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mercoledì 26 gennaio 2011

Incontri

 Il fatto che uno si trovi a dover affrontare una situazione straordinaria -e per straordinaria si intende solo qualcosa che esca dall'ordinario, niente di più- non significa che automaticamente quel qualcuno sia in grado di sopportarne lo stress.
 Ragioniamo un attimo sulla cosa. Siamo finiti in chissà quale modo su chissà quale mondo che per una qualche strana ragione assomiglia ad una versione riveduta e corretta del nostro periodo medievale. Dove creature mitologiche e credenze popolari antiche sono la normale realtà. Dove la gente va in giro con arco e freccia e prende di mira i primi sprovveduti che hanno l'ardire di teletrasportarsi qui. Sì, ho detto 'teletrasportarsi'. Già perché pare sia questo il sistema con il quale siamo arrivati qui -ammesso che questo 'qui' esista realmente- perché assomiglierà in tutto e per tutto al medioevo, ma qui la gente si teletrasporta -oltre ovviamente a girare con i suddetti archi e con le suddette frecce. Lasciate che lo ripeta: la gente si teletrasporta. Ehi Enterprise, qui ce ne sono 5 da teletrasportare... una cosa del genere, solo senza l'astronave strafighissima e senza i pigiamini colorati imbarazzantissimi. Alla fine è così che uno si immagina il teletrasporto. Una pedana, una console, lo sfigato di turno che preme un pulsante, la nebbiolina dorata a forma di tubo -et voilat- ti trovi a mille miglia dