piccolo sigillo cancellerà ogni segno di fatica e ci darà un equilibrio degno di un funambolo. Purtroppo durerà solo qualche ora, ma dovrebbe essere sufficiente per farci vincere la gara". Per la prima volta Jonah si sentì all'altezza della situazione e sorrise orgoglioso di fronte al suo sigillo. Neja prese il pezzo di carta e lo ripose nel tascapane insieme alla scatola col bastone. Una sensazione di tepore inebriò i loro corpi come una calda coperta. Ogni dolore dovuto alla stanchezza sparì all'istante. Erano pronti a combattere. Erano pronti a vincere.

Forti del sigillo, Jonah e Neja corsero come il vento tra i tronchi quasi spogli delle possenti querce. In breve raggiunsero il resto del gruppo. Scartavano velocemente tra radici e incantesimi come se fosse la cosa più banale del mondo. Ridevano di cuore divertiti da quella loro potenza. Imprecazioni si alzavano al loro passaggio e riempivano di orgoglio i due campioni.
Arrivarono in cima alla collina in un baleno. Si presero anche il tempo di rinfrescarsi in una piccola polla d'acqua nascosta in una radura. Erano pronti per rigettarsi nella gara. La discesa rendeva i loro passi più veloci ma non meno sicuri. Sentivano la vittoria tra le mani. Il vento aveva tolto loro il cappuccio e i capelli di Neja brillarono nell'ultimo sole autunnale. Jonah si sentiva felice e parte di qualcosa. Forse quel periodo buio della sua vita era finalmente finito. Il pensiero lo accompagnò per quasi tutto il percorso, finché un dolore lancinante al ginocchio gli mozzò il fiato in gola. L'odore di carne bruciata gli riempì le narici. Il rumore dell'esplosione che lo aveva colpito gli rimbombò nelle orecchie. Il suo sguardo terrorizzato incontrò quello preoccupato della ragazza. Un istante lungo un'eternità in cui Jonah vide lentamente il terreno venirgli incontro. Il dolore fu dappertutto. Intenso e insopportabile. Piccoli sassi si conficcarono nelle braccia raschiando via la pelle. Jonah scivolò a testa in giù con il volto coperto dalle braccia insanguinate per diversi metri. Il silenzio calò sui due interrotto solo dal rumore secco del legno che si spezzava. Avevano perso.
Due ragazzi li superarono ridendo tra di loro. Uno dei due si girò verso Jonah mimando una voce femminile "Ohh, scuuusa!" Scoppiarono a ridere e si inabissarono nel folto del bosco. Jonah cercò di alzarsi da terra ma le braccia facevano ancora troppo male. Neja si avvicinò per dargli supporto. Era arrabbiata. Furiosa. Fissava con astio il punto dove i due ragazzi erano spariti, poi si voltò verso Jonah e si sforzò di recuperare il sorriso "Non ti preoccupare, non è colpa tua! Siamo stati una coppia formidabile". Quello sguardo intenso lasciò di nuovo Jonah senza parole. Era sincera. Ci credeva davvero.
Altre coppie li raggiunsero e li superarono mentre Jonah cercava di rialzarsi. Tutti ridevano vedendoli in terra. Jonah infine riuscì a rimettersi in piedi, si scrollò la terra dalla tunica e iniziò a zoppicare lentamente verso valle. "Avresti dovuto scegliere qualcun altro".
"Scherzi? Non mi sono mai divertita tanto come oggi. E ormai sono tre anni che vivo qui ad Hangwick."
"Ma adesso ti toccano i lavori forzati."
"Beh, ne è valsa la pena. Ho finalmente trovato qualcuno come me in questo posto di opportunisti e ipocriti."
Erano passate diverse settimane da quel giorno. Durante tutto il periodo dei lavori forzati, Jonah non era riuscito ad incontrare Neja neanche una volta.
Dopo quella vicenda non solo veniva evitato dagli altri, ma anche deriso e vessato. Più di una volta si ritrovò a fissare in ginocchio il terreno con le lacrime agli occhi e un forte dolore allo stomaco. Tutti a turno lo avevano picchiato solo per il gusto di farlo. La gara aveva raggiunto il suo scopo. I novizi non erano mai stati tanto uniti come nelle occasioni in cui se la prendevano con Jonah. Infine venne la bufera che rapì la città ricoprendola sotto una pesante coltre di neve.
Erano giorni che non riusciva neanche ad uscire di casa e il vento tormentava le sue notti. Tutto sommato preferiva quella vacanza forzata al costante senso di inadeguatezza che lo tormentava durante gli allenamenti.
Cercò di raggranellare quanta più forza aveva nelle gambe e si alzò col suo pezzettino di carbone stretto nel pugno. Andò alla porta e tracciò con esso pochi segni. Pronunciò una formula magica e d'improvviso il rumore del vento cessò. Il freddo allentò la sua morsa e Jonah fu persino in grado di lasciar cadere la coperta in terra. Sua zia era ancora profondamente addormentata sulla sua sedia a dondolo. Forse era il caso di portarla a letto. Non fece in tempo a fare due passi nella sua direzione che sentì bussare. Il sigillo che aveva appena imposto doveva bloccare il vento, quindi c'era davvero qualcuno davanti alla sua porta. Corse ad aprirla per mettere al riparo il povero avventore che aveva osato sfidare quella bufera, ma davanti all'uscio non trovò nessuno.
Jonah si affrettò a richiudere la porta, ma nel farlo abbassò lo sguardo e notò qualcosa adagiato sulla neve. Un pacchetto. Lo raccolse e guardò intorno per cercare di individuare chi lo aveva lasciato, ma non vide nessuno. Richiuse la porta e si avvicinò al camino. Perplesso aprì il piccolo pacchetto e dentro vi trovò un bastoncino spezzato in due parti con uno spago a tenere insieme le due metà. Oltre a quello, solo un biglietto con tre semplici parole: "Non ti arrendere".
Jonah sorrise. Non si sarebbe arreso.