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martedì 23 novembre 2010

Fallimenti

L'ultima volta che l'aveva vista, Claire stava uscendo da quella porta. Senza urlare. Senza entusiasmo. L'aveva aperta con delicatezza come quando si cerca di non svegliare qualcuno rientrando in casa. Solo che lei se ne stava andando, e sarebbe stato per sempre. Il suo sguardo continuava a vagare distrattamente per la stanza, come per dire addio a tutte quelle cianfrusaglie che col tempo aveva imparato ad amare. Una fuga calma, quasi al rallentatore. L'ultima occasione che inconsciamente stava concedendo a lui, Eric, di rincorrerla, di fermarla, di impedirle di fare quell'ultima sciocchezza. Eric se ne rimase seduto sulla sua poltrona con lo sguardo fisso a terra, la testa fra le mani a contemplare il suo ennesimo fallimento.
L'aveva conosciuta ad una festa. Una delle tante che ciclicamente infestavano la palestra della scuola. Una di quelle alla cui organizzazione partecipava per tenere la mente occupata. Per non pensare troppo. Lei era la nuova infermiera, assunta da poco più di una settimana. Avevano fatto anche una riunione in sala professori per presentarla, a cui però l'impegnatissimo professore di Scienze non aveva potuto prendere parte.
Claire si era offerta di aiutare nella preparazione dei festoni. Rose. Ecco cos'erano. Era la festa delle Rose. Quindi ad occhio e croce doveva essere la prima settimana di aprile. Lei si era appena trasferita in città. Era al suo primo incarico di lavoro e, come tutti quelli che iniziano una nuova avventura, vi aveva infuso ogni sua energia. Sarebbe esplosa entro breve se non si fosse data una calmata. Eppure c'era qualcosa di strano in lei, qualcosa di esotico.
La sua giovane età e la sua aria innocente la facevano sembrare più una studentessa che una professionista. Aveva uno splendido sorriso e sembrava divertirsi davvero mentre ritagliava il cartoncino rosso per creare delle decorazioni a forma di bocciolo di rosa. I suoi lunghi capelli biondi le coprivano il viso, aveva dei bellissimi occhi del colore dell'oceano. Eric iniziò ad avvicinarsi a lei senza quasi accorgersene. Facendo finta di controllare l'andamento dei lavori. Uno sguardo a destra, uno a sinistra e uno su Claire. Un passo, un altro passo.
Uno studente con un grosso cesto pieno di materiali lo intruppò da dietro, per un attimo perse l'equilibrio e andò ad appoggiarsi di peso sul banco sul quale l'infermierina stava lavorando. Lei alzò lo sguardo per vedere cosa accadeva e lui si affrettò a scusarsi: "Oh, mi scusi... non volevo... è che uno dei ragazzi..." lasciò cadere la frase cercando di trovare con lo sguardo lo studente che lo aveva colpito. Una scusa per evitare il suo sguardo diretto "Non si preoccupi, succede" rispose lei gioviale "Io ho le gambe piene di lividi" continuò mimando il gesto di massaggiarsi il polpaccio "Lei deve essere il professor Stevens! Non avevamo ancora avuto modo di conoscersi".
"Mi chiami pure Eric" si affrettò ad aggiungere. "Va bene Eric, io mi chiamo Claire" rispose lei allungando la mano per stringere quella del professore. Si erano conosciuti.

Da quel giorno ogni scusa era buona per stare insieme. Parlavano, ridevano, si punzecchiavano. La sera della festa lei venne ad invitarlo a ballare. Eric non era sicuro di ricordarsi come si faceva. Era abbastanza certo di averle pestato i piedi almeno un paio di volte, ma lei non lo aveva dato a vedere. Troppo persa nei suoi occhi per preoccuparsi del mondo circostante. Il classico colpo di fulmine. Non che Eric ci credesse, eppure non sapeva che altra spiegazione darsi.
La loro storia iniziò quel giorno. Fu intensa come un incendio. E con altrettanta velocità si spense. La colpa era sua, Eric ne era consapevole, ma non riusciva a farci niente. Non era in grado di impegnarsi. A dire il vero non era in grado di prendere alcun tipo di decisione. Claire era stata molto paziente con lui. Gli aveva lasciato i suoi tempi, i suoi spazi. Eric non aveva fatto altro che crearsi un muro intorno, fatto di tristezza ed autocommiserazione. Aveva commesso degli errori nella sua vita. Tanti errori. Ma questo non voleva dire essere perduti. Claire aveva cercato di farglielo capire, ma lui non era riuscito a lasciarsi andare. L'aveva chiusa fuori dal suo mondo, e lei se n'era andata. Per sempre. Non avevano neanche litigato. Erano semplicemente diventati due persone che non si capivano, che non si conoscevano.
Lei era uscita da quella porta e lui non l'aveva fermata e ora, dopo tre giorni, era ancora lì a chiedersi il perché della sua inettitudine. Seduto su quella stessa poltrona a fissare la porta della sua casa, Eric aspettava. Non sapeva cosa di preciso, ma ogni sera rimaneva ore seduto ad aspettare il momento in cui la sua vita sarebbe cambiata. D'altra parte era così che il professor Stevens viveva le sue giornate. Rimaneva immobile aspettando i cambiamenti, in balia degli eventi. Senza mai fare nulla per lasciare il segno, per cambiare le cose, per raccogliere le redini della sua esistenza.

