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domenica 10 luglio 2011

La Via di Fuga

Holtz era da sempre considerato una giovane promessa, padroneggiò la tecnica di trasformazione ancora prima che qualcuno avesse il tempo di insegnargliela, primeggiava in ogni disciplina ed era il migliore del suo corso in accademia. Entrato nell' esercito, impiego pochi anni per diventare capo squadriglia, prendendo il posto di suo fratello maggiore Karl al comando del suo branco. Tutti si aspettavano grandi cose da lui e sapevano che prima o poi (più prima che poi) sarebbe persino entrato nel Consiglio Supremo.
Eppure c'era qualcosa in lui che non andava, sentiva di essere fuori luogo di vivere una vita che non gli calzava. Fuori dai confini di Hangwick c'era un mondo intero da vedere e da scoprire pieno di meraviglie e di magie che lui poteva solo immaginare. La mattina di fronte allo specchio, fissando la sua folta barba fulva, simbolo di maturità e di rispetto, pensava a come era la sua vita e a come sarebbe dovuta essere. Fantasticava sul mondo in superfice e viaggiamo con la mente verso paesi lontani e meravigliosi. La realtà però era diversa e quando alla fine si decideva a tornare coi piedi per terra, la sua barba era ancora lì a ricordargli chi era e cosa rappresentava per la gente che lo stimava e lo rispettava.
Lui faceva parte della guardia del Consiglio e il suo compito era di proteggerne i membri, da cosa di preciso non lo sapeva, visto che in 27 anni, il massimo dell'azione era stato scacciare via una mandria di bufali pontifici che avevano deciso di costruire il loro villaggio proprio davanti l'ingresso della grotta che conduceva alla città dei Nani.

Solo in un'altra occasione si rese utile alla sua gente. Dovette fare da scorta ad una delegazione del Consiglio in visita ad Asper, un viaggio breve, giusto un paio di giorni in superficie prima di raggiungere un'altra città sotterranea, ma per Holtz fu un esperienza unica, per la prima volta aveva abbandonato i morbidi pendii di Hangwick e aveva camminato su quelle strade baciate dal sole, un sole vero, non un cristallo appesa in cima ad una grotta. I raggi di luce caldi gli attraversavano la pelle e gli scaldavano il cuore. Profumi e colori mai visti lo inebriarono e lo fecero sentire come un bambino.
Al suo ritorno ad Hangwick era carico di emozioni e di sensazioni, ma ben presto tutto affogò nella routine quotidiana lasciandolo di nuovo solo e svuotato. Ogni mattina vide riflessi nello specchio i suoi occhi che si spegnevano lentamente lasciando il posto ad uno sguardo vitreo ed inespressivo. Quella mattina in particolare notò che dalla sua lunga chioma faceva capolino un capello bianco. Lungo e rigido si faceva strada tra la moltitudine di ricci bruni. Holtz cercò di isolarlo dagli altri prendendolo in mano e avvicinandolo allo specchio. Cercò di immaginarsi completamente canuto come il fratello e l'immagine lo terrorizzò. Si vide vecchio e scavato nel volte come se il suo corpo si fosse rassegnato e vivere per sempre e morire in quella grotta sconosciuta al mondo in superficie.
La rabbia gli montò dentro, afferrò l'intera ciocca di capelli e se la strappò via con forza. Sentì dolore alla cute ma la ignorò, continuò a fissare quella manciata di capelli che gli erano rimasti in mano. Alzò di nuovo lo sguardo quasi trionfante per quel gesto così rivoluzionario, ma un altro capello bianco saltò agli occhi, e un altro, e un altro ancora. Più scavava nella sua chioma, più capelli bianchi trovava. Il peso della sua morte interiore lo stava annientando e il suo corpo si era indebolito. Non aveva perso la forza, ma la voglia di vivere.
Con le lacrime agli occhi Holtz diede un pugno allo specchio rompendolo. La sua immagine spezzata continuò a fissarlo con cento occhi tutti uguali e tutti vuoti. Un rigolo di sangue scese lentamente dal suo pugno lungo le incrinature del vetro fino a gocciare nel lavandino sottostante. Portò la mano al petto quasi di istinto, fissò la ferita per qualche istante, poi quella iniziò a richiudersi lentamente lasciando una nuova cicatrice candida sul dorso della sua mano.

Holtz continuò a coccolare quasi meccanicamente il punto dove la ferita si era appena richiusa e sentiva che quel processo di rigenerazione aveva riportato a galla un po' del suo vero io. Quella strisca candida di pelle nuova era giovane e piena di vita. Per un attimo si chiese se scorticandosi completamente la pelle sarebbe stato ingrado di ritrovare se stesso, ma fortunatamente gli rimaneva ancora un barlume di ragione per impedirgli di fare una tale stupidagine. No, la sua doveva essere una metamorfosi simbolica che gli avrebbe dovuto restituire la luce negli occhi, la giovinezza sul volto, quindi prese il coltello che aveva attaccato alla cintola e, afferrando grosse ciocche di capelli se li tagliò corti. Non era un taglio preciso, ma avendo i capelli ricci non si notava molto la differenza, si sentiva come una pecora appena tosata.
Poi fu la volta della barba, questa volta si inumidì la pelle con degli oli da bagno per permettere alla lama di scorrere a filo sulla sua pelle e lentamente ridiede ossigeno al suo volto. Ad ogni passata della lama una nuova cicacrite veniva scoperta e un ricordo di vita vissuta gli tornava alla mente. Con calma minuziosa tagliò via ogni pelo ispido dal suo volto, ogni tanto si portava via per errore anche un po' di pelle, ma il suo volto si rigenerava in fretta. Alla fine si guardò di nuovo nello specchio e vide un centinaio di riflessi diversi nel vetro infranto, ma avavano tutti l'aria di essere dei ragazzi giovani e pieni di vita. Holtz sorrise finalmente di gusto e con una mano si accarezzò il volto liscio e rinato.

I dormitori della GradiaHangwick in poco tempo. Inoltre era situato sull'unico rialzamento presente all'interno della grotta, così da permettere una visuale dall'alto delle case sottostanti. I dormitori si estendevano in circolo intorno ad una seppur misera reggia che fungeva da sede del Consiglio.
Le stanze erano tutte uguali, composte da una sola stanza e da un piccolo tinello, tutte davano su lunghi corridoi che correvano all'interno della circonferenza e che davano sui giardini della reggia. Lì ogni mattina alle 5 in punto avvenivano le esercitazioni, alle 7 veniva servita la colazione nella mensa e poi si iniziava la giornata lavorativa dell'armigero medio. L'esercito, essendo in tempo di pace, si occupava principalmente della vicilanza della città, ma occasionalmente svolgeva lavori di manutenzione e di rinnovamento delle strutture interne alla grotta.
Avevano il compito di estinguere gli incendi e svolgere opera di assistenza presso l'ospedale locale. Insomma, erano un po' i tuttofare del regno.
Come ogni mattina, all'interno dei dormitori veniva suonata la sveglia e puntualmente tutti si presentavano sull'attenti di fronte al proprio alloggio avendo cura di aver rassettato la stanza e rifatto il letto. I capi squadriglia facevano l'appello e ispezionavano le dimore per accertarsi che tutto sia stato fatto secondo il regolamento. Come se tutta quella disciplina servisse davvero a qualcosa.
Quella fatidica mattina la sveglia suonò, tutti si presentarono all'appello, ma i commilitoni di Holtz si trovarono in una situazione quantomai imbazzante. Già, perché in passato era capitato che qualche soldato non si fosse presentato all'appello o si fosse presentato in “disordine”, il povero figliolo veniva punito con 10 frustate (pena simbolica per un Nano Lupo, visto che hanno una naturale resistenza al dolore e una grandissima capacità rigenerativa) e la cosa finiva lì, ma mai nella storia di Hangwick era successo che fosse proprio il capo squadriglia a non presentarsi.
Tutti rimasero lì immobili ad aspettare, ogni tanto osarono anche scambiarsi sguardi imbarazzati e perplessi, ma nessuno emise il benché minimo suono. Ogni tanto tutti, a turno, facevano cadere l'occhio sulla porta della stanza di Holtz chiedendosi cosa stesse accadendo. Una musica, forse una nenia, insomma, qualcosa di strano veniva da dentro quella stanza; ammettendo che una cosa tanto assurda fosse possibile, sembrava quasi che Holtz stesse canticchiando un motivetto allegro.

Dopo diversi minuti la porta dell'appartamento si spalancò e ne usci... beh, ne uscì un ragazzo che nessuno conosceva e nessuno aveva mai visto. Da bravi soldati, la squadriglia di Holtz saltò addosso al ragazzo e lo immobilizzò. Senza accorgersene si erano tutti trasformati in lupi e rischiavano di sbranarlo se non fosse per l'urlo che terrorizzò tutto l'esercito.
“FERMI!” urlò Karl, aggiustandosi la divisa prese un paio di lupi dal mucchio, li sollevò di peso e li scaraventò in giardino. “Non vedete che questo è il nostro comandante? E' Holtz!”
Poi rivolgendosi con sguardo severo al fratello intimò sotto voce “Che diamine ti sei messo in tenta brutto deficente!”
“Buongiorno anche a te Karl, ho pensato di curare un po' il mio aspetto fisico, come mi trovi?” disse Holtz.
“Oh benissimo, sembri un principino” rispose Karl con aria canzonatoria e poi aggiunse “Ti sei bevuto il cervello? Rischiavi di farti ammazzare da questi deficenti che non sanno ancora usare l'olfatto”. Non credo ci sia bisogno di precisarlo, ma queste ultime parole non furono pronunciate in tono particolarmente amichevole.
“Stai tranquillo fratello, so difendermi, ma ti ringrazio per essere intervenuto” riprese Holtz con il sorriso sulle labbra.
“Hai deciso di farti cacciare? Sai che la barba e i capelli lunghi sono un simbolo di potere all'interno dell'esercito?”
“Certo che lo so, ma lo sapevano anche pulci e zecche che non la finivano più di tormentarmi. Adesso mi sento molto più leggero.”
I due si guardano intensamente per alcuni minuti. Karl era visibilmente arrabbiato, mentre Holtz era visibilmente divertito. Alla fine Karl decise di rompere il silenzio sbuffando e allontanandosi: “Fai come ti pare, se ti cacciano tanto meglio per me”.

Il nuovo taglio di Holtz fu l'argomento principale di conversazione della colazione e ben presto la voce arrivò anche alle orecchie di Aperon, Capitano della Guardia nonché mentore di Holtz.
Al termine della colazione il Capitano si avvicinò ad Holtz e lo trasse in disparte: “Cos'è questa buffonata? Ti sei forse bevuto il cervello?” gli ringhiò contro, ma Holtz non si scompose e replicò sempre col sorriso sulle labbra: “L'ultima volta che ho letto il regolamento della caserma non mi sembrava di averci trovato nulla contro i capelli corti e la barba rasata.”
“Sai benissimo che le usanze sono importanti più dei regolamenti” replicò acido Aperon.
Holtz iniziava ad annoiarsi di tutte quelle critiche inutili. Stava vivendo un chiaro e semplice rifiuto dell'autorità, delle regole e delle abitudine. Una sorta di neo-adolescenza. Sostenne lo sguardo del Capitano e semplicemente rispose facendo spallucce.
Il sangue iniziò ad irrorare di furia gli occhi del Capitano che si limitò ad alzare lo sguardo e a voltarsi, mentre si allontanva aggiunse: “Oggi ci sono le fogne dell'ospedale da pulire, pare che quella Mya le abbia intasate con i rami del bosco. Te ne occuperai tu, tuo fratello Karl amministrerà la tua squadriglia in tua assenza”.
Holtz non poteva vederlo dalla sua posizione, ma era abbastanza sicuro che il Capitano stesse ghignando, al che si limitò a mettersi sugli attenti e, sempre con il sorriso sulle labbra e con un tono canzonatorio che non sapeva di saper usare rispose: “Agli ordini mio capitano!”
Aperon non si voltò, ma il suo ringhio sordo riecheggiò in tutta la mensa e Holtz poté andarsene con aria di trionfo nonostante fosse appena stato punito e degradato.

***

Il pomeriggio proseguì lento. Il lavoro era pesante perché nessuno era accorso ad aiutarlo e la piccola Mya si era data molto da fare per mettere su una splendida e resistentissima diga. Holtz non poté fare a meno di apprezzare il talento della cucciola, un po' perché la diga era costruita molto bene, con ottimi materiali reperiti chissà dove e persino in una posizione strategica molto efficace che rendeva quasi impossibile rimuoverla senza dover nuotare nel letame.
Si trovava da diverse ore nella galleria di scarico al di sotto dell'ospedale, ma era soltanto ruscito a rimuovere un quarto di tutti i rami. Mya continuava a trotterellargli intorno guardandosi bene dal non cadere nell'acqua fetida e sghignazzando alle spalle del povero Holtz. Ogni tanto, quando il soldato riusciva a buttare giù qualche ramo particolarmente grosso, la ragazzina scappava guaendo e, una volta giunta ad una abbondante distanza di sicurezza, iniziava ad abbaiara all'indirizzo di Holtz.
I due continuarono così fino a sera, quando Mya sparì per quasi un'ora. Holtz era esausto e puzzava di vomito e letame fin dentro alle ossa, non era sicuro che sarebbe mai riuscito a recuperare il suo odore, ma alla fine era contento di essersi allontanato dalla vita militare anche solo per un giorno e anche solo per un lavoro tanto schifoso.
Mya tornò che la luce del cristallo si era quasi del tutto affievolita. Stringeva in bocca un cestino con del pane, un po' di frutta e una bottiglia piena di acqua fresca e pulita. Holtz cercò di abbracciarla per ringraziarla ma lei si ritirò schifata e si mise in un angolo a lisciarsi il pelo. In questi casi sembrava quasi più un felino che un mezzo lupo, ciononostante Holtz le fu molto grato e mangiò con gusto quella cena improvvisata.
“Sai piccola Mya” disse ad un certo punto. “Sono giunto alla conclusione che questo non è il posto per me, è ora di andarsene” Mya scattò sull'attenti e imitando quello che sembrava un sorriso abbaiò soddisfatta. “Anche tu te ne vuoi andare, vero?” Mya non rispose, beh, non sapeva parlare, quindi per lei era difficile rispondere, ma il suo sguardo si velò di malinconia e iniziò a fissare l'uscita della galleria. “Sai cosa ti dico? Appena riuscirò ad andarmene, ti verrò a prendere e ti porterò via con me”. Mya iniziò a saltare sul posto agitata, sorrideva a si rotolava e alla fine saltò in braccio ad Holtz e iniziò a leccargli la faccia “Buona buona che sono tutto sporco” provò ad obiettare, ma con scarso successo. “Sai cosa ti dico? Per oggi abbiamo lavorato abbastanza e ho decisamente bisogno di un bagno, alla prossima piccola Mya” e dicendo ciò si alzò e iniziò ad incamminarsi verso casa. Mya continuò a trotterellargli dietro per un po' ma poi iniziò a ringhiare contro il nulla “Cosa ti succede?” provò a chiedere Holtz, ma prima che potesse accorgersene, Mya era già scomparsa tra i vicoli della città.

Era ancora sotto la doccia quando per l'intera grotta si spanse l'allarme. Contemporaneamente suonarono le sirene anti intruso e anti incendio. Doveva essere qualcosa di grosso e finalmente ci sarebbe stato un po' di movimento, indossò i primi stracci che trovò e iniziò a correre verso la grotta di ingresso. Senza quasi rendersene conto aveva assunto l'aspetto di un lupo, si chiese se il fatto di essersi tagliato barba e capelli si sarebbe riflesso nel suo manto e si preoccupò di avere da qualche parte delle chiazze vuote sul pelo.
La corsa era inebriante, sentiva tutti i muscoli tonici e guizzanti che scattavano al suo comando. L'aria passava attraverso il suo manto accarezzandolo. Si sentiva rinascere e non vedeva l'ora di catapultarsi in un'avventura.
Durante il tragitto incontrò altri soldati che lo informarono dell'accaduto. Pareva che la collina di Hangwick fosse stata aggredita e che un gruppo di ragazzi erano sulle tracce della città. Probabilmente era una bravata di un gruppo di maghi novizi, ma sempre meglio controllare. Mentre correva nel bosco l'odore acre del fumo quasi lo stordì e gli fece perdere i sensi, cambiò sentiero per evitare le fiamme ed arrivò nella radura dove suo fratello Karl con la sua squadriglia stavano braccando un gruppetto di ragazzi umani. Una di loro era su una barella in chiaro stato di incoscienza e gli altri sembravano terrorizzati, gli occhi di Holtz però si posarono sul volto di una splendida fanciulla dai capelli corvini, stringeva in mano un ciondolo a forma di chiave che brillava al buio.

Nell'addestramento militare, una delle prime cose che ti vengono insegnate è l'individuare le vie di fuga. Ora, sia ben chiaro che Holtz stava ragionando in maniera puramente filosofica, ma aveva trovato finalmente la sua via di fuga. Per qualche ragione sapeva che quella ragazza sarebbe stata il suo lasciapassare per il mondo esterno.
Una ragazza con un medaglione a forma di chiave splendente accompagnata da dei ragazzi con abiti surreali, proprio come nella Leggenda, quella con la 'L' maiuscola che i cantastorie narravano ad ogni festa tra i saltimbanco e le bancarelle. La conosceva a memoria da quando era un cucciolo e sognava ogni notte di poter combattere al fianco della principessa perduta e trasformare in realtà la Leggenda di Andalia.
Holtz si convinse che quella ragazza era la prescelta ancora prima di aver riportato alla memoria tutta la Leggenda e decise che l'avrebbe salvata. Per farlo non esitò ad avventarsi contro il fratello che le stava per saltare al collo e in poco tempo iniziò una scazzottata con ne faceva da anni. Il gusto del combattimento quasi gli fece dimenticare che stava affrontando suo fratello, sangue del suo sangue, ci volle l'intervento dei suoi uomini per riportare sia lui che Karl alla ragione, ma almeno aveva raggiunto il suo scopo, si era posto a difesa della fragile principessa e l'aveva salvata, ora non gli restava che trovare il modo di aiutarla a scappare e a farle da scorta.

Kaila, così si chiamava, e non era propriamente una principessa, ma faceva la birraia. Niente da ridire della birra e, se non aveva capito male, la birra prodotta dalla sua famiglia era famosa in tutte le terre di Hoen, ma questo non la rendeva più regale di lui. Però c'era il ciondolo, e c'erano i ragazzi strani al suo seguito, e definirli strani era decisamente riduttivo. Ingegnosi per essere degli umani, avevano costruito una perfetta lettiga e avevano curato la gamba rotta di una loro amica senza dover ricorrere alla magia. Piuttosto insolito per dei ragazzi, in special modo della loro razza, ma anche questo faceva parte della Leggenda. Pare infatti che anche gli uomini un tempo sapessero usare la tecnica e la meccanica prima di friggersi il cervello a causa di un mago visionario.
Si, dovevano essere loro i ragazzi di cui narravano le antiche scritture e avrebbe convinto l'intero Consiglio della sua idea, dopodiché si sarebbe fatto affidare la missione di proteggerli... Una perfetta via di fuga.


venerdì 4 febbraio 2011

Prigionia

 I rumori si ovattavano, le immagini si offuscavano, la luce diventava a tratti intensa e abbagliante per poi ridiscendere nell'oscurità. Suoni, voci, passi. Tutto era confuso e distorto. La ferita alla gamba si era infettata e, di conseguenza, Eric aveva la febbre alta. Sentiva il battito del suo cuore accelerato rimbombargli nelle orecchie. Era confuso e la nausea lo opprimeva. Gocce di sudore gelide scendevano lungo il collo fin giù per la schiena.
 Era sdraiato. Questo riusciva a capirlo. Doveva essere steso su qualcosa di estremamente rigido e scomodo, probabilmente una tavola di legno a giudicare dai dolori e gli spasmi che gli facevano contorcere la spina dorsale. Non sapeva esattamente dove fosse, ne come ci fosse arrivato. Aveva la mente affollata da immagini sbiadite e da ricordi sconclusionati. La gamba. Questo era un ricordo preciso. La gamba gli faceva male, molto male, o per lo meno così era fino a qualche ora prima. Progressivamente l'aveva sentita addormentarsi. Un leggero formicolio aveva sostituito il dolore lancinante. Cercò di alzare la testa. Giusto un poco, per osservarsi la gamba, ma l'impresa fu eccessiva. Sentì il collo stirarsi e la testa come perforata da centinaia di aghi roventi. Riuscì giusto a vedere una lunga cinghia di cuoio saldamente legata intorno alla sua gamba.

 Eric passava rapidamente dallo stato di veglia a quello di totale incoscienza. La febbre doveva essere molto alta perché la luce sembrava trapanargli gli occhi. Da quel che riusciva a capire, doveva trovarsi in una stanza squadrata e molto piccola, con mura di pietre e nessun tipo di arredamento. La luce arrivava da una serie di aperture strette in alto sul muro di fronte a lui e c'era una sola porta in legno sulla sua destra con una feritoia a metà altezza. La sua branda, letto, tavola, o come diavolo la si voglia chiamare, era appesa al muro con due pesanti catene in ferro battuto. 
 Dopo lungo meditare decise che quella sorta di prigione era solo frutto di un'allucinazione causata dalla febbre. Chiuse gli occhi per richiamare a sé il ricordo delle calde coperte e del morbido materasso sul suo letto. Si concentrò per riuscire a sentire gli odori della sua casa, quel misto tra carta di giornale, naftalina e incenso -non troppo, quel tanto che bastava per rilassare la mente. Cercò di ascoltare i rumori della lavatrice in bagno e delle macchine che veloci sfrecciavano davanti al vialetto della sua casa. Sul retro delle sue palpebre si formò l'immagine di un soffitto bianco con al centro un lampadario con le pale al quale non aveva ancora montato i diffusorio, lasciando quindi le tre lampadine nude.
 Si lasciò cullare per un attimo nel piacere infantile della sua camera, ma quando aprì gli occhi tutto sparì e fu di nuovo sostituito dall'inquietante visione di una cella umida e maleodorante.

 Non era un sogno ne un illusione. Era la pura realtà, era rinchiuso in una cella. Ma -c'è sempre un ma- come c'era finito? Ogni volta che cercava di catturare un ricordo, una sensazione o un indizio che lo aiutasse a capire, quello gli sfuggiva di mente, si perdeva tra la nebbia che offuscava i suoi pensieri. Più si sforzava, meno ricordava. Non era quello il modo di procedere, di ricostruire, di ricordare. Eric era uno scienziato, un Dottore con tanto di lode, doveva seguire un metodo, un sistema preciso per trovare il bandolo della matassa. Per arrivare a delle conclusioni valide bisogna concentrarsi sui fatti evidenti e il dolore alla gamba era senza ombra di dubbio la cosa più evidente. La gamba. Ricordava ancora la sensazione tremenda della punta metallica della freccia che veniva estratta dalla carne del suo polpaccio. La freccia. Un nuovo tassello del puzzle. Non l'aveva neanche sentita arrivare. Un dolore lancinante gli aveva fatto perdere l'equilibrio. Persino negli occhi di quel soldato si era dipinta la sorpresa. Il soldato col quale si stava battendo, quello che aveva messo a terra...
 "Peter!"
 Eric si alzò di scatto a sedere ignorando i dolori che attanagliavano tutto il suo corpo. Come un fulmine tutti i ricordi e le sensazioni avevano ripreso forma e si erano concretizzati nell'immagine di Peter. Il suo allievo. Quello che lui aveva inseguito nel bosco. Quello che si era lanciato contro i soldati per permettere al gruppo di scappare. Elliot, Mallory, Lara. Li ricordava tutti. Li ricordava in pericolo. Panico e ansia si avvinghiarono alle sue viscere con rabbia. Doveva alzarsi, doveva raggiungerli.
 Provò ad accennare un movimento con la gamba, ma il dolore tornò più vivo di prima. Fu sul punto di perdere di nuovo conoscenza, ma si aggrappò al ricordo di Peter per mantenere il controllo. Una goccia di sudore cadde dalla sua fronte. Abbassò lo sguardo in preda allo sconforto. Fisso le mani lerce e graffiate con le quali aveva combattuto per salvare il ragazzo. Era riuscito a metterlo in fuga, ma in un bosco, di notte, un ragazzino da solo quante possibilità aveva di cavarsela?

 La luce diffusa nella stanza perse via via di intensità. I colori sfumarono verso l'arancio per poi spegnersi nelle ombre della notte. Il sole stava calando rapidamente ed Eric non riusciva a riprendersi dal colpo. Rimase immobile a fissarsi le mani come nella speranza che l'immagine del ragazzo si materializzasse e riuscisse a tranquillizzarlo, ma il miracolo non avvenne. Si sentiva disperato e perduto. Come un ossessione ripeteva la stessa parola a bassa voce: "Peter"
 "Non ti preoccupare per lui, sta bene. Beh, comunque sta meglio di te."
 La voce veniva dall'angolo sotto la finestra, il punto più in ombra della stanza. Eric impiegò un po' a realizzare, credeva che la voce facesse parte delle tante allucinazioni che lo tormentavano. Si sforzò di vedere cosa si nascondeva in quell'angolo della cella, ma c'era solo il buio più assoluto.
 "Chi sei?" provò a chiedere con un filo di incertezza nella voce.
 "Un amico" rispose la voce.
 "Non mi basta, voglio sapere chi sei!" riprese Eric quasi infastidito da tutto quel mistero.
 "Uhm, questa scena l'ho già vissuta! Cos'è, avete un copione prestampato?" fece la voce ironica.
 "Che diavolo stai dicendo" Eric iniziò a convincersi di stare parlando con un'allucinazione.
 "Niente, lascia stare. Ho bisogno di parlarti, ma adesso non sei in condizione di ascoltarmi."
 Dal buio una sagoma iniziò a delinearsi illuminata dalla luce della luna che lentamente aveva guadagnato il suo posto nel cielo. Un enorme mantello scuro avvolgeva una figura umana con un grosso cappuccio che gli copriva quasi per intero il volto. Eric non riusciva a distinguere i lineamenti del suo viso, ma a giudicare dall'altezza e dalle proporzioni del corpo doveva essere un ragazzino.
 Si avvicinò alla branda dove Eric era ancora seduto "Sdraiati" disse e accompagnò con la mano il movimento dell'uomo che, ubbidiente, si stese sulla rigida tavola di legno. Il ragazzo si avvicinò alla gamba ferita e vi appoggiò una mano sopra. Eric vedeva la scena come attraverso un caleidoscopio rotto. Colori e immagini distorte si alternavano a causa della febbre, ma era abbastanza sicuro di aver visto della luce provenire dal palmo della mano del ragazzo. Una flebile filastrocca, nenia o chissà che strana canzoncina, si stava spandendo nella stanza. Lentamente un leggero torpore invase il corpo di Eric e una sensazione di sollievo fece sprofondare l'uomo in un sonno profondo.

 Quando riprese conoscenza, il ragazzo era accucciato in un angolo. Sembrava appisolato, ma appena Eric fece per alzarsi lui gli sorrise e si alzò in piedi.
 "Come va?"
 Per la prima volta Eric notò che il ragazzo non muoveva le labbra per parlare, come se la voce gli arrivasse dritta nella testa. Testa che tra l'altro non faceva più male. Gli occhi, le orecchie, la schiena, tutto in perfetto ordine. Le immagini che vedeva erano nitide e non distorte, i suoni che ascoltava erano puliti e non rimbombavano più nella sua mente. Stava bene. Persino la gamba non faceva più male, si soffermò ad accarezzare il foro sui suoi pantaloni di velluto ormai impregnati del suo sangue. L'odore acre della carne era ancora forte, ma probabilmente era dovuto ai suoi indumenti sporchi, perché sotto al foro non c'era più nessuna ferita. Niente, neanche una puntura di spillo. Si slegò la cinghia legata intorno alla gamba e un forte formicolio invase tutto il suo corpo. Una sensazione estremamente fastidiosa, ma di certo non dolorosa.
 "Direi che sto bene, ma credo tu lo sapessi già" disse, e il ragazzo si limitò a sorridere.
 "Ho bisogno che tu faccia qualcosa per me" riprese il ragazzo facendosi improvvisamente serio.
 "Mi stavo giusto chiedendo quando saresti arrivato al punto" rispose Eric mettendosi seduto sulla tavola con le spalle al muro e con i piedi scalzi appoggiati sul freddo pavimento lastricato di pietre.
 "Elliot sta arrivando..." iniziò il ragazzo, ma fu subito interrotto "Cosa? Perché sta venendo qui?" il volto di Eric si era deformato in un'espressione di estrema preoccupazione.
 "Elliot sta arrivando" riprese il ragazzo senza dare peso alla reazione di Eric "verrà qui per salvare te, e verrà qui anche per salvare Peter".
 "Avevi detto che Peter è al sicuro" commentò Eric.
 "E te lo confermo, attualmente gli ho affidato una piccola missione. Il punto è che Elliot non deve interferire in nessuna maniera con il compito di Peter."
 "In che modo potrebbe interferire?" chiese dubbioso Eric.
 "Beh, ad esempio andandolo a cercare" ironizzò il ragazzo, ma allo sguardo perplesso di Eric, si appoggiò una mano alla fronte e andò avanti con la sua spiegazione. "Elliot è un ragazzo con un grande cuore ma soprattutto con un grande coraggio. Niente e nessuno potrebbe impedire a lui e ai suoi amici di andare a salvare Peter. Continuerebbero a cercarlo per il mondo intero e poi ancora oltre".
 "Come fai a conoscerlo così bene? E come fai a sapere tante cose di noi?" chiese Eric.
 "E' una lunga, lunghissima storia e adesso non ho il tempo di raccontartela, devi solo sapere che tra me ed Elliot esiste un legame che va oltre la normale comprensione umana" rispose l'altro.
 "Cosa dovrei fare?" chiese quasi rassegnato Eric.
 "Qui viene la parte difficile: dovrai dirgli che Peter è morto! E' l'unico modo per impedirgli di seguirlo"
 "Cosa? Hai voglia di scherzare? Il dolore lo ucciderebbe!" protestò Eric.
 "Ce la farà! Comunque il tuo compito non si ferma qui. Dovrai assicurarti che rimanga al fianco di Kaila, la ragazza che vi ha trovato nel buco."
 "Hai suggerimenti particolari in merito?" rispose sarcastico Eric squadrando il ragazzo da capo a piedi.
 "Lascio tutto alla tua fervida fantasia" concluse il ragazzo.
 "Quindi parli sul serio, dovrei andare da Elliot e dirgli: 'Ehi, il tuo amico è morto, fatti una passeggiata con questa ragazza sconosciuta così ti tiri su di morale'" Eric era completamente incredulo.
 "E in tutto questo dovresti anche evitare di menzionare la mia esistenza" concluse il ragazzo.
 "Non dicevi di avere un legame speciale con Elliot?" la discussione stava decisamente assumendo dei toni surreali.
 "Il fatto che il legame esista non significa che lui ne sia a conoscenza. Presto vi sarà tutto più chiaro, ma per ora la cosa importante è che Elliot e Peter proseguano su due strade separate."


 Il silenzio calò tra i due rotto solo dal tintinnio metallico di una chiave in lontananza. Eric continuò a fissare torvo il ragazzo anche se i suoi occhi rimanevano costantemente coperti dal grande cappuccio.
 "Stanno arrivando" disse all'improvviso il ragazzo.
 "Chi?" chiese Eric.
 "I tuoi carcerieri, saranno qui tra breve."
 "Cosa vogliono da me?"
 "Sapere chi sei, come sei arrivato qui, che legame hai con Kaila... inventati una balla e restaci fedele, loro non hanno la più pallida idea dell'esistenza del luogo dal quale venite".
 "E da dov'è che veniamo... esattamente?" Eric ormai aveva completamente perso il filo logico del discorso.
 "Dal mondo della scienza e della tecnologia e, per rispondere alla tua prossima domanda, questo è il mondo della magia -si, ho detto magia- dovresti aver notato tutte le cose strane che ti stanno accadendo intorno, non dovrebbe essere così difficile per te credere ad una cosa così assurda come la magia" spiegò il ragazzo.
 "Cosa mi faranno?" chiese Eric scoraggiato. Nei suoi occhi lo sconforto era evidente come lo era la sua infinita stanchezza.
 "Non lo so, ma devi resistere, Elliot e gli altri stanno arrivando".
 "Che fortuna! Un gruppo di ragazzini sta per intrufolarsi in una prigione in stile medievale, con chissà quanti guardiani pericolosi. In che modo questo dovrebbe aiutarmi?" la stanchezza si stava rapidamente trasformando in collera. Eric era scattato in piedi e aveva afferrato il ragazzo per il bavero del mantello. Il cappuccio scivolò delicatamente all'indietro scoprendo gli occhi del ragazzo, gonfi di lacrime e di tristezza. Eric lasciò la presa e si rimise a sedere, si prese la testa fra le mani e sospirò. La stanchezza era tornata con la stessa rapidità con la quale era stata scacciata dalla rabbia.
 "Dove mi trovo?" chiese come per cercare di scacciare un pensiero.
 "Sei nella città fortificata di Elengar" rispose la voce nella sua testa. Eric continuò a fissarsi i piedi scalzi. Un topolino squittì in un angolo della stanza e scattò verso la porta.
 "Come facciamo a scappare?" chiese con la stessa naturalezza di una persona che chiede informazioni sul clima.
 "Devi avere fiducia nei tuoi ragazzi, sapranno tirarti fuori da qui" rispose la voce. 
 Eric alzò lo sguardo e un briciolo di collera lampeggiò di nuovo nei suoi occhi "Quindi mi stai dicendo che sai già che sopravviveremo!" chiese rabbioso.
 Il ragazzo rimase immobile. Fu ora il suo turno di abbassare lo sguardo. Non rispose, ma non ce ne fu bisogno. Eric si limitò a sbuffare con aria ironica e a scuotere la testa in segno di disapprovazione.


 Il tintinnio delle chiavi si fece sempre più vicino. Adesso insieme al rumore metallico si potevano udire anche i passi di un uomo che avanzava verso di loro. Nella cella il silenzio era totale ed Eric era in grado di sentire ogni palpitazione del suo cuore. L'ansia lo stava progressivamente divorando. Per la prima volta iniziò a provare paura. Paura per l'ignoto, paura per i suoi allievi, paura della morte.
 "Ora devo andare, da qui in avanti dovrai cavartela da solo" disse la voce nella sua testa. Eric non si sprecò nemmeno ad alzare lo sguardo. Non un cenno di saluto ne una parola. Continuò a fissare il pavimento con ostinazione e rabbia. Paura e collera.
 Il ragazzo era sparito esattamente come era comparso. Eric continuò a tenere lo sguardo basso ma sapeva di essere di nuovo solo nella stanza. Il pesante rimbombo dei passi si arrestò in corrispondenza della sua porta e il rumore della chiave che cercava la sua strada all'interno della toppa gli fece gelare il sangue.
 La porta si spalancò ed un uomo enorme con una casacca nera con una croce bianca al centro fece il suo ingresso nella stanza. Eric ricordò di aver già visto quel simbolo. Era impresso sulle divise dei due soldati che lo avevano catturato. Ricordò finalmente il percorso che lo aveva portato in quella prigione. La cattura. Il viaggio a cavallo con le mani legate. Le continue cadute e le conseguenti perdite di conoscenza. L'interminabile salita costantemente in curva che li aveva condotti fino alla cima di una montagna come mai ne aveva viste. Le mura. Il castello. La cella.
 L'uomo enorme si fece da parte e lasciò il passo ad un suo commilitone. Decisamente più piccolo. Non troppo, aveva una corporatura molto simile a quella di Eric, forse solo un po' più magro, però accanto a quella montagna umana dava l'idea di essere infinitamente piccolo.
 Aveva dei lunghi capelli neri e si fece avanti sorpassando il gigante che lo aveva accompagnato. Si avvicinò ad Eric che continuava a starsene seduto sulla tavola di legno con lo sguardo perso nel vuoto, accecato dalla poca luce che filtrava dalla porta alle loro spalle.
 "Il mio nome è Nikolas" disse e rimase in silenzio come per attendere una risposta, ma vistosi ignorato riprese "Di solito quando qualcuno si presenta, è buona educazione rispondere presentandosi a propria volta".


 Eric sorrise. Fissò Nikolas negli occhi e ne sostenne lo sguardo, infine disse "Abbiamo un concetto di educazione differente. Dalle mie parti è considerato alquanto scortese prendere uno sconosciuto, tirargli una freccia nel polpaccio, arrestarlo e sbatterlo in prigione senza motivo".
 Nikolas sembrò divertito da quello scambio di parole "Hai ragione, ma da quel che mi risulta tu hai aggredito uno dei miei uomini. Anche questa è una cosa che non andrebbe fatta. Diciamo che siamo pari" disse il soldato sorridendo e tendendo la mano in segno di pace. 
  Eric ignorò la mano e continuò a fissare Nikolas negli occhi. Si alzò in piedi e si accorse di essere di poco più alto del suo interlocutore. Questo doveva infastidire non poco il soldato che in risposta distolse finalmente lo sguardo. "Quindi posso andarmene tranquillamente per la mia strada" esclamò ironico Eric.
 "Oh, ma certo che puoi. E' sufficiente che tu risponda ad alcune domande e poi te ne potrai andare" concluse Nikolas facendo segno con la mano all'energumeno di spostarsi e indicando la via libera.
 "Non so nulla di quella ragazza che stavate inseguendo, l'abbiamo incontrata per caso e non ho neanche avuto modo di scambiarci due parole."
 "Mi hai frainteso. Non mi importa nulla di quella ragazza. L'ho fatta seguire dai miei uomini con una scusa solo perché non mi era permesso di dire loro la verità. La verità è che io sapevo che sareste arrivati -si, proprio così! Sto parlando di te e di quei ragazzini- e sapevo che quella ragazza ci avrebbe condotti da voi".
 Eric rimase spiazzato, il ragazzo che gli aveva fatto visita pochi istanti prima gli aveva detto un sacco di cose inutili, ma doveva aver tralasciato di avvertirlo che lo scopo della retata nel bosco era proprio catturare loro, o perlomeno uno di loro. Lui.
 Si chiese quante possibilità ci fossero che il ragazzo non ne fosse a conoscenza, ma non seppe darsi risposta.
 Nikolas si aggiustò la divisa e ricominciò a parlare "Vedi, qui comando io ma, come tutti, anche io rispondo agli ordini di qualcuno. Questo qualcuno mi ha avvertito che dei forestieri sarebbero giunti in queste terre e che io avrei dovuto catturarli. Questa è la mia missione, il mio scomodo incarico. Non è nostra intenzione farvi del male, vogliamo solo scoprire come avete fatto ad arrivare 'qui'. Perciò ora ci sediamo e tu mi racconti tutto."
 "Lo farei molto volentieri" rispose Eric sedendosi di nuovo sulla branda di legno "ma non ho la più pallida idea di cosa tu stia parlando".
 Nikolas si sedette al suo fianco e attese qualche istante, si voltò verso di lui e sorrise. "Ne sono certo. Amnesia immagino. Ma non ti preoccupare, abbiamo i nostri metodi per far recuperare la memoria ai prigionieri" detto questo si alzò nuovamente ed uscì dalla cella. Il gigante lo seguì silenziosamente.
 Rumore di chiavi. Rumore di passi. Silenzio. Eric era di nuovo solo.


martedì 7 dicembre 2010

Pioggia Battente

Felz si alzò di buon ora. La luce ancora non filtrava dalle imposte e il profumo di pane fresco non si spandeva nell'aria. Kaila probabilmente stava ancora dormendo. Si mise a sedere sul letto per non rischiare di riaddormentarsi. Era stanco, mai come in questi giorni c'era stato tanto da fare. Aveva ripulito la taverna e riportato indietro buona parte dei barili di birra. Aveva preparato dei secchi con il mangime degli animali. Dosi ben ponderate per durare abbastanza tempo da permettergli di arrivare a Salingar e tornare indietro senza rischiare di ritrovare le bestie morte di fame. Suo padre Ivan avrebbe potuto facilmente sfamarle versando il contenuto dei secchi nella mangiatoia ogni giorno.
Aveva portato i cavalli dal maniscalco per ferrare gli zoccoli e aveva contattato diverse badanti per trovare quella più adatta ad occuparsi del padre durante la loro assenza. Alla fine aveva optato per Olga, la corpulenta cuoca della caserma di Elengar. In questo periodo di ristrutturazione dell'esercito aveva perso il lavoro e quindi aveva iniziato a fare la badante. Quella mattina Felz sarebbe andato in città a prenderla per portarla a casa. Prima però doveva passare dalla birreria per appendere il cartello che avvisava gli avventori della temporanea chiusura.
La tentazione di rimettersi a dormire fu grande, ma alla fine riuscì ad alzarsi. Una volta fuori dall'uscio di casa si fermò un attimo ad ammirare il panorama. In venticinque anni non si era mai alzato così presto. Nonostante la sua sorellina gli avesse più volte parlato della cascata di nebbia che in autunno ricopre il versante del monte Hoen, lui non l'aveva mai vista. Era uno spettacolo incredibile. Surreale. Un leggero chiarore iniziò a dare colore alle cose. Il canto del gallo in lontananza confermava l'arrivo dell'alba. Del sole però non c'era traccia. Troppo impegnato a nascondersi dietro un fitto strato di nubi scure. L'eco leggero di un tuono arrivò a preannunciare l'avvicinarsi di un temporale. Pessimo momento per mettersi in viaggio. Ormai però era tutto organizzato e più tempo passava e più Kaila rischiava di essere scoperta. Sarebbero partiti comunque, ma prima avrebbe inchiodato qualche asse sul carro per fare da tettoia contro la pioggia.

I cavalli erano ancora addormentati e ci vollero parecchie carrube perché diventassero collaborativi. Li portò fuori dalla stalla e li legò al carro. Alcuni rumori arrivarono da dentro casa. Probabilmente Kaila si stava svegliando. Forse al suo ritorno avrebbe trovato del pane fresco. Il freddo era liquido. Si infiltrava fin dentro le ossa. Le mani si intorpidivano e i piedi arrancavano.
Il tragitto verso Elengar fu breve. Senza carico, i cavalli coprirono il percorso in meno di venti minuti. La città era ancora addormentata. Il silenzio rendeva ogni passo oltremodo rumoroso. Davanti al Grande Portone le guardie erano sveglie e vigili. Cosa insolita a quell'ora del mattino. I grandi cambiamenti si notano dalle piccole cose. Insieme ai due armigeri di guardia c'era un ragazzino con una casacca nera. Portava sulle spalle faretra e arco, mentre al fianco, dal fodero della spada, spuntava quello che sembrava essere l'impennaggio di una freccia. Sul petto portava l'insegna dell'Esercito Unificato e probabilmente era lì per controllare l'operato delle guardie del Portone.
Sembrava annoiato da quell'incarico. Era completamente assorto nel compito di limare la punta di una freccia. Gli armigeri però non sembravano rilassarsi, ogni tanto lanciavano qualche occhiata indietro per controllare la sua posizione. Felz fece cenno di saluto con il capo ad entrambi. I due militari si limitarono a spostarsi lasciando libero il passaggio. Mentre attraversava il Portone colse con la coda dell'occhio lo sguardo del ragazzino. Aveva una specie di ghigno stampato sulla faccia mentre lo fissava.

Decise come prima cosa di passare alla birreria. La strada era completamente sgombra e silenziosa. Gli stoppini dei lampioni erano già stati spenti. La luce mozzata di quel mattino uggioso rendeva difficile distinguere le forme. La taverna di famiglia si trovava sul corso principale che dal Grande Portone arriva fino al piazzale della Reggia. Felz però era solito entrare dall'ingresso posteriore, e per raggiungerlo era necessario addentrarsi nell'alveare di case che componevano la cittadella esterna.
Il silenzio era snervante. Il ragazzo dell'Esercito aveva messo Felz di cattivo umore. Si sentiva come un ladro braccato. Il ché non era troppo lontano dalla verità. Solo che il ladro era sua sorella. Kaila era sempre stata una ragazza amabile, dolce e disponibile. Eppure da sempre nei suoi occhi c'era un velo di malinconia. Una tristezza nascosta e radicata che sembrava non conoscere conforto. Era sempre taciturna. Da piccola si rintanava nei luoghi più ameni pur di essere lasciata in pace. Più di una volta lui e suo padre si erano presi un bello spavento vedendola arrampicarsi su alberi, tetti e rocce. Non era mai caduta e mai aveva dimostrato timore. Quando si arrampicava sulla vetta del suo piccolo mondo sembrava ritrovare la calma, la serenità. La tristezza però, quella non se n'era andata mai.
Poi un giorno era cambiata. Aveva ritrovato il sorriso e la spensieratezza. Aveva trovato qualcosa per cui vivere. Felz non avrebbe mai sospettato che potesse essere stata sua sorella a commettere il furto, ma quando Kaila glielo confessò non ne rimase sorpreso. In fondo aveva sempre saputo il perché di quella tristezza inconsolabile. Lo sapeva perché in parte la condivideva. Entrambi sapevano che nella loro vita mancava qualcosa. Qualcosa che gli era stato strappato via da piccoli. E non era solo l'affetto della madre ciò di cui si sentivano privati. No, loro sentivano di aver perso le loro origini. Certo, Kaila accusava maggiormente questa mancanza, ma anche Felz non vi era rimasto indifferente. Forse fu questo il motivo che lo spinse a non arrabbiarsi con la sorella e a cercare in tutti i modi di aiutarla. In fondo anche lui voleva conoscere il contenuto di quel diario.

Un gatto attraversò la strada all'improvviso e Felz sussultò. Non era abituato a perdersi nei suoi pensieri. Era un tipo pratico e meticoloso. Non certo un sognatore. Dal giorno del furto probabilmente era cambiato qualcosa anche in lui e adesso iniziava ad accorgersene.
Raggiunse il retrobottega della taverna. Il vicolo era stretto. Il carro ci passava per poche spanne. Era uno di quei vicoli senza uscita dove non ci sono finestre a fare capolino sulla strada. Felz legò i cavalli davanti all'ingresso ed entrò nel locale. Tutto era perfettamente in ordine e da terra si alzava profumo di pulito. Tutte le sedie erano disposte a rovescio sul bancone e sui tavoli. Tutte le bottiglie erano state portate in cucina e i boccali di vetro erano stati riposti negli armadietti sotto il bancone. Con una mano sfiorò il bancone e si sorprese a pensare alla sua vita. Tutto il suo mondo esisteva all'interno di quelle quattro mura. Aveva dedicato ogni suo giorno, ogni suo momento, ogni suo respiro a quel locale. Si chiese se fosse davvero quello il suo posto. Se non avesse sprecato il suo tempo per seguire una stupida tradizione di famiglia. Non aveva neanche avuto il tempo di trovarsi una moglie per colpa di quella maledetta taverna.
Cercò di cacciare via quel pensiero e andò a prendere il cartello che Kaila aveva preparato. Doveva semplicemente appenderlo sulla porta e andarsene. Almeno per qualche giorno avrebbe condiviso qualche momento piacevole con sua sorella. Non avevano mai avuto del tempo da trascorrere insieme. Quando Kaila era abbastanza grande per correre e giocare, Felz aveva ormai iniziato a lavorare con il padre alla birreria. Avrebbe approfittato di quella vacanza improvvisata per cercare di recuperare un po' del tempo perduto.
"Andate da qualche parte?" La voce arrivò improvvisa. Felz non si era accorto di avere qualcuno alle spalle. Non aveva sentito nessuno avvicinarsi, nonostante il silenzio accentuasse ogni singolo rumore. Perse la presa sul cartello che cadde a terra. Si chinò per raccoglierlo senza voltarsi. Sapeva a chi apparteneva quella voce. In città c'era un nuovo Capitano e spesso lo aveva visto seduto al suo bancone. Mai una volta aveva consumato qualcosa. L'unica cosa che riusciva a fare era spaventare la clientela. "Gli affari non vanno bene, andiamo a vendere le scorte di birra in un'altra città" rispose in tono asciutto. Senza far trapelare tutto l'astio che aveva in gola. "Capisco. E per quanto rimarrete chiusi?". Felz non era stupido, aveva visto come quell'uomo guardava sua sorella e sinceramente non gli piaceva. Avrebbe voluto rispondergli a tono, magari anche dargli una bella lezione. Non solo allontanava i clienti, ma stava rovinando la vita della sorella. Purtroppo però il coraggio non era una delle sue virtù quindi lasciò cadere l'argomento. "Partiremo oggi, ma potremmo doverci fermare lungo la strada. Il tempo non promette nulla di buono."
"Potrei mandarvi una scorta, non si sa mai quali pericoli potreste incontrare nel tragitto, e io sono pieno di uomini scansafatiche che non hanno alcun impiego se non sperperare il denaro del regno. Un po' di moto gli farebbe bene". Ci mancava solo la scorta. Dei militari che accompagnano dei fuggiaschi a seppellire della refurtiva. Forse avrebbe anche trovato la cosa divertente in altre circostanze. "Non ci serve il tuo aiuto". Rispose Felz ormai sul punto di esplodere. Si rese conto di aver calcato troppo l'accento su 'tuo' e capì al volo che l'atteggiamento del Capitano era cambiato. Gli si fece vicino. Felz sentì il suo fiato sul collo. "Non ti conviene avermi come nemico" gli sussurrò gelido nell'orecchio. "Vi auguro un buon viaggio" aggiunse sprezzante mentre si allontanava nei vicoli dell'alveare.

Gocce d'acqua iniziarono a cadere leggere. Poi via via sempre più intense. Un tuono squarciò il silenzio. Tambureggiante e battente, la pioggia riempì l'aria. Grosse pozze iniziarono a formarsi lungo la strada. Piccoli ruscelli cominciarono a solcare i vicoli della città. La rabbia di Felz aveva raggiunto il limite. Nessuno avrebbe messo le mani su sua sorella.
Corse nel retrobottega. Prese alcune tavole di legno che avevano tenuto da parte per accendere il fuoco e iniziò a costruire la tettoia per il carro. Batteva sui chiodi con tutta la rabbia che aveva in corpo. Sfogava la sua impotenza contro quelle poche assi di legno. I tuoni si facevano sempre più forti e facevano da sottofondo al suo animo inquieto. Il lavoro che ne uscì fuori non era perfetto, ma sarebbe bastato a proteggerli dalla pioggia. Caricò sul carro i pochi barili di birra rimasti nel locale e montò la tettoia. Era ora di partire.
Raggiunse l'abitazione della badante che le strade erano già diventate un torrente in piena. Olga era sull'uscio ad aspettare e quando vide arrivare il ragazzo si illuminò in volto. "Pensavo che non venivi più. Con 'sto tempo scuro!" Felz non rispose e la donna notò lo sguardo cupo del ragazzo. Rimasero in silenzio per tutto il tragitto di ritorno. Ci volle del tempo perché le strade erano quasi impraticabili.
"Non è meglio se partite domani? E' pericoloso andare in giro con 'sta pioggia" cercò di farlo ragionare Olga, ma Felz voleva mettere più leghe possibile tra sua sorella e il Capitano e voleva farlo il più in fretta possibile. Voleva fuggire. Una volta raggiunta la fattoria, corse verso la cantina sotto la pioggia per caricare il carro con più barili possibili. Fece attenzione a riporre quello con la refurtiva in fondo a tutti gli altri, così da rimanere al sicuro da eventuali controlli. Il carro si stava lentamente riempiendo d'acqua piovana. Coprì le botti con quanti più teli riuscì a trovare per proteggerli dalla pioggia e alla fine tornò alla stalla.