Si alzò per riempirsi un bicchiere di scotch. Era un gesto meccanico, l'unico che avesse mai appreso da suo padre. Lui, il grande ricercatore. Lui, il docente universitario più stimato. Sempre in giro per tenere conferenze e simposi. Mai un momento da dedicare alla famiglia. Non si fece neanche vivo al funerale di sua madre. Non aveva mai avuto una parola di conforto per il figlio. Mai un incoraggiamento ne un apprezzamento. Neanche il giorno della sua laurea. Meccanica quantistica, la stessa di suo padre.
Probabilmente Eric avrebbe avuto un brillante futuro se avesse accettato di vivere all'ombra dell'uomo che lo aveva generato. Un giorno avrebbe anche potuto succedergli, e magari quel giorno avrebbe ricevuto anche la tanto agognata approvazione da parte del suo vecchio. Ma lui era un fallito, glielo aveva ripetuto sempre. Ogni volta che aveva avuto un dubbio, un'incertezza, dal padre non aveva ricevuto altro che quell'epiteto: Fallito. Ormai ci credeva, si era convinto che dalla vita non poteva ottenere di meglio. Decise pertanto di comportarsi di conseguenza. Di fuggire da quell'ombra che lo asfissiava e di andarsi a nascondere lontano. Fece richiesta per diventare insegnante e fu mandato al McFrancis. Da li non era più scappato.
Mentre si versava quell'ennesimo bicchiere, si guardò allo specchio. Quei profondi occhi marroni troppo scavati dall'amarezza. Quei capelli castani che aveva tagliato e riempito di gel per darsi un aspetto più giovanile, per stare al passo con Claire. Si era lasciato anche un accenno di basette, che però ora iniziavano a confondersi con la barba incolta. Gli zigomi, quelli li aveva ereditati dalla madre. Pieni e morbidi. Ogni volta che sorrideva la rivedeva, la ricordava. Aveva le guance un po' incavate, erano giorni che non mangiava, inoltre la barba accentuava le ombre sul suo volto dandogli un aspetto ancora più emaciato.
Si accarezzò la barba e sentì la ruvida peluria grattargli sul palmo della mano. Si sentiva stanco. Di se, della sua vita, del suo carattere. Tornò alla sua poltrona, col suo scotch, con la sua tristezza. Si rimise ad aspettare.

L'attesa terminò all'improvviso. Una raffica di colpi secchi si schiantò contro la sua porta. Chiunque fosse doveva avere fretta, perché dopo aver selvaggiamente picchiato la porta, si accanì contro il campanello. Eric si riscosse dal suo torpore e cercò di alzarsi, si sentiva un po' brillo e si accorse di avere un impellente necessità di andare in bagno. Si assicurò di essere completamente vestito. Pantaloni e camicia erano al loro posto, un po' sgualciti ma ancora presentabili, la cravatta era allentata ma ancora al suo collo. "Un attimo! Arrivo!" urlò al suo assalitore. Poggiò il bicchiere sul tavolo e si avviò alla porta con passo incerto. Il pavimento freddo gli ricordò che era scalzo, ma non se ne curò. Non gli andava di cercare le scarpe, e se avesse fatto aspettare ancora il suo ospite inatteso avrebbe rischiato di ritrovarsi senza più una porta da aprire.
Trovò più difficile del solito sbloccare il chiavistello. Forse avrebbe dovuto evitare gli ultimi due bicchieri di scotch. Quando alla fine riuscì ad aprire la porta, un ragazzino si proiettò letteralmente nel suo soggiorno. Era uno dei suoi studenti, non uno di quelli più brillanti, ricordava di averlo visto spesso in compagnia di Summer, il suo pupillo. Sembrava spaventato e accaldato. Da quel che ricordava doveva far parte della squadra di atletica, quindi tutto quell'affanno era un po' strano. Gli ci volle un po' per riuscire a riprendere fiato, soprattutto perché continuava ad articolare parole confuse e incomprensibili.
Eric cercò di farlo sedere ma lui non volle "Dobbiamo andare! Lei deve venire con me!" continuava a ripetere. "Andare dove? Che ti è successo". Il ragazzo rifletté un attimo prima di parlare di nuovo, come se stesse cercando una scusa valida. Ne approfittò anche per riprendere un po' di fiato. "Stavamo facendo... una passeggiata... si, stavamo passeggiando nel bosco di Plumdale quando si è aperta una voragine" mimò l'ampiezza del buco con le mani e si assicurò guardando le sue braccia di aver preso bene le misure. "Io mi sono salvato, ma Elliot, Mallory e Lara sono caduti dentro."

Si, certo, una passeggiata. Proprio vicino al casale nel quale gli aveva intimato di non andare quel pomeriggio nell'aula di punizione. Si massaggiò le tempie per decidere il da farsi. Questa volta era facile. Bastava chiamare un'ambulanza, se ne sarebbero occupati loro. "Si, si! Chiami l'ambulanza, ma non possiamo aspettare, Lara si è fatta male, bisogna tirarla fuori." Si picchiettò la testa e strizzò gli occhi. Cercava di recuperare un ricordo "Ah già, Mallory dice di portare una corda!"
Una corda? Cosa si aspettavano che facesse? Notò che il ragazzo, dovrebbe chiamarsi Peter, una volta consegnato il messaggio si era un po' calmato. I suoi occhi avevano iniziato a vagare per la stanza. Eric si sentì in imbarazzo per il disordine e per la trascuratezza che trasudavano dalle pareti di quella casa. Decise di accontentarlo non tanto perché lo desiderasse, quanto per evitare che quello sguardo curioso si trasformasse in uno sguardo di biasimo. Non sarebbe stato in grado di tollerarlo, non da un suo studente. Era più che sufficiente quello che ogni mattina vedeva riflesso nel suo specchio.
Corse in camera a recuperare le scarpe e la sua giacca di tweed. Mentre raggiungeva Peter si ricordò di non aver preso le chiavi della macchina. Fece per tornare indietro e passò davanti allo specchio. Si guardò, quasi di sfuggita, e non si riconobbe. Era contento di aver qualcosa da fare per non pensare ai suoi problemi, ma questo non giustificava ciò che lo specchio gli stava riflettendo. Sembrava felice. Col suo vestito indosso, con la sua cravatta annodata, coi suoi capelli dritti per via del gel. Un'altra persona rispetto al volto disfatto che aveva intravisto nello specchio solo pochi minuti prima. Si guardò ancora un attimo e si sorrise.