Kaila lo stava aspettando. Era avvolta nel suo grande mantello col cappuccio calato fin sopra gli occhi. Aveva in mano un grosso fagotto che sosteneva a fatica. Sembrava allegra e spensierata. Quasi non si accorse dell'aria funerea del fratello. "Qui ci sono le provviste per il viaggio. So che tu e papà di solito vi fermate nelle locande, ma preferisco di gran lunga la mia cucina... e poi mi è venuta una strana voglia di ciliege sotto zucchero". Sembrava il ritratto della felicità. Tutta quell'allegria era contagiosa e Felz si ritrovò a scherzare con la sorella come se non fosse successo nulla. Iniziò a sentirsi più sereno. Erano al sicuro e si sarebbero allontanati. Per almeno un paio di settimane sarebbero stati tranquilli. In quel mentre li aveva raggiunti anche Ivan che, come Olga, cercò di convincerli ad aspettare la fine del temporale prima di intraprendere un viaggio così lungo. I due non vollero sentire ragioni e partirono senza altri indugi.
La pioggia era incessante, ma la tettoia teneva. Per Kaila questo era il primo viaggio. Non aveva mai visto il mondo oltre le pendici della montagna e tutto sembrava meraviglioso. Continuava a chiedere informazioni su tutto. Dalla durata del viaggio a quali villaggi avrebbero incontrato lungo il cammino. Chiese dove avrebbero dormito e si informò sui costi delle varie locande di cui Felz le parlava. Sembrava una fonte inesauribile di domande.
Ogni tanto qualche tuono interrompeva le loro discussioni, ma nessuno dei due sembrava darci peso. Il Capitano, l'Esercito, la refurtiva. Tutto sembrava un problema lontanissimo e intangibile. Finalmente avevano il tempo di stare insieme e non lo avrebbero sprecato rimuginando sui loro problemi.
Il viaggio era iniziato.


lunedì 6 dicembre 2010

Un Incarico Scomodo

Il crepitio del fuoco andava lentamente scemando. Grossi pezzi di carbone perdevano rapidamente la loro sfumatura rossastra. Piccole fiammelle si agitavano agonizzanti su un letto di cenere cercando gli ultimi brandelli di legno di cui nutrirsi. Le ombre si amalgamarono col buio impietoso della notte. Un leggero alito portò via l'ultima parvenza di tepore rimasta, lasciando solo il freddo e il gelo a spartirsi l'aria. Nikolas non temeva le basse temperature. Nella sua terra aveva conosciuto il vero freddo, quello che ti gela le ossa. Era cresciuto sentendo il suo respiro condensarsi sulla pelle del suo viso. Quel mite venticello di fine novembre era come una calda vacanza estiva per il suo animo congelato.
Le terre della Stirpe di Mana erano considerate maledette. Il gelo sferzava quei luoghi come per punirli della colpa di cui si erano macchiati. Ormai erano passati più di duemila anni dal termine della Grande Guerra, eppure gli eredi di quella Stirpe venivano ancora additati come rinnegati. Nessuno si fidava di loro. Non ancora. Nikolas era il primo erede di quella gloriosa Stirpe a varcare i confini delle terre di Hoen dai tempi della fine della Guerra. Quando gli fu affidato l'incarico di andare a presidiare la capitale di quel regno da sempre considerato nemico, per un attimo si sentì mancare. Non era paura la sua, anzi, era fiero di quel compito. No, la sua era rabbia. La rabbia frustrata degli sconfitti. Una rabbia non sua, ma della sua gente, che tutta insieme si riversò nelle sue vene e nella sua anima lasciandolo sbigottito. Perché lui? Il Maestro sapeva delle sue origini. Era l'unico a saperlo. Nonostante ciò aveva deciso di mandare lui per quell'incarico. Non riusciva ad apprezzare la sottile ironia di un discendente dei Mana sul trono di Elengar.

Avevano avvistato la montagna sulla cui vetta si ergeva maestosa la capitale fin dal giorno del loro sbarco ad Yrida, la città frontiera. Il porto dal quale tutte le navi da e per il continente dovevano passare. L'unica città portuale sulla riva nord dello stretto. Il primo fronte di difesa delle terre di Hoen.
Avevano perso due giorni tra controlli e perquisizioni. Non si facevano sconti, neanche di fronte al sigillo regale. Il sigillo che Nikolas portava al collo. Un medaglione d'oro massiccio recante impresso lo stemma della Stirpe alla quale un tempo i suoi antenati avevano dichiarato guerra. Il peso di quell'ornamento era aggravato dal peso dell'ipocrisia che sentiva addosso mentre lo indossava. Eppure non l'aveva mai tolto, faceva parte del compito assegnatogli.
Il Maestro aveva una sola parola, e non era molto incline ad accettare obiezioni. Ma a Nikolas stava bene. Si trovava a suo agio ad eseguire gli ordini, di qualunque natura fossero. Aveva bisogno di una guida, di qualcuno che gli indicasse il cammino. Il Maestro aveva preso quel povero ragazzino mendicante che passava la sua esistenza ai margini della vita e lo aveva trasformato in un vero uomo. Un soldato eccellente. Il Capitano della guardia. Ora era stimato e temuto dai suoi uomini. Aveva un posto che poteva chiamare casa. Aveva trovato una ragione per vivere, per sopportare quel senso di inadeguatezza che il gelo delle sue terre aveva instillato fin dentro la sua anima.

Una volta oltrepassate le mura di Yrida, l'avevano vista. Alta e magnifica. Quasi irraggiungibile. La città di Elengar con le sue torri infinite era l'unica cosa che osasse interrompere la linea dell'orizzonte. Ogni giorno di cammino diventava sempre più imponente. Man mano che il drappello guidato da Nikolas si avvicinava alla montagna Hoen, la capitale diventava più nitida. Le sue torri perdevano quell'aspetto mistico di una mano ungulata che ghermisce il cielo. Iniziarono a distinguere le fattorie sul versante della montagna. Videro le piccole torrette di guardia che puntellavano le mura a ritmo regolare. Impararono a riconoscere gli ugelli che in tempo di guerra venivano usati per versare la pece e l'olio bollente sugli assedianti. Ci volle più di una settimana a cavallo perché potessero raggiungere le pendici di quella montagna solitaria.
Quella sarebbe stata la loro ultima notte all'addiaccio. All'alba Nikolas avrebbe svegliato i suoi uomini e avrebbero iniziato la scalata del versante meridionale. Se fossero riusciti a mantenere un buon passo avrebbero raggiunto la città nel primo pomeriggio. Finalmente un po' di riposo.
Stando a quanto gli era stato detto, la città imprendibile era stata presa. In realtà non era successo niente di grave: un ladruncolo si era introdotto all'interno della reggia e aveva sottratto alcuni oggetti di poco conto. Tra l'altro sembrava che il tizio per evitare la cattura si fosse suicidato. Caso chiuso. Il problema stava proprio nel fatto che qualcuno avesse trovato il modo di violare il ventre di quella che per il mondo intero era diventato il simbolo dell'impenetrabilità. Nella storia i figli del monte Hoen avevano radicato nel loro animo il senso della sicurezza. Da qui i controlli maniacali, le mura invalicabili intorno ad ogni città, le navi che pattugliavano le coste. Eppure qualcuno aveva trafitto quella sicurezza direttamente al cuore. Vista in quest'ottica quella che in principio sembrava una sciocchezza - quale reggia al mondo non è mai stata preda di furti - finì per diventare un caso politico. Il Maestro aveva giocato bene le sue carte e aveva convinto il re della Stirpe di Hoen a inviare un gruppo dei suoi fidati soldati per verificare le norme di sicurezza della città e, qualora ce ne fosse bisogno, rinforzarle.

Nikolas si sentiva come alla vigilia di un assalto. Il ché non era del tutto sbagliato visto chi era lui e dove si stava recando. Questa volta però non ci sarebbero state vittime. Ciononostante non riusciva a prendere sonno, erano giorni che non chiudeva occhio. Iniziò a sellare il cavallo per tenersi occupato. I suoi uomini erano rannicchiati nei loro giacigli di piume d'oca. Profondamente addormentati ma sempre con una mano sull'elsa della spada. Li conosceva bene ormai. Sarebbero scattati in piedi alla sua prima parola. Anni e anni di addestramenti serrati li avevano uniti. Ormai si intendevano alla perfezione. Era sufficiente uno sguardo per comunicare un ordine. Non potevano definirsi amici, no, il loro legame andava oltre, ognuno di loro avrebbe dato la vita per proteggere la squadra. Nessuno veniva mai lasciato indietro. O si avanzava uniti e compatti, o si moriva insieme nel tentativo.
Pilsk era il più giovane del gruppo. Lo avevano beccato a rubare nell'armeria dell'esercito pochi anni prima e per penitenza lo avevano arruolato. Il Maestro era scaltro: uno che riusciva ad aggirarsi indisturbato per i corridoi della caserma era sicuramente un valido elemento. Si beccò novecento frustate per quella bravata, poi però fu affidato alle 'amorevoli' cure del Capitano. Adesso se ne stava lì, accovacciato come un bambino vicino ai resti del fuoco e abbracciato ad una freccia. Ne teneva sempre una nel fodero della spada. Quel fodero avrebbe tenuto tranquillamente uno spadone a due mani, invece ospitava una freccia e uno stiletto. Quest'ultimo era completamente arrugginito, non era mai stato usato. Anche nel corpo a corpo Pilsk brandiva le sue frecce come fossero spade. Aveva una mira infallibile. Era in grado di colpire una noce da 500 iarde di distanza con vento a sfavore. Si diceva in giro che avesse discendenze elfiche, ma per il Capitano non era un problema. Nessuno meglio di lui conosceva l'amaro sapore della discriminazione.
Hector era il muro di difesa del gruppo. Aveva l'imponenza del tronco di una quercia secolare e tante cicatrici sulla pelle da farla sembrare la corteccia di un albero. Era alto più di due metri e combatteva con la grossa ascia che portava legata sulla schiena. Malgrado l'apparenza era di un'agilità incredibile. Entrò nell'Esercito Unificato ancor prima del Capitano. Nessuno conosceva la sua età ne la sua voce. Da quando fu affidato al comando di Nikolas non aveva mai proferito verbo. Le sue origini erano avvolte dal mistero come anche il perché si fosse unito spontaneamente all'esercito - di solito si veniva convocati, e nessuno era mai felice di questo onore.
Ariel era l'unico a non avere una spada. Non ne aveva bisogno. Il suo ruolo era quello del cerusico. Curava le ferite degli altri e si occupava di sfamarli. Un ottimo cuoco. Era riuscito a preparare un pasto decente anche mentre erano dispersi nelle paludi di Terahd. Sapeva produrre ogni tipo di antidoto e medicina. Lui ad Elengar c'era già stato. E si era diplomato a pieni voti alla scuola di magia. Il Maestro aveva voluto che ogni squadra fosse accompagnata da un mago. In battaglia Ariel sapeva attaccare bene quanto i suoi colleghi pur mantenendosi a debita distanza dal fronte. Era la retroguardia del gruppo. L'arma più preziosa nelle mani del Capitano.
Tak era Tak. Nikolas conosceva il suo segreto, ma una donna nell'esercito era qualcosa di anomalo. Il suo nome reale era Takalia. Nessuno però, fatta eccezione del Maestro e del Capitano, ne era a conoscenza. Tak era l'esperta di veleni e di mimetismo. Era stata per anni la spia personale del Maestro. Era riuscita ad ottenere tutte quelle informazioni che avevano permesso al loro capo di raggiungere le vette del potere. Ora che la posizione del Maestro era consolidata, era stata assegnata al Capitano. Da anni viveva come un uomo. Camuffava le sue forme grazie alla sua arte del travestimento. Prendeva ogni sera una mistura di sua invenzione che le abbassava il tono di voce. Portava i capelli sempre rasati, solo lo sguardo tradiva una femminilità dimenticata.
Quello era il suo gruppo. Il gruppo del Capitano Nikolas. Il più temuto di tutto l'Esercito Unificato. L'unico al quale il Maestro avrebbe affidato la sua stessa vita. L'unico che poteva accollarsi una missione tanto delicata.

Dalla vetta della montagna iniziò a scendere lenta una leggera nebbia che andò ad annegare la vallata. Il cielo iniziò a schiarirsi sotto una fitta coltre di nubi. L'ora del risveglio era arrivato. Il Capitano chiamò a raccolta i suoi uomini che, dopo pochi preparativi, erano pronti a partire. Montarono a cavallo e si incamminarono verso la loro meta. Verso il loro ultimo giorno di viaggio.
Si unirono alla lenta processione di fattori che portavano la loro merce in città. Raggiunsero il Grande Portone nel primo pomeriggio. Furono subito bloccati dalle guardie che mal tolleravano i forestieri. Solo il sigillo regale gli permise di avere accesso alla città. "Avrò bisogno di incontrare il vostro capitano. Ditegli che lo attendo tra un ora nella Sala del Trono." Nikolas si rivolse ad uno degli armigeri più giovani che subito scattò tra le vie del borgo per consegnare il messaggio.
Vagarono un po' senza meta tra i vicoli dell'alveare. A vederli sembravano sperduti, in realtà stavano studiando la città. Conoscere ogni via di fuga e ogni punto debole di una città era alla base di ogni strategia militare. Alla fine si fermarono alla stalla comunale dove smontarono i cavalli. Si separarono. Il Capitano si diresse verso la reggia mentre lasciò detto ai suoi di continuare l'ispezione della città a piedi.
La Sala del Trono era chiusa da diverse generazioni. Il paggio incaricato di accompagnare Nikolas fece fatica ad aprire le imponenti porte in rovere i cui cardini erano ormai profondamente arrugginiti. Era un luogo insolito per tenere una riunione militare. La scelta del Capitano era però studiata a fondo. Ricevendo qualcuno nella Sala del Trono indossando lo stemma regale avrebbe aiutato a definire facilmente il rapporto che si intende instaurare. Nikolas voleva imporsi sull'esercito locale facendo valere la sua autorità e oscurando quella del capitano di Elengar rendendolo un suo subalterno. Nessuno aveva ostacolato il suo cammino fin lì, addirittura alcuni cortigiani si erano inchinati al suo passaggio. Tutto quello spettacolo visto dagli occhi di un rinnegato aveva un ché di surreale. Andava contro l'ordine naturale delle cose. Eppure era lì, a farsi benedire dalle damigelle e omaggiare dai cavalieri. Un vinto sul trono dei vincitori.