Disse al ragazzo dove poteva prendere una corda. Il garage era aperto e poteva tranquillamente servirsi da solo. Eric intanto spense le luci, rimise il tappo alla bottiglia di scotch e si avviò. Quando chiuse la porta provò una strana sensazione. Per un attimo appoggiò una mano sul quella solida superficie, probabilmente ciliegio. Sentì le venature del legno che correvano sotto la sua mano. Aveva costruito un muro intorno alla sua vita, e in quel momento sentiva di essersene chiuso fuori. Non sapeva perché, ma sentiva che non avrebbe mai più varcato quella soglia.
Una ventata d'aria lo riportò alla lucidità, si riscosse dal suo sogno ad occhi aperti e si diresse alla macchina. Peter era lì che sistemava la corda arrotolandola intorno al suo avambraccio. Salirono in macchina ed Eric mise in moto. "Dove dobbiamo andare di preciso" chiese "Lungo questa strada, a non più di tre chilometri, c'è una specie di incrocio... " Eric aveva capito, dopotutto quella strada la faceva tutti i giorni.
Decise di non chiedere nulla al ragazzo del perché si trovavano lì, lo sapeva già. Non aveva voglia di sgridarlo. Non lui che probabilmente in quella casa c'era stato solo trascinato da Elliot. In parte poi si sentiva responsabile. Quando era uscito dall'aula di punizione, quel pomeriggio, sapeva che i tre ragazzi non avrebbero dato peso alle sue parole. Ma come al solito non aveva saputo imporsi. Aveva preferito che fosse il preside a decidere cosa fare. Che razza di professore non è in grado di gestire una situazione così semplice? Eric si sorprese a pensare che dopotutto suo padre non aveva tutti i torti.

Durante tutto il tragitto provò a chiamare un'ambulanza ma sembrava che qualcosa disturbasse il segnale del suo telefonino. Arrivarono in pochi minuti sul luogo indicato da Peter. Lasciarono la macchina e si incamminarono nel folto del bosco. C'era un silenzio innaturale e da non molto lontano arrivava il riverbero di una fioca luce. Camminarono per diversi minuti lungo il pendio della collina. Peter sembrava riuscire ad individuare con facilità ogni ostacolo che si parava sulla via. Ogni tanto diceva ad Eric dove rischiava di inciampare su una radice di quercia o dove un sasso particolarmente grande rischiava di farlo scivolare.
Man mano che si avvicinavano al luogo dell'incidente il chiarore si faceva sempre più forte. "Da dove viene questa luce?" provò a chiedere all'altro "Dal buco" fu l'unica risposta che accennò il ragazzo. Probabilmente avevano delle torce ed erano finite nella voragine. Solo quando furono sul posto capì realmente il significato di quella risposta. La voragine si era aperta su una specie di camera sotterranea. Una cupola molto grande, con quattro archi molto ampi che si incrociavano al centro e sostenevano l'intera struttura. La cosa più incredibile era proprio quella luce. Sembrava che le pareti trasudassero una specie di nebbiolina dorata che illuminava tutta la camera. Uno spettacolo meraviglioso.
Quando li videro, Elliot e Mallory esultarono. Tirarono entrambi un grosso sospiro di sollievo e sorrisero. Se qualcuno gli avesse detto che quei due si erano picchiati quella mattina, probabilmente non ci avrebbe creduto. Avevano costruito una sorta di barella con rami secchi e radici di alberi che dovevano essere finiti nella cupola al momento del crollo. Lara era semi-cosciente, muoveva la testa e farfugliava parole incomprensibile. Almeno era viva. I due l'avevano bloccata sulla barella con le cinture dei loro pantaloni. Tutto sommato avevano fatto un buon lavoro perché la soluzione sembrava solida e stabile.
"Avete portato la corda?" chiese Mallory "Si" fece Peter mostrandogliela "Bene, legate un capo ad un albero e lanciateci l'altro." Qualcuno lì in mezzo sembrava perfettamente in grado di prendere decisioni, quindi Eric si rilassò ed eseguì l'ordine. Una volta calata la cima, Elliot la legò ai piedi della lettiga di Lara avendo cura di farne avanzare un bel po'. La fecero passare sotto i rami secchi e legarono anche l'altro lato della barella. Infine Mallory annodò l'ultimo pezzo di corda rimasto libero alla parte iniziale della stessa formando un triangolo. Una sorta di altalena che avrebbe permesso ad Eric e Peter di tirare su la ragazza.
Elliot e Mallory aiutarono i due sostenendo il peso della ragazza finché l'altezza glielo permise. Lo sforzo era enorme, ma i due sembravano essere in grado di sostenerlo. La corda faceva male sui palmi delle mani, ma resisterono e continuarono a tirare.
Tirarono.
Tirarono.
Tirarono.
Il terreno cedette. Di nuovo.


giovedì 11 novembre 2010

Mallory

E' dal risveglio che si capisce come andrà la giornata. Già il fatto che il sonno cerchi in tutti i modi di trattenerti nel letto dovrebbe farti capire tante cose. Poi però arriva qualcuno, un qualcuno a caso, ad esempio tua madre, che entra in camera sbraitando che è tardi, ti toglie le coperte e spalanca le finestre.
Ora, passino le urla. Alla fine una sveglia elettronica non è poi tanto diversa, il casino te lo sorbisci lo stesso. Potrei persino passare sopra la tortura barbarica di qualcuno che ti porta via le coperte. Non la condivido, ma la accetto come solo l'abitudine sa farti rassegnare. Ma se c'è una cosa che odio, che proprio non mi va giù, è la luce, la stramaledettissima luce del sole che ti si pianta negli occhi e te li fa bruciare. E' come se qualcuno ti piombasse addosso per strapparti via il sonno con la forza. Maledettamente brutale. La luce negli occhi al risveglio ti mette quel nervoso addosso che poi ti resta tutto il giorno. Puoi sforzarti quanto ti pare a contare fino a dieci, prima o poi arriva qualcuno a farti saltare la calma e avrai solo bisogno di sfogare i nervi.
Quando la luce arriva come una lama a ferirti gli occhi ancora assonnati, non sopporti più niente. Non sopporti le coperte tolte. Non sopporti le urla. E allora vorresti solo urlare anche tu, è naturale. Oserei dire un diritto. Ciò non toglie che urlare di prima mattina non fa bene al fegato, per non parlare di quanto facciano male le cinghiate sulla schiena che normalmente ne conseguono. E allora abbozzi. Sbuffi e ti alzi. Ti copri gli occhi con le mani per darti un po' di sollievo, per godere ancora un istante del buio. Poi però ti alzi. Ti metti a sedere sul letto e la tua giornata è iniziata. Anche oggi sarà una pessima giornata!
"Come fai a non svegliarti mai la mattina?" Dopo la batosta anche il sarcasmo. Se non fossi rimasto in piedi fino all'una a svuotare le grondaie e pulire il garage magari sarei riuscito ad andare a dormire presto e magari stamattina avrei fatto meno fatica a svegliarmi. "Ho fatto tardi stanotte. Non succederà più".
Questa pantomima si ripete tutte le mattine. Ogni sera devo fare qualche lavoro che mi costringe ad andare a dormire ad orari assurdi. Ogni mattina vengo sgridato perché vado a dormire ad orari assurdi.
"Buongiorno!" Ah, eccole qui. Gli angeli di casa. Le mie due adorate sorelle maggiori. Gemelle. Che mai e poi mai potrebbero rischiare di spezzarsi un'unghia per darmi una mano. Poverine. Mica si possono sciupare i loro bei vestitini per aiutare il loro fratellino. Vorrebbero, ma proprio non possono. Escono di casa che io ancora non sono rientrato da scuola. Rientrano che io sono già andato a dormire. E poi chi è che si prende le cinghiate?
A volte vorrei tanto essere stato adottato, ma poi guardo in faccia le due arpie e rivedo i miei stessi occhi, le mie stesse orecchie, i miei stessi capelli. Quando non se li tingono, ovviamente. Niente da fare, siamo parenti. Per fortuna non c'è papà, almeno per oggi mi risparmio gli svenevoli complimenti alla loro bellezza e a quanto sono brave. A far cosa non si sa. Il liceo l'hanno finito, e da allora non hanno fatto nulla se non uscire la sera e arruffianarsi papà per scroccare qualche soldo. Niente lavoro, niente università. Bella la vita!

Tutto sommato non mi dispiace andare a scuola. Non che mi piaccia studiare, ma almeno è un buon modo per tenersi lontani da casa. A casa non sono nessuno, ma a scuola, lì è tutta un'altra cosa. Sono il capitano della squadra di basket della scuola. Un ruolo che ho faticato a guadagnarmi. Quanta gente ho dovuto minacciare e quanti allenatori ho dovuto far cacciare via prima di arrivare ad essere il capitano. Credo di essermela un po' meritata la fama. Poi, da quando ho iniziato anche a praticare le arti marziali, la gente mi rispetta ancora di più. Sarebbe più corretto dire che mi teme, ma credo che i due concetti non siano così disgiunti.
Non è che uno sceglie di fare il bullo. E' una necessità. Tutte le scuole dovrebbero averne uno. Così, per rendere le giornate più frizzanti. Per dare alla vita quel pizzico di imprevedibilità.
Io in questo ruolo ci sono praticamente capitato per sbaglio. Quando sono arrivato in questa scuola regnava l'anarchia. Tutti facevano come gli pareva. Le uniche figure che incutevano un minimo di timore erano quei due energumeni idioti di Patrick ed Elm. Due grossi ammassi di stupidità, ma proprio in virtù della loro 'grandezza', tutti li evitavano con timore. Quei due si misero in testa di vessarmi perché ero il nuovo arrivato. A me. Che idioti. Mentre mi cercavano ho preso una corda dallo sgabuzzino del custode e ho preparato una trappola ai piedi del grande castagno al centro del piazzale della scuola. A quel punto mi sono fatto trovare e mi sono fatto inseguire. Badabooom. Sono rimasti appesi a testa in giù per ore, neanche il custode voleva liberarli. Dovevano essere proprio odiati. Da lì nacque la mia fama. Fui io a liberarli. Fui io a far smettere gli altri di ridergli dietro. Fui io a restituire loro una dignità. Da quel giorno mi seguono come due cagnetti ubbidienti e mi aiutano a mantenere l'ordine nella scuola. Niente più anarchia.

In seguito le cose hanno cominciato ad andare bene a scuola. Nel senso prettamente sociale, intendo, i voti stentano ancora a decollare. Quando la gente ti teme, cerca di averti amico, non certo di mettertisi contro. Non è vera amicizia. D'altra parte neanche Patrick ed Elm potrebbero essere considerati veri amici. Ma nella vita bisogna accontentarsi. In fondo adesso ho sempre il pranzo gratis. E anche la merenda. A volte persino la cena. Visto che i miei non mi passano una paghetta, è il meglio che possa aspettarmi.
Il timore è facile riconoscerlo. Lo vedi negli occhi, lo sguardo sfugge, cerca di evitare il contatto. Quando la gente ti teme non ti fissa mai negli occhi. Tutti ti guardano ma nessuno ti vede. A lungo andare ci si abitua. A non essere visto intendo. Non ti devi neanche preoccupare dei tuoi vestiti di terza mano. Tutti sono troppo impegnati ad ingraziartisi per notare le toppe sui gomiti della giacca.
In tutta la scuola solo una persona osa guardarmi negli occhi. Addirittura giudicarmi. In quello sguardo arrabbiato e al contempo impotente vedo la mia vita e la sua totale inutilità. Non è un caso se io ce l'abbia a morte con Elliot Summer. Quel moccioso mi irrita. E più cerco di piegare la sua arroganza e più lui continua a fissarmi negli occhi. Mi vede e mi giudica. Mi disapprova. Mi ripeto che non dovrebbe importarmi, ma ogni volta finisco sempre per perdere la ragione. E poi non posso permettere che la mia autorità sia messa in discussione, altrimenti perderei tutto il potere che ho faticosamente guadagnato instillando il terrore in ogni fibra degli studenti del McFrancis. Persino il suo amico, quel Peter, ha l'accortezza di dileguarsi ogni volta che mi avvicino. Bell'amico. Se è questo che fanno i veri amici, allora sono felice di non averne.

Ogni giorno la stessa storia. Se continuerà a fissarmi negli occhi, prima o poi qualcun'altro penserà di poter fare altrettanto. Sarebbe la fine del mio regno. E' per questo che a certa gente vanno inflitte pene esemplari. Così che altri non seguano le sue orme. Le rivolte non vanno sedate, ma impedite a priori.
Certo bisogna riconoscerglielo: è tenace. In più di un anno mai una volta ha supplicato. Non ha mai chiesto pietà. Si è fatte derubare, infilare con la testa nel water, legare al castagno all'ingresso. Credo di aver fatto la fortuna dei gommisti della città per tutte le volte che gli ho squarciato le ruote della bicicletta. Eppure non ha mai abbassato lo sguardo. Neanche una volta.
La prima regola è di non picchiare mai nessuno. Non tanto perché sia sbagliato. Le botte lasciano i segni, i segni sconvolgono i genitori - poverini-, i genitori chiamano il preside, il preside chiama mio padre, mio padre mi riempie di cinghiate. Meglio evitare le botte.
Però oggi è iniziata male, peggio del solito, pulire le grondaie è faticoso. Un cazzotto non ha mai fatto male a nessuno. Beh, sul momento fa male, ma poi passa. Se lo dai bene neanche lascia i segni. E' solo una via di sfogo, quasi terapeutico. Ne avevo bisogno, ed Elliot non manca mai di fornirmi le scuse adatte. Oggi non voleva darmi i soldi del pranzo, diceva di esserseli scordati. Chi è così scemo e distratto da scordarsi i soldi del pranzo. Quello che proprio non mi sarei aspettato era la risposta. Per carità, lo so, è una persona tenace, glielo riconosco, ma neanche ad un pazzo verrebbe in mente di rispondere ad un mio pugno. Non con Patrick ed Elm a coprirmi le spalle. E' semplicemente folle. Poi evidentemente lui non ha un padre che usa la cinghia, o magari la usa solo per tenersi su i pantaloni. Non si è preoccupato di non lasciare segni.
L'ho colpito allo stomaco. Fa male. Ti stronca un pugno ben assestato allo stomaco. Nessuno rialza lo sguardo dopo un pugno del genere. Neanche uno tenace come lui. Così mi sono permesso il lusso di girare un po' la testa per godermi lo sguardo estasiato di Patrick ed Elm rapiti e ammirati dalla mia forza. Neanche l'ho sentito arrivare, ho sentito solo un dolore lancinante ad un dente. Come se all'improvviso mi fosse venuta una carie. Di quelle che ti scavano nel nervo. Ho sentito la radice che usciva dalla mascella. Il resto era solo sangue e dolore. Quel bastardo mi ha dato un pugno in faccia. E pure forte. La cosa strana è che la prima cosa che ho pensato prima di cercare di ucciderlo fu che tutto sommato non era malaccio. Poi però la rabbia e l'umiliazione mi hanno riportato alla ragione.
Volevo soltanto sentire il suo sangue colare sul mio pugno, non mi sembrava di chiedere molto. E sarebbe successo se non fosse arrivato quello stupido prof. Quello Stevens. Il professore di scienze. Evidentemente non aveva di meglio da fare se non mettersi in mezzo. Così dopo il danno anche la beffa. Avrei dovuto passare due ore nell'aula di punizione da solo con Elliot. E con Stevens a farci la guardia.
Lo sapevo che oggi sarebbe stata una pessima giornata!


venerdì 29 ottobre 2010

Elliot

L'orologio da tavolo lampeggiava furiosamente sulle 04:21. Gridava a più non posso che da più di quattro ore la luce era saltata, ma nessuno sembrava darle ascolto, così, infastidito e stanco di essere trascurato, si spense. Di nuovo. Era successo di nuovo. E come ogni volta, dopo i soliti tre minuti, scattò l'allarme anti-incendio.

Elliot quasi cadde dal letto per lo spavento. Doveva esserci abituato ormai, succedeva anche due o tre volte a settimana, ma non era certo il miglior modo di iniziare la giornata quello di essere svegliato da una sirena strampalata che, col suo motivetto allegro comunicava al mondo intero l'incapacità del padre o quantomeno la sua totale mancanza di rispetto per il sonno altrui.
Dopo alcuni secondi di sbandamento nei quali cercò disperatamente di aggrapparsi a quell'ultimo barlume di sonno che gli stava scivolando via dagli occhi, decise di alzarsi.
Solitamente quando scatta un allarme anti-incendio, la gente corre in strada, arrabattando più cose possibili lungo la via nella speranza di salvare qualche cimelio di famiglia dalle fiamme che si presume stiano divampando da qualche parte in casa. In un certo senso la tradizione era rispettata anche in casa di Elliot. Sua madre infatti, ogni volta che sentiva scattare l'allarme, come un automa scattava in piedi, arrabattava i primi vestiti che riusciva a trovare nell'armadio tenendo ancora gli occhi chiusi, li indossava sopra il pigiama e scattava fuori di casa come un fulmine, pronta per accogliere il vicinato che, per l'ennesima volta, era stato buttato giù dal letto ad orari improbabili e veniva a proporre le proprie rimostranze.
Questa mattina non fu diversa dalle altre, con l'unica differenza che Anna, la madre di Elliot, indossava un tailleur marrone, uno di quelli belli, con la camicia giallo canarino che aveva comprato la scorsa stagione durante il periodo dei saldi. Aveva la borsa a tracolla. Non c'era mai tempo per prendere la borsa, figuriamoci se poteva correre fuori casa con i tacchi.
Elliot cercò sul comodino gli occhiali. Qualcosa lo agitava e non aveva ancora afferrato cosa. Nonostante si svegliasse in quella maniera da sempre, non riusciva mai ad abituarsi. Trovò gli occhiali tra un portapenne e la lampada da tavolo che, evidentemente, stava tenendo una discussione molto accesa con le sue lenti e non sembrava assolutamente intenzionata a lasciarle andare perché, nel momento in cui riuscì ad inforcare gli occhiali, la prima cosa che il ragazzo riuscì a distinguere fu la lampada che si schiantava a terra trasformando il pavimento in un insieme di luccicanti vetri. Luccicanti. C'era qualcosa che non tornava e non riusciva ad identificare cosa.
Si strofinò la faccia per svegliarsi meglio e si avvicinò di nuovo alla finestra giusto in tempo per vedere la madre salire sulla sua berlina giallo canarino, accendere il motore ed andarsene.
Non c'erano vicini da accogliere, non c'erano scuse da porgere, non c'era il benché minimo interesse per la sirena scattata per l'ennesima volta. La gente camminava lungo il viale semplicemente ignorando quello che accadeva in casa sua.
Il perché di tutta quella gente in strada sembrava un mistero incomprensibile. E sua madre, dove se ne andava in giro a quell'ora del mattino? E da dove veniva tutta quella luce?

L' intuizione fu come una doccia gelata, una di quelle che ti fanno penetrare il freddo fin dentro le ossa. Corse giù per le scale evitando per poco uno dei giocattoli del fratellino, non si fermò neanche quando andò ad impattare contro il divano in mezzo al soggiorno. Fece una capriola degna di un campione olimpico sui morbidi cuscini color giallo canarino che la madre aveva da poco spiumacciato e continuò la sua folle corsa fino ad arrivare alla porta del garage. Entrò, o meglio, irruppe nel garage col fiato corto e, con quel poco di aria rimastagli nei polmoni, gridò "Che ore sono?".
"Buon giorno anche a te, tesoro" gli rispose il padre, anche lui vestito di tutto punto. Si stava sistemando la cravatta sotto il gilet giallo canarino che gli aveva regalato la madre lo scorso natale. Anna aveva una sorta di ossessione per il giallo canarino, tutto in casa o era di quel colore o era bianco. Orribile, ma dopo 15 anni ci si faceva l'abitudine, e Elliot i quindici anni li aveva compiuti da poco, pertanto si era ufficialmente abituato. "Scusami per il trambusto di poco fa, stavo finendo di sistemare questo maledetto circuito, quando una scarica di corrente ha fatto scattare l'allarme".
"Che ore sono?" ripeté Elliot che finalmente aveva recuperato l'uso della trachea iniziando però a perdere quello della pazienza. Il padre si guardò l'orologio da polso. Aveva avuto il tempo di mettersi anche quello. Di solito era un evento straordinario vederlo con qualcosa di diverso dalla sua tuta, e ora invece indossava gli abiti 'seri', quelli che si mettono solo per andare in ufficio o a cena fuori. Aveva persino l'orologio da polso, doveva essere proprio tardi.
"Sono le 9:32", batté due colpi sul quadrante e lo portò all'orecchio, lo agitò un po' e poi confermò "Si, sono le 9:32, ma tu non dovresti essere già a scuola?"
Elliot sapeva benissimo dove sarebbe dovuto essere a quell'ora, quindi non perse tempo ad aspettare la fine del discorso e scattò su per le scale, indossò le prime due cose che trovò nell'armadio e scappò via. Edward, il suo adorato fratellino, uscì dalla sua stanza giusto in tempo per vedere Elliot che saltellava per le scale cercando con una mano di infilarsi una scarpa e con l'altra di passarsi lo spazzolino da denti in bocca. Cadde.
Edward andò a recuperare il modellino di autotreno sul quale era inciampato il fratello ridendo come non mai per il buffo spettacolo al quale aveva appena assistito, molto più divertente di quello che di solito metteva in scena la madre. Ripreso il giocattolo se ne tornò a dormire in camera giusto in tempo per evitare la carica di Elliot che ritornava nella sua stanza tutto trafelato. Aveva dimenticato lo zaino.

Mentre sfrecciava per le strade del quartiere verso la scuola sulla sua bicicletta, pensava tra sé e sé che prima o poi avrebbe dovuto ammazzarlo il padre, non del tutto, quel tanto che bastava per impedirgli di stravolgergli la vita. Se lo appuntò a mente, magari lo avrebbe affrontato quella sera stessa, o magari l'indomani, o forse non lo avrebbe fatto per nulla. Dopotutto era divertente correre in bicicletta con ancora il toast al formaggio stretto fra i denti. Dopotutto non c'era mai da annoiarsi in casa sua. Dopotutto aveva una scusa plausibile per saltare l'interrogazione di storia.
Forse quel pomeriggio sarebbe uscito a comprare un regalo al padre per ringraziarlo.
La scuola iniziò a materializzarsi che Elliot ancora non aveva finito di fare la sua eccentrica colazione. Dapprima vide i piani alti, con le finestre piccole incastonate in un assurdo muro di colore rosa, spuntava da sopra il dosso che stava risalendo, poi iniziò a intravvedere gli alberi di castagno che circondavano il giardino, infine vide il cancello, di metallo verde, con le sbarre che si contorcevano sinuosamente per disegnare un leone con le ali, simbolo della loro scuola. L'istituto McFrancis.
Il custode stava chiudendo il cancello. Succedeva ogni giorno alle dieci in punto, ovvero quando non era più possibile entrare, dopodiché chiunque non si fosse presentato accompagnato da un genitore sarebbe stato rispedito a casa. Non oggi, non proprio quando doveva presentare il suo progetto di scienze, non dopo tutto il lavoro che aveva fatto. Accelerò più che poté, pigiò sui pedali con tutta la foga che aveva in corpo, si sollevò anche dalla sella per darsi una spinta maggiore. Si infilò nel cancello proprio mentre si stava per chiudere, mandando a gambe all'aria quel pover'uomo del custode che gli lanciò dietro tutte le maledizioni che gli vennero in mente, qualcuna la inventò lì sul momento, una più pittoresca dell'altra.
Avrebbe dovuto subirsi una bella predica dalla preside per il ritardo, ma ce l'aveva fatta, era arrivato in tempo, avrebbe avuto il suo foglio di ritardo firmato e si sarebbe andato a preparare per l'esposizione nell'aula di scienze.

"Di nuovo in ritardo, Summer?" la voce investì Elliot come un autotreno, ma uno di quelli reali, non come i modellini di Edward. Il sorriso scomparve dalle sue labbra, era Mallory, il bulletto della scuola. Tutte le scuole ne avevano uno, anzi, di solito ne avevano più d'uno. Loro avevano solo Mallory, ma valeva per dieci. Capitano della squadra di basket e cintura marrone di Karate. Amava ripeterglielo ogni volta che voleva rubargli i soldi per il pranzo o lo rinchiudeva in bagno per 'rifargli il capello'. Elliot aveva seri dubbi sulle competenze da acconciatore che si attribuiva l'altro, ma ogni volta che si ritrovava a testa in giù sul water si guardava bene dall'esporgli tali perplessità. Questa non ci voleva, poteva essere una giornata perfetta, invece c'era Mallory. C'era sempre Mallory. Il moscerino caduto nella zuppa di fagioli che altrimenti sarebbe squisita, ecco cos'era Mallory. La gramigna che infestava uno splendido giardino di rose. Tu provi ad evitarla, strapparla, soffocarla, ma quella rispunta fuori sempre più forte e ti distrugge il tuo bel giardino. Maledetto.
Elliot si voltò a guardare, magari era qualcuno che per fargli uno scherzo ne aveva imitato la voce. Già perché ogni bullo deve avere la sua vittima prediletta, e lui era quella di Mallory. Non certo un motivo di vanto, e per questo i suoi compagni lo prendevano in giro. Aveva un padre idiota, portava gli occhiali, era il classico secchione, e per cosa lo prendevano in giro? Per via del suo rapporto con il più simpatico e amichevole bulletto di quartiere.
Mallory era come al solito con i suoi due scagnozzi, Coso e Cosetto, così li chiamava. Elliot era sicuro che avessero un nome proprio, ma dubitava avessero un intelletto talmente evoluto da saperlo pronunciare. Dopotutto erano arrivati in seconda classe solo perché, dopo tre anni di militanza in prima, la professoressa era talmente disperata che pur di levarseli di torno decise di promuoverli.
"Non ho tempo ora, devo andare in classe" provò a dire, ma se ne pentì subito. Non si può negare ad un bullo l'immenso piacere di punzecchiare un po' le sue vittime. Per un lungo istante pensò se fosse il caso di chiedere scusa per la sua insolenza, ma poi suonò la campanella. L'amica campanella. Non come quella che lo aveva svegliato la mattina, no, l'amorevole e compassionevole campanella che segnava la fine della seconda ora e che avrebbe portato centinaia di studenti a riversarsi nei corridoi fornendo ad Elliot il diversivo necessario per liberarsi da quella fastidiosa situazione. L'ultima cosa che vide mentre si infilava nell'aula di scienze erano i volti sperduti di Coso e Cosetto che si guardavano in giro per cercare di capire da dove venisse quel suono. Due veri geni, non c'è che dire.

Il professor Stevens era già in aula, era appoggiato alla cattedra intento a leggere dei fogli. Il suo compito, la sua relazione. "Ottimo lavoro, come sempre, non vedo l'ora di assistere alla tua presentazione". Elliot aveva preparato un modellino di una casa alimentata con energie alternative e ne avrebbe elogiato davanti alla classe il risparmio economico che si sarebbe potuto avere con una casa del genere e l'impatto positivo che questa avrebbe avuto sull'ambiente. In realtà si era limitato a copiare quella che era casa sua. Suo padre era quello fissato con l'ecologia, o meglio, era fissato con le invenzioni elettroniche, se poi questo portava un vantaggio per la natura, tanto di guadagnato. Aveva passato le ultime due settimane a cercare di decifrare gli appunti del padre, si era anche fatto dare le planimetrie di casa dal catasto, ma quando aveva visto che ormai non corrispondevano a quella che era realmente casa sua, le restituì facendo finta di non averle mai prese. Aveva infine realizzato un plastico che riproduceva perfettamente quella serie di accrocchi meccanici ed elettrici che il suo papà si ostinava a chiamare invenzioni. Ora lo avrebbe presentato davanti ai suoi compagni che lo avrebbero guardato ammirati e acclamato come l'eroe dei nostri tempi. Le manie di grandezza doveva averle ereditate dal nonno. Forse ai suoi tempi la gente acclamava i compagni di classe, al giorno d'oggi però era ormai una pratica in disuso, ma a Elliot piaceva vagare con la fantasia e illudersi di essere speciale.

La sua esposizione alla classe durò circa venti minuti, elogiò le proprietà del fotovoltaico, decantò le magnificenze del riciclaggio e si entusiasmò parlando delle fosse biologiche. In cambio ne ricevette solo sbadigli e sguardi noncuranti. Un paio di ragazze dal fondo della classe parlottavano e sghignazzavano tra di loro sfogliando una rivista, un altro compagno batteva febbrilmente i tasti del suo cellulare per scrivere un messaggio, solo una persona aveva lo sguardo fisso nei suoi occhi, attenta e vigile, pronta a cogliere il più piccolo errore o imprecisione. Era Lara, coi suo occhialetti un po' larghi che le scendevano sul naso e che puntualmente prima di parlare si aggiustava col dito. Si sistemò in una coda la sua folta chioma di ricci castani, era pronta a parlare, era pronta ad attaccare, era pronta a stroncarlo.
Alzò una mano per chiedere parola nell'istante stesso in cui Elliot stava rimettendo via i suoi appunti. Una vera e propria dichiarazione di guerra non c'era mai stata tra di loro, ma da sempre si contendevano il ruolo del più secchione e sfigato della scuola. Elliot era in vantaggio per via dei pestaggi che subiva regolarmente, ma anche Lara si difendeva bene grazie agli scherzi che le facevano le altre ragazze. I due non si potevano vedere, e la soddisfazione dell'una era screditare l'intelligenza dell'altro. Due amici modello.
Non appena il professore le diede parola si alzò in piedi ed iniziò a sciorinare numeri, studi e pubblicazioni che integravano, quando non demolivano, quello che Elliot aveva faticosamente raccolto nel suo lavoro. La classe era un coro di risolini sommessi e ghigni malcelati, perché se è vero che le scienze non destano mai l'attenzione di nessuno, l'umiliazione pubblica di un compagno di classe è roba da prima pagina.
Alla fine della sua esposizione Lara sorrise dolcemente al professore e lo ringraziò per il tempo concessole, si sedette, alzò il suo sguardo verso Elliot, e tutto il suo trionfo e il suo odio si riversarono nella mente del ragazzo, che non poté fare altro se non massaggiarsi le tempie e avviarsi mestamente verso il suo posto. Sconfitto per l'ennesima volta.

Riuscì ad evitare Mallory per tutto il giorno, ma non le parole di scherno per la sua recente figuraccia, che lo accompagnarono ad ogni cambio dell'ora. A volte girava un angolo e vedeva un paio di compagni di classe che improvvisamente smettevano di parlare con altri ragazzi, oppure sentiva inconfondibili le risatine del gruppetto di ragazze che avevano finalmente trovato qualcosa di interessante da raccontare su una lezione di scienze. Ad ogni passo si sentiva sempre più ridicolo, e poi c'era lei, lei con cui divideva ogni corso, che frequentava tutte le sue classi e che non mancava di esibire il suo ghigno trionfante ogni volta che si incontravano. Lei lo salatuva. Lui le augurava una paralisi. Poi però puntualmente abbassava lo sguardo e rispondeva al saluto con un cenno della testa. Prima o poi doveva sbagliare, e lui sarebbe stato lì, magari con tanto di videocamera per riprenderla. La sua vendetta l'avrebbe gustata fredda, e di quel passo sarebbe stata di certo gelida. In due anni che frequentava quella scuola non era mai riuscito a coglierla in fallo. Lei, bella e trionfante, non aveva mai sbagliato. Maledetta.
Elliot accolse con sollievo il suono dell'ultima campanella. Finalmente era finita. In silenzio si diresse verso la classe di storia ad aspettare il suo amico Peter, con lui avrebbe fatto la strada per tornare a casa, e lui come sempre l'avrebbe consolato, come sempre l'avrebbe incoraggiato, come sempre l'avrebbe stracciato ai videogiochi. Peter, l'amico insostituibile, quello che c'era sempre, tranne ovviamente quando compariva Mallory, allora si dileguava. A volte Elliot si ritrovò a chiedersi se Peter e Mallory non fossero la stessa persona. Due facce della stessa medaglia. Dr. Jekill e Mr. Hide o, per essere più precisi, Bruce Banner e Hulk il verdastro. Quando c'era uno non c'era l'altro e viceversa. Maledetto.
Andarono a riprendere le biciclette ma, quando Elliot fece per togliere la catena che la legava alla rastrelliera, notò che la ruota posteriore era completamente squarciata. Evidentemente Mallory non aveva mandato giù la sua fuga mattutina, o forse il custode aveva deciso di passare dalle maledizioni ai fatti. Cos'altro poteva andare storto in quella giornata perfetta. Passò Lara che lo salutò "Bella esposizione oggi a scienze, peccato fosse così lacunosa". La stilettata finale. Bofonchiò qualcosa e si girò verso Peter.
Si caricò la bicicletta in spalla e si diresse verso casa dell'amico, doveva riparare la ruota prima di tornare a casa, altrimenti si sarebbe trovato a dover dare più spiegazioni del necessario. Tra sé e sé maledisse quella stramaledetta sirena ad ogni passo, se non avesse suonato sarebbe rimasto a casa tutto il giorno a fare nulla. Decisamente non sarebbe passato a comprare un regalo per il padre.