Eric, il Capitano della Guardia di Elengar si presentò al cospetto di Nikolas senza farsi annunciare. Puntò dritto sull'avversario con una mano stretta a pugno su un fianco e l'altra saldamente aggrappata all'elsa della spada. Nikolas non si scompose. Si era comodamente adagiato sul trono e non azzardò nessuna reazione all'arrivo dell'altro. "Che ci fate voi qui? Nella mia città? Sul trono del mio sire?" Eric sembrava sul punto di esplodere.
"Ah, questa sediola è un trono? Non l'avrei mai detto! Sono qui per ordine del vostro sire" Nikolas fece segno al suo paggio che consegnò una pergamena al capitano Eric "Come potete leggere mi conferisce pieni poteri! I vostri poteri, per essere precisi. Da oggi sarete al mio servizio" concluse. "Cosa? E' uno scherzo!" Eric cercò di leggere la pergamena più in fretta possibile trattenendo a stento la nausea "Temo di no, mio caro amico! C'è stata garantita la vostra massima collaborazione! Siamo qui per il bene di Elengar!" Eric era furibondo, ma Nikolas intravvide nei suoi occhi un cenno di resa. Il suo furore doveva lasciare il posto al senso del dovere. Gli ordini del re andavano sempre onorati. "Non sono vostro amico, e nemmeno un vostro sottoposto..." Eric fissò intensamente il pavimento meditando su come terminare la frase, poi alzò gli occhi furenti e semplicemente se ne andò. Calcava su ogni passo come un elefante in una radura. Ora la città apparteneva al Capitano. Nikolas si prese un attimo per assaporare la sensazione.
Dopo aver oziato un po' nei suoi pensieri, raggiunse la sua squadra nell'alveare. Si incontrarono di fronte ad una taverna locale che il sole stava iniziando a tramontare. "Ehi Capo, come la vedi una bella mangiata? Ora qui ce la comandiamo, un po' di riposo ce lo siamo meritato". L'insolenza di Pilsk ormai faceva parte della quotidianità. Non avrebbe mai permesso a nessuno di rivolgerglisi in quella maniera. Ma Pilsk faceva parte della compagnia ed aveva dimostrato la sua lealtà in più di un'occasione, quindi Nikolas lasciava correre quelle sue esplosioni di gioventù. Abbozzò un sorriso e fece a tutti cenno di entrare.
Si diresse direttamente al bancone mentre gli altri prendevano posto intorno ad un tavolo. Voleva approfittarne per chiedere qualche informazione all'oste, ma fu preso in contropiede. Se c'era una cosa che a Nikolas proprio non riusciva, era di rivolgersi con disinvoltura alle donne. Ci riusciva con Tak solo perché l'aveva sempre vista prima come un compagno di squadra che come una vera donna. Inoltre lei faceva di tutto per nascondere la sua identità. Ma quella che gli si parò davanti era tutta un'altra cosa. Una ragazza bellissima. Folti capelli neri e ricci racchiudevano come un caschetto quei lineamenti delicati e quegli occhi del colore dell'ambra. Lei lo fissò con quel suo sguardo penetrante e per un attimo Nikolas perse il senso del tempo. Doveva essere molto giovane, decisamente più piccola di lui. Forse aveva quindici o sedici anni, ma aveva le fattezze di una donna. Il naso piccolo e le guance morbide, le labbra carnose e di un rosso vivo. Se ne stava lì a pulire in maniera eccessiva un unico boccale vuoto. Sembrava intimorita. Capitava spesso quando la gente lo guardava. Cercò di intavolare una discussione, ma capì subito di aver sbagliato tono, perché la ragazza si mise sulla difensiva e scappò alla prima occasione.
Era rimasto abbagliato da quella visione. Non gli era mai capitata una cosa del genere. Tutto sommato quella missione poteva avere qualche risvolto positivo. Andò a sedersi coi suoi commilitoni e finalmente si rilassò. Tra il vociare dei suoi uomini e gli sguardi rubati alla ragazza della birreria finalmente iniziò a sentirsi sciogliere un po' di quel gelo che lo attanagliava dentro.
Nikolas aveva ritrovato il sorriso.


martedì 30 novembre 2010

Il Piano

L'alba si presentò con calma. La fitta coltre di nubi che ammantava il cielo iniziò a tingersi d'azzurro via via sfumando verso il grigio. Le ombre iniziarono a stiracchiarsi e a gettarsi oblique sulla valle. Le sagome delle torri si dipinsero sui pascoli ormai quasi completamente aridi. Una morbida nebbia argentata iniziò ad irrigare i campi scivolando debolmente lungo il pendio della montagna.
Man mano che il sole riscaldava l'aria, una leggera brezza di vento iniziò a sferzare le chiome degli alberi da frutta. Le nuvole iniziarono a diradarsi lasciando solo una leggera patina lattiginosa a coprire l'azzurro del cielo. La rugiada iniziò ad asciugarsi. In lontananza un gallo levò il suo canto.
Kaila se ne stava seduta sul tetto della sua fattoria a fissare il giorno in divenire. Da alcune settimane era diventata un'abitudine. Faceva fatica a prendere sonno, pertanto passava la maggior parte della notte a rimuginare sui suoi pensieri.
La fattoria della sua famiglia si trovava sul versante oscuro della montagna, quello che veniva illuminato solo dal tiepido sole del pomeriggio. Il terrapieno sul quale era stata costruita fu ricavato da un'antica cava di argilla. Il trisavolo di Kaila l'aveva fatta riempire con la fertile terra proveniente dalle rive del fiume Koar. Il clima asciutto e fresco era l'ideale per la coltivazione del luppolo, per di più il freddo invernale di quella zona favoriva la fermentazione dei malti. Una sezione della piccola cava era stata adibita a cantina dove venivano raccolti i barili della birra. La casa invece era stata eretta sul punto più estremo del terrapieno, quello a ridosso del burrone, così da permettere al sole di abbracciarla coi suoi raggi il più a lungo possibile.
Dal tetto della casa era possibile vedere tutta la vallata. Kaila passava le prime ore del giorno a fissare le ombre della città di Elengar che lentamente si accorciavano. Al canto del gallo si ridestava dai suoi pensieri e si sforzava di iniziare la sua giornata. Aveva circa un paio d'ore di tempo per preparare la colazione, spicciare le faccende di casa ed infine recarsi in città per aprire la birreria. Era stanca di quella quotidianità. Aveva provato il brivido dell'avventura. La paura, L'ansia ed infine il sollievo. Mentre volteggiava al di fuori delle mura della città aveva sentito il suo cuore leggero. Ogni segno di preoccupazione era scomparso. Aveva provato la felicità allo stato puro. Il giorno dopo però la vita aveva ripreso il suo normale corso, in più su di lei pendeva il peso della colpa. L'ansia di tutte quelle cianfrusaglie trafugate dalla Sala dell'Archivio e ora nascoste nella cantina del padre non le faceva prendere sonno. Doveva sbarazzarsene.
Voleva far sì che fosse impossibile ritrovarle. Ricordava di aver sentito parlare di una collina, poco oltre il villaggio di Hangwick, che si diceva essere infestata da spiriti maligni. Per secoli nessuno aveva cercato di inoltrarsi nel folto del bosco di querce che la ricopriva. I pochi sventurati che avevano tentato l'impresa non avevano mai fatto ritorno. Almeno così diceva la leggenda. Un posto del genere sarebbe stato perfetto, anche se qualcuno avesse trovato lì la refurtiva non l'avrebbe di certo associata al furto avvenuto ad Elengar. Magari avrebbero pensato ad un tesoro nascosto e protetto dagli spiriti, pertanto nessuno avrebbe osato toccarlo.
Il problema principale era la distanza. Hangwick si trovava a più di una settimana di cammino. Anche a cavallo non si impiegavano meno di tre giorni ad arrivarci. Come avrebbe potuto giustificare con la sua famiglia un'assenza tanto lunga? Inoltre una donna giovane che viaggia da sola con un fagotto sospetto sulle spalle rischiava di attirare l'attenzione dei viandanti. Per non parlare del pericolo che una fanciulla sola può correre durante le notti incerte in cui la luna si nasconde e i briganti escono dalle loro tane.
Il mattino giunse puntuale a interrompere i ragionamenti della ragazza. Era ora di rigettarsi nella consuetudine.

La casa era fredda. Ormai non si poteva più tenere il camino spento, la stagione non lo permetteva. Il pian terreno dell'abitazione era composto da un unico grande ambiente. Da un lato si trovava la cucina con il forno e i piani cottura. Avevano persino un lavabo per le stoviglie, cosa assai rara vista la difficoltà con cui le varie fattorie venivano collegate all'acquedotto cittadino. Come ogni cava di argilla che si rispetti però, la casa di Kaila sorgeva su una falda acquifera sotterranea dalla quale era possibile attingere l'acqua direttamente. Suo nonno aveva pagato un mago perché imponesse un sortilegio sulle acque sotterranee permettendogli di sgorgare direttamente in alcuni punti chiave della fattoria: La cantina, la latrina, il recinto degli animali, il pozzo di irrigazione e, appunto, il lavabo.
Kaila si avvicinò al grande focolare situato sul lato opposto rispetto alla cucina. Aveva imparato da suo padre a preservare la brace nascondendola sotto la cenere, così accendere il camino al mattino era un compito assai più semplice. Si limitò a disporre i ciocchi di legna su un letto di rami secchi. Con l'attizzatoio spostò la cenere scoprendo le braci ancora calde. Infine dispose sotto i rami un piccolo quantitativo di paglia che si incendiò all'istante. In pochi minuti l'ambiente iniziò a riscldarsi e il fuoco a scoppiettare allegro.
Con la molla di ferro prese poi uno dei ciocchi infuocati per portarlo nel forno, così da poter cuocere il pane. Dispose l'impasto lievitato che aveva preparato la sera prima all'interno del forno e si mise a lavare le stoviglie sporche della cena.
In breve il profumo del pane fresco iniziò a farsi strada lungo il salone, salì la rampa di scale e andò ad incunearsi nelle tre stanze da letto che componevano il piano superiore. Ivan e Felz si svegliarono.
Felz arrivò quasi immediatamente, Ivan si attardò un po'. Erano un paio di giorni che stava poco bene. Kaila mise dell'acqua pulita in un paiolo e la dispose sul fuoco così da poter preparare al padre un decotto contro il male dell'inverno. Ormai Ivan cominciava ad essere in là con l'età e risentiva facilmente degli sbalzi di temperatura tipici della stagione fredda. Per diverso tempo si era discusso di acquistare una dimora umile in città, magari vicino alla birreria, per permettergli di passare la vecchiaia in luoghi più al riparo dalle intemperie invernali. Quando Felz avesse preso moglie e si fosse stabilito nella fattoria con la sua nuova famiglia, Ivan e Kaila si sarebbero trasferiti all'interno delle mura di Elengar.

La mattina proseguì leggera tra le varie faccende di casa. Kaila fece il bucato, rassettò le camere ed infine pulì il soggiorno. Era giunto il momento di uscire per andare ad aprire la taverna in città. Felz era riuscito a convincere il padre a rimanere a casa per riguardarsi. L'incrollabile senso del dovere di Ivan era principalmente dovuto al fatto che a casa si annoiava, ma doveva accettare il fatto che la sua tosse poteva incutere timore negli avventori. Optò per rimettersi a letto dopo aver bevuto un infuso di valeriana e camomilla che Kaila gli aveva preparato. Gliene aveva preparata una brocca intera, così se il primo boccale non fosse stato sufficiente a rispedirlo nel mondo dei sogni, ci sarebbe risucito senz'altro il secondo, o il terzo.
Felz fece uscire i due cavalli dalla stalla e li legò al carro, poi prelevò alcuni barili di birra dalla cantina e li caricò sul pianale. Quando tutto fu pronto, lui e Kaila salirono a bordo e lasciarono la fattoria. La distanza era breve, la loro fattoria si trovava piuttosto in alto, ciononostante il percorso in salita fatto di innumerevoli tornanti, rendeva il viaggio abbastanza lungo. Dopo circa quaranta minuti raggiunsero l'ingresso delle mura. Gli armigeri di guardia erano sempre distratti se non addirittura addormentati, ma Kaila per sicurezza si calava sul volto l'enorme cappuccio del suo mantello. Meglio non rischiare di essere riconosciuta, anche se a conti fatti non era stato diramato nessun mandato di cattura nei confronti del ladro. Per quanto ne sapevano in città, quello era morto spiaccicato ai piedi della montagna. Quando suo fratello gli chiedeva il perché del cappuccio lei si limitava ad imprecare contro il freddo.
Smontarono il carro una volta raggiunto il retrobottega della taverna. Scaricarono i barili e portarono i cavalli nella stalla comunale. Il sole era ormai alto, anche se ancora coperto da una leggera coltre di nubi. Era giunto il momento di aprire al pubblico la birreria.

Mentre il periodo estivo portava clienti solo a sera, durante l'inverno si potevano trovare avventori ad ogni ora del giorno. Il freddo rendeva la birra molto più appetibile. Inoltre avevano fatto costruire una piccola cucina e avevano iniziato a servire anche la zuppa con le cotiche, lo stinco di maiale con le patate e altre prelibatezze prettamente invernali. Non dovevano neanche preoccuparsi di acquistare le carni dal macellaio, noto per i suoi prezzi esagerati, in quanto negli ultimi anni erano riusciti a tirare su un consistente allevamento di maiali e bovini all'interno della fattoria.
Questo aveva reso la birreria di Ivan uno dei locali più frequentati di tutta Elengar. Luogo di ritrovo di alcolizzati ed armigeri fuori servizio. Alcuni rimanevano persino a passare la notte distesi sulle lunghe panche di legno allestite nel locale. Al mattino Kaila offriva loro un boccale di tisana ai mirtilli mentre Felz ripuliva il bancone, così se ne andavano contenti pronti per tornare nuovamente una volta calata la notte. A breve avrebbero reso anche quel servizio a pagamento, così si sarebbero trasformati da semplice birreria a locanda vera e propria. Gli affari andavano sempre a gonfie vele con l'arrivo dell'inverno.
Quel mattino non vi fu un grande afflusso di gente, giusto i soliti due clienti fissi. Il Guercio se ne stava accasciato sul bancone col suo boccale tra le mani. Da quando era rimasto ferito durante un'esercitazione militare, il regno aveva iniziato a pagargli un piccolo vitalizio che gli permetteva di mantenersi senza lavorare, in più era stato congedato dall'esercito con tutti gli onori del caso. Da allora passava ogni giorno nella birreria a sperperare quella sua ricchezza e a piangersi addosso per la sua vita inutile. Uno dei clienti migliori.
Seduto ad uno dei tavoli invece se ne stava Drei il maniscalco. Da quando sua moglie era scappata con uno dei tappezzieri in visita da Salingar, non riusciva ad iniziare le sue giornate senza un'adeguata dose di alcohol nelle vene.
A Kaila piaceva quel lavoro. Dietro ogni persona, sotto ogni espressione, si nascondeva una storia. Lei se ne stava spesso dietro al bancone a dare ascolto agli avventori che dopo il secondo boccale di birra alle castagne iniziavano a raccontargli tutti i fatti più intimi. Sapeva ogni evento che accadeva nel regno quasi in tempo reale, ma nessuno gli aveva ancora accennato al drappello di soldati che stava per fare visita alla città.

Arrivarono nel primo pomeriggio. Lasciarono i cavalli alle scarse cure dello stalliere della città ed iniziarono a girare per le strade dell'alveare. Entrarono nella birreria quando erano da poco suonate le 4 del pomeriggio. Erano in cinque. Avevano un equipaggiamento leggero, da viaggio. Sopra una cotta di maglia indossavano una casacca nera con uno stemma che Kaila non aveva mai visto. Una croce bianca circondata da quattro cerchi argentati. Tutti portavano una lunga spada al fianco destro. Roba buona. Fatta con un buon acciaio. Non come le spade di ferro arrugginito degli armigeri di Elengar. Uno di loro portava al collo un grosso ciondolo che raffigurava lo stemma della stirpe di Hoen. Il lasciapassare regale. Il soldato che lo indossava doveva essere il Capitano del drappello ed era stato mandato dal re in persona. Aveva lunghi capelli neri che arrivavano fin sotto le spalle. Li teneva legati in una coda. Non dovevano essere molto comodi in battaglia, ma d'altra parte erano in tempo di pace, pertanto non era più obbligatorio per i militari rasarsi i capelli. Aveva gli occhi di un azzurro così chiaro da sembrare argento. Quando si avvicinò al bancone Kaila notò che il suo volto era ricoperto da lentiggini molto chiare, a malapena si distinguevano dalla sua pelle d'avorio. Era molto alto, più di suo fratello Felz e anche seduto era comunque più alto di Kaila.
Mentre gli altri quattro componenti si accomodarono ad uno dei tavoli, il capo si sistemò al bancone. "Stiamo cercando informazioni" ruppe il silenzio col suo accento particolare, sembrava si sforzasse per rendere la sua calata meno riconoscibile, ma doveva venire dal continente al di là dello stretto, probabilmente dalle terre dell'est. "Che genere di informazioni?" chiese Kaila cercando di simulare disinteresse. "Il vostro Re vuole scoprire come sia stato possibile che qualcuno si introducesse nel suo palazzo". Kaila iniziò a pulire nervosamente un boccale cercando di evitare lo sguardo di ghiaccio del Capitano. "Ho sentito che il ladro è morto, si è buttato dalle mura" cercò di tagliare corto la ragazza.
"Non è quello che vogliamo sapere. Il vostro Re vuole capire come abbia fatto. Elengar dovrebbe essere la città impenetrabile, invece un tizio qualunque è entrato all'interno delle mura, ha superato la vigilanza e si è introdotto a palazzo" calcava quasi con disgusto sulle parole 'vostro Re', evidentemente non era un'autorità che riconosceva. Per qualche ragione si sentiva superiore. "Siamo stati inviati per rendere questa città nuovamente sicura" concluse sottolineando con un ghigno di compiacimento le ultime parole. Kaila sentì un brivido di paura. Si prospettavano tempi duri per la città. Doveva assolutamente disfarsi della refurtiva. "Non ho il genere di informazioni che vi servono, ma posso servirvi dell'ottima birra" rispose con la voce più amabile che la sua ansia le permettesse. "Non beviamo mai quando siamo in servizio, ma i miei uomini hanno fame" Kaila colse al volo la scusa per dileguarsi in cucina.

Era palese che in poco tempo la pigra monotonia che regnava nella città arroccata avrebbe subito un bello scossone. I nuovi arrivati non sembravano intenzionati ad andarsene. Si erano stabiliti a palazzo e da subito avevano iniziato a dare ordini in nome del Re. Furono costituite squadre di vigilanti per controllare le strade della città. Il numero di guardie alle porte e sulle mura di cinta fu aumentato. Anche durante il giorno armigeri in servizio pattugliavano le strade e stazionavano severi di fronte alle locande. Non sarebbe passato molto tempo prima dell'istituzione del coprifuoco. I forestieri dovevano già abbandonare la città prima del decimo rintocco della sera, ora in cui le grandi porte venivano chiuse. Già dopo una settimana il flusso di avventori calò drasticamente nella taverna di Ivan. Inoltre Nikolas, il Capitano, veniva personalmente ogni sera a presidiare il loro bancone. Non beveva mai e di rado lo si sentiva parlare. Se ne stava lì ad incutere timore e a far scappare la clientela.
La situazione era diventata ingestibile e Kaila sentiva la necessità di liberarsi di tutti quegli oggetti che aveva nascosto tra i fusti di birra. Una sera si decise ad agire, ma non poteva farlo da sola. Mentre Felz sistemava dei nuovi barili di birra in fermentazione in cantina, Kaila gli si avvicinò "Ti devo parlare" gli disse quasi sussurrando. "Perché parli piano? L'esercito non ci può sentire da qui" disse scherzando Felz, ma quando vide la sorella trasalire si fece serio "Che succede?" chiese. In tutta risposta Kaila gli fece segno di seguirla e lo condusse nella zona più buia della cantina, dove aveva nascosto la refurtiva.
Avvicinò una fiaccola agli oggetti e li mostrò al fratello. "Da dove viene questa roba?" chiese il ragazzo terrorizzato. "Hai presente il furto all'Archivio?" disse la ragazza fingendo divertimento "Sei stata tu? Oh dei del cielo! Ti impiccheranno per questo" Kaila fece segno di abbassare la voce e il fratello si zittì. Felz era visibilmente in angoscia "Ho preso questa roba solo perché non capissero cosa volevo veramente" cercò di giustificarsi Kaila "Il diario della mamma!" commentò Felz che aveva già capito tutto. Kaila si limitò ad abbassare lo sguardo come un cane bastonato.
"Dobbiamo liberarcene" fece il ragazzo. "Lo so, volevo portarli sulla collina di Hangwick. Quel posto si dice sia stregato, nessuno li andrebbe a cercare in quel bosco. Però non so come arrivarci". Kaila vide il fratello concentrarsi su un pensiero. Fissava distrattamente gli oggetti e si accarezzava il mento. Forse stava elaborando quel piano che lei non era riuscita a formulare. "Un modo ci sarebbe. Col papà pensavamo di andare a Salingar a vendere della birra. Se qui mettono il coprifuoco ce ne rimarrà parecchia invenduta. Possiamo convincerlo a far venire te al suo posto. Hangwick è sulla strada. Potremmo riempire un barile con gli oggetti, così mentre io proseguo per Salingar tu vai a nascondere la refurtiva."
Il piano sembrava perfetto. Sarebbe stato difficile convincere Ivan a rimanere a casa, ma le sue condizioni di salute avrebbero giocato a loro favore. Avrebbero chiamato una badante per prendersi cura del vecchio durante la loro assenza. Col fratello dalla sua parte finalmente Kaila riuscì a tranquillizzarsi. Avrebbero buttato via quella roba e tutto sarebbe tornato alla normalità. La ragazza corse in casa, entrò in camera sua e si chiuse la porta alle spalle. Si appoggiò allo stipite e lasciò che l'ansia le scivolasse via di dosso. Andò alla cassettiera e nascosto tra i vestiti ritrovò il diario che tanta pena le stava dando. Sentì la chiave sul petto scaldarsi della sua luce argentea mentre prendeva in mano il prezioso quaderno. Dal giorno del furto ancora non aveva avuto il coraggio di aprirlo, ma una volta sistemata quella faccenda si ripromise di trovare il tempo di leggere le ultime parole che la madre le aveva lasciato in eredità.
Si sdraiò sul letto e finalmente riuscì a prendere sonno. Il piano l'aveva trovato, ora doveva solo metterlo in pratica.


lunedì 8 novembre 2010

Il Furto

Elengar era conosciuta in tutto il mondo come la città del vento. Le sue alte torri si inseguivano l'un l'altra nella loro corsa verso le nuvole come per cercare di graffiare il cielo.
All'origine dei tempi era la sede del Supremo Consiglio dei Maghi delle terre di Hoen, ma adesso, di quell'antico fasto, restavano solo le torri. La città in realtà era poco più di una fortezza arroccata sul monte Hoen, da cui prese il nome la Stirpe che vi abitava. Da principio ospitava solo la reggia del sovrano, le sale del Consiglio e la Grande Biblioteca. Quest'ultima era famosa in tutte le terre note come la depositaria di tutto il sapere del mondo. Nel tempo la Biblioteca aveva accolto studiosi provenienti da ogni terra e aveva dato lavoro a moltissimi maghi che si occupavano della salvaguardia e della manutenzione dei preziosi plichi. Visto il gran via vai di gente, presto iniziarono ad essere concessi permessi per edificare case, casette e casupole all'interno delle mura fortificate e all'ombra delle possenti torri. Lo spazio piuttosto risicato messo a disposizione fu completamente tappezzato da abitazioni di ogni genere. Questo non scoraggiò il flusso di immigranti che iniziarono a erigere un nuovo strato di case sopra il precedente. E poi un altro. E poi un altro ancora. Alla fine Elengar divenne una sorta di alveare umano, ognuno col suo spazietto risicato e sempre all'ombra delle possenti torri. Gli stretti vicoli e i consunti ponticelli che univano l'alveare si riempirono di umidità e di aria viziata. In breve tutto fu invaso da muschi e piante rampicanti che conferivano un aspetto magico allo squallore di quei luoghi. Meno magiche, ma più in linea con lo squallore, furone le orde di ratti, furetti e malattie che flagellarono la città fortificata. Il Consiglio fu costretto a bloccare i permessi di edificazione e a schierare un esercito di maghi guaritori per le vie della città.
Non potendo più costruire all'interno delle mura, le case iniziarono a spuntare qua e là su entrambi i versanti della montagna. Grosse porzioni di roccia furono scavate per permettere la costruzione di orti, fattorie e pascoli. Alla fine fu esteso il protettorato del Consiglio a tutta la montagna e nuove mura furono costruite a valle per proteggere la nuova Elengar.
Durante la Grande Guerra, la Guerra delle Stirpi, la vallata ai piedi del monte Hoen non fu mai avvicinata. Non tanto per via dell'enorme potere del Consiglio. Quando mai quelli si sono schiodati dai loro scranni. No, fu grazie a quelle torri assurdamente alte costruite su una città assurdamente alta. Nessuno poteva sbarcare sulle spiagge delle terre protette dal Consiglio senza che l'esercito di Elengar lo venisse a sapere.
Adesso le cose erano parecchio cambiate. Nella Grande Biblioteca erano tenuti solo libri di storia, annali, cronache e almanacchi. Il Grande Consiglio dei Maghi al termine della Grande Guerra perse il suo potere politico. Fu costituito un Consiglio dei Sovrani con sede al di la del mare, al centro delle Terre di Nessuno, dove, in maniera imparziale e senza l'uso di magia, venivano dipanate le questioni diplomatiche tra i vari regni. Il Consiglio, privo di una qualsiasi utilità, decise di dedicarsi ad altro. Fu così istituita una scuola di magia all'interno di quella che era la reggia di Hoen, anche se di reggia non si poteva più parlare visto che il Re ormai viveva altrove. Le abitazioni-alveare all'interno delle mura furono riservate agli aspiranti stregoni. Solo la Sala del Consiglio mantenne un qualche potere istituzionale, trasformandosi in Sala del Giudizio. Una sorta di foro dove veniva amministrata la giustizia della regione. Le segrete della fortezza divennero un luogo di detenzione mentre la vecchia Sala degli Almanacchi fu rinominata in Sala dell'Archivio e vi furono stipati tutti quegli oggetti requisiti ai detenuti o ai condannati a morte.
Quello era l'obiettivo di Kaila.

Fin da bambina Kaila non aveva mai avuto paura delle altezze. Ogni occasione era buona per arrampicarsi da qualche parte. Ivan, il padre, la rincorreva su tetti, alberi, cornicioni, spuntoni di roccia. Lui sempre terrorizzato, lei sempre divertita. Per quanto questa attività preoccupasse Ivan, Kaila non era mai caduta. Mai neanche un graffio, figuriamoci un braccio rotto. No, i suoi piedi non finivano mai in fallo. Anche ad occhi chiusi lei sapeva che i suoi passi non l'avrebbero mai tradita. Kaila non era in grado di spiegare questa sua capacità, ma era come se l'aria le parlasse. Le diceva come muoversi, dove appoggiarsi, a quale ramo aggrapparsi. Sapeva perfino distinguere quali erano gli appoggi sicuri e quali quelli che sarebbero franati sotto il suo peso. Forse un'eredità della sua Stirpe. Non c'era crepaccio, ponte o torre che la spaventasse. Non c'era salto, volo o caduta che la preoccupasse. Kaila era la ragazza equilibrista. Avrebbe avuto un radioso futuro nel circo, ma difficilmente Ivan glielo avrebbe permesso. E poi lei aveva paura degli orsi.
Per introdursi nella cittadella fortificata di Elengar aveva scelto la via del cielo, come sua abitudine. Al mattino presto si era recata all'ingresso della cittadella. Aveva indossato gli abiti da mercante del fratello e un grosso mantello nero il cui cappuccio le cadeva sul volto nascondendone l'identità. Si era presentata davanti agli armigeri semi addormentati di guardia al Grande Portone. Dopo aver ricevuto una forma di pane e mezza caciotta, l'avevano fatta passare senza fare domande. Era pur sempre l'ora di colazione e non si poteva certo cominciare la giornata a stomaco vuoto.
La torre di nord-est era quella più vicina alla Sala del Giudizio. Da lì sopra avrebbe avuto una visuale perfetta sul cortile interno e sull'ingresso delle segrete. Inoltre la torre era completamente abbandonata in quanto l'edera selvatica aveva fatto crollare buona parte delle scale interne. Un problema non da poco per gli armigeri della città. Un simpatico diversivo per la ragazza equilibrista. Una volta in cima alla torre Kaila si accucciò a terra, tirò fuori la sua sacca da sotto il mantello e prese qualcosa da mangiare. Voleva agire col favore delle tenebre. Inoltre quella era la prima notte di Luna nuova. Decise quindi di bivaccare sulla torre fino allo scoccare della mezzanotte. Al primo rintocco si sarebbe mossa, non prima.

L'attesa fu lunga. Il vento batté contro la torre incessantemente per tutto il giorno. Il freddo iniziò a poco a poco a minare la convinzione della ragazza. Ogni volta che era sul punto di rinunciare prendeva tra le mani il ciondolo-chiave. Le bastava fissare quel tenue bagliore per recuperare tutte le energie. Ripeteva tra sé e sé il piano come un mantra. Allo scoccare della mezzanotte il cortile interno veniva sigillato e quindi non ci sarebbero stati guardiani. Da li si poteva accedere alle segrete attraverso una grata che dava su una scala interna. Avrebbe dovuto forzare la serratura, ma avrebbe avuto accesso al dedalo di gallerie che si muovevano sotto la reggia di Hoen. Aveva con sé una piccola mappa che aveva disegnato di suo pugno basandosi sulle informazioni che aveva trovato sui libri di storia conservati nella Grande Biblioteca. Negli ultimi mesi non aveva fatto altro se non leggere cataste monumentali di pergamene dalle quali estrapolare qualche informazione sulla struttura interna della reggia. A volte le informazioni che trovava erano incongruenti, in certi casi anche contraddittorie. Quindi doveva continuare a cercare conferme su altri libri o facendo qualche domanda distratta agli armigeri ubriachi che venivano a poltrire nella birreria del padre. Alla fine aveva tracciato il percorso che l'avrebbe portata sotto la Sala dell'Archivio. Da lì, un montacarichi di servizio le avrebbe permesso di salire al piano superiore entrando direttamente nella sala senza essere vista.
Una volta trafugato il diario di sua madre avrebbe preso alcuni oggetti a caso per far si di smistare i sospetti. Se qualcuno si fosse accorto del furto, avrebbe pensato ad un ladruncolo che aveva arrabattato le prime cose che gli sembravano di valore. Non certo ad un colpo mirato a rubare il diario, e quindi presumibilmente nessuno l'avrebbe collegata al furto. Si sarebbe preoccupata in seguito di liberarsi della refurtiva in eccesso, per non rischiare che gliela trovassero in casa. Per uscire avrebbe usato la finestra che dava sulla Piazzetta, il centro della cittadella. Una volta scesa doveva tornare sulla torre di nord-est, recuperare il suo sacco e riscendere fino all'altezza delle mura, da li sarebbe scesa verso il lato esterno dove sarebbe stata libera.

C'erano tre falle potenziali nel suo piano, e avevano tutte a che fare con l'altezza. Per arrivare nel cortile interno della reggia avrebbe dovuto saltarci dentro. Per rallentare la caduta avrebbe dovuto utilizzare i pali conficcati orizzontali nel muro con gli stendardi del Consiglio. Il problema è che c'erano diverse centinaia di braccia a separare lei dagli stendardi. Cadere da quell'altezza non è esattamente come cadere dal tetto di una fattoria. In quel caso male che va ti rompi un braccio, o una gamba, o entrambe, ma si sopravvive. Kaila non era sicura di cavarsela altrettanto bene se avesse mancato anche solo uno di quei pali.
Per scendere dalla finestra della Sala dell'Archivio, la distanza era minore, ma gli appigli per rallentare la caduta erano molto più esili: grondaie, edera, ganci per tenere aperte le finestre. Infine calarsi dalle mura era la parte più difficile, perché lì di appigli non ce ne sarebbero stati. Solo qualche rientranza nel muro. Al massimo qualche blocco di pietra sporgente.
Kaila faceva molto affidamento sulle sue capacità, ma più si avvicinava la notte più si sentiva agitata. Iniziò a fare avanti e indietro tra le guglie della torre nella speranza di calmarsi, ma con scarsi risultati. Ogni tanto guardava giù per convincersi che ce l'avrebbe fatta ma vedeva solo le lanterne per le vie della città che man mano si affievolivano. Nessun conforto le giungeva da quel firmamento di fiaccole.
All'improvviso arrivò. Secco e violento il suono del rintocco della campana si espanse per le vie del borgo fin giù per tutta la vallata. Kaila sussultò. Il suo cuore perse un colpo. Le sue gambe e le sue mani si irrigidirono. Doveva farcela. Era arrivata fino a quel punto, non doveva tirarsi indietro.
Prese il ciondolo e lo fissò. Brillava come non mai. Kaila non riuscì a spiegarsene il perché ma qualcuno avrebbe potuto notarlo dalla città-alveare, quindi si affrettò a nasconderlo. Il ciondolo però aveva fatto il miracolo. Quella luce le era entrata dentro. Il suo cuore ora era calmo e il respiro non più affannoso. Poteva muoversi. Doveva muoversi. Era già in ritardo di due rintocchi. Salì sul cornicione, inspirò quanta più aria poté e chiuse gli occhi.

Non si accorse di preciso del momento esatto in cui i suoi piedi si staccarono dalla torre. Percepì solo il vuoto, l'aria e poi quella luce argentea che le aveva riempito la mente. Strinse il pugno quasi d'istinto e sentì il freddo acciaio del palo sotto le sue dita. Tenne forte la presa mentre sentiva il suo corpo girare intorno all'asta. Riaprì gli occhi nel momento in cui sentì di essere pronta a balzare nuovamente verso il prossimo palo. La sensazione di volare la inebriò completamente. Raggiunse il secondo palo. Poi il terzo. La caduta non era più così veloce. Spiccò l'ultimo balzo e questa volta arrivò a terra. Intatta. In piedi. Solo le ginocchia un po' piegate nello sforzo di fermarsi completamente. Ce l'aveva fatta. La sensazione della terra sotto i piedi le diede un capogiro. Il peso di ciò che aveva appena fatto le cadde addosso con tutta la sua violenza, ma lei riuscì a sostenerlo. Aveva compiuto un'impresa unica. Peccato non poterla raccontare a nessuno.
Le prime difficoltà non tardarono ad arrivare. La grata era esattamente dove doveva essere, il problema è che nessuno la usava da tempo immemore. Ci vollero diversi minuti perché Kaila riuscisse a sbloccarla. Aveva una serratura grande. Forzando i due perni interni con dei bastoncini di metallo doveva essere possibile aprirla, ma la ruggine aveva completamente bloccato l'ingranaggio. Uno dei bastoncini si ruppe, ma come ultimo gesto ebbe la cortesia di spaccare il chiavistello. Ci aveva messo troppa forza e adesso qualcuno avrebbe notato che quella grata non si richiudeva più. Un problema per volta. Aveva ancora il suo piano di sicurezza per sviare i sospetti. Poteva ancora farcela. Oltrepassò la grata e usò il bastoncino spezzato per bloccare la serratura meglio che poteva. Per qualche giorno avrebbe retto e se nessuno usava quell'ingresso poteva persino passarla liscia.
La mappa si rivelò meno accurata del previsto. Un paio di volte si ritrovò in un vicolo cieco e più volte rischiò di essere intercettata dagli armigeri di guardia alle prigioni. Prese la borraccia che aveva con sé ed iniziò a spegnere tutte le fiaccole per permettere al buio di favorire il suo passaggio. Alla fine si ritrovò di fronte ad una specie di piccola porticina con sopra il simbolo di una montagna con sopra una falce di Luna. Il simbolo del Consiglio. Kaila si infilò nel montacarichi. Incredibilmente trovò estremamente semplice far salire il piano mobile tirando la corda presente all'interno del vano. Come se ci fosse una qualche magia strana che riducesse il suo peso. Arrivò al termine della salita e vide una serie di ruote di diverse dimensioni attraverso le quali passava la corda che aveva tirato. Niente magia quindi, solo uno strano marchingegno.

La Sala dell'Archivio era, a prima vista, un unico ammasso di cianfrusaglie. Impossibile sperare di trovare qualcosa. La stanza si estendeva in lunghezza e al centro c'era un enorme tavolo con decine e decine di scranni. Un arredamento assai poco consono al tipo di funzione che la stanza doveva svolgere. In passato probabilmente era servita ad altro. Sul tavolo erano ammonticchiate cataste di cose, ma sembrava esserci una logica. Si avvicinò alla prima montagnetta e trovò diversi monili. Ne prese un paio, quelli più grossi. Servivano per il suo piano di sicurezza. Più in là trovò una catasta di lettere. Non sembravano molto vecchie. L'orribile idea che i reperti troppo vecchi venissero distrutti si affacciò nella mente della ragazza, ma cercò di scacciarla subito per non scoraggiarsi. Trovò le cose più strane. Cataste di armi seguite da cataste di specchi seguite a loro volta da cataste di gioielli.
Kaila girò distrattamente intorno al tavolo alla ricerca di un qualche registro nella speranza che tutto ciò che veniva riposto in quella sala fosse accuratamente archiviato. Non trovò nulla di simile, ma aggiunse alla sua collezione un paio di stiletti in oro e un bellissimo ferma-capelli in argento.
Mentre si aggirava tra i vari mucchi di roba sempre più sfiduciata, Kaila sentì un calore enorme venirgli dal petto. La luminosità del ciondolo iniziò a risplendere anche attraverso il mantello nero. Stava vibrando, come d'eccitazione. L'aveva trovato. Il diario e la chiave si chiamavano a vicenda. In una catasta di libri vide un leggero bagliore argenteo. Ci si precipitò come un avvoltoio e iniziò a rovistare tra i volumi. Ce n'erano di tutti i tipi e su ogni argomento. Alcuni erano ricettari di cucina, altri erano registri contabili. In fondo c'era un piccolo quaderno con una copertina argentea che risplendeva fioco alla luce delle lanterne. C'era sopra il disegno stilizzato di una città costruita su una nuvola. Di fianco pendeva un lucchetto molto piccolo. La serratura era appena accennata. Perfetta per la sua chiave. Kaila lo prese al volo insieme ad altri due volumi a caso. Era fatta. Ora doveva andarsene.

Saltare dalle finestre della reggia poteva essere rischioso. Un balzo del genere poteva non passare inosservato. Kaila uscì dalla finestra più a nord. Salì sul cornicione e richiuse la vetrata dietro di se. Accanto a lei si ergeva una colonna in granito che andava da terra fino alla base del frontone triangolare che sovrastava l'intera struttura e che riportava un bassorilievo con gli stemmi della Stirpe di Hoen e del Gran Consiglio dei Maghi. La colonna aveva delle scanalature a spirale che permisero a Kaila di scendere a terra senza eccessivo sforzo e senza essere notata. Da lì la via fu semplice. I lampioni ormai spenti e il cielo completamente scuro nascosero la fuga della ragazza tra le vie dell'alveare. Kaila sentiva la felicità montarle dentro quando, voltando un angolo, si trovò di fronte due armigeri. Cavolo, non se n'era accorta. Erano gli stessi della mattina precedente, quelli che sonnecchiavano davanti alla porta. Non sembrava l'avessero riconosciuta e il cappuccio continuava a proteggere la sua identità. Il fagotto che la ladra portava con se però non passò di certo inosservato.
Kaila iniziò a correre a più non posso, non avrebbe fatto in tempo a recuperare il suo sacco. Se ne sarebbe occupata l'indomani. Forse però poteva fregare i suoi inseguitori.
Si infilò nella torre di nord-est che i due armati le erano ancora alle spalle. La scalinata rotta li rallentò ma non li fermò. Arrivata all'altezza delle mura Kaila iniziò a correre verso sud ma fece in modo di non seminare i suoi inseguitori. Quando questi le furono addosso lei con un balzo oltrepassò il parapetto e fu libera nel vuoto. Increduli, i due armigeri fissarono la sua caduta finché la lanterna che portavano con loro glielo permise. Kaila non seppe cosa ne conseguì, però il giorno dopo ci fu un gran vociare per le strade della città. Tutti parlarono di un ladro possente. Un uomo mascherato che aveva derubato gli archivi della città ma che, quasi acciuffato da due valorosi guerrieri, aveva scelto la strada del suicidio. No, il corpo non era stato ritrovato e no, non si sapeva come avesse fatto ad entrare. Nessuno seppe che fine avesse fatto la refurtiva e in cosa consistesse di preciso. Tutti però erano concordi sul fatto che se non fosse terminato in tragedia, quello sarebbe stato il furto del secolo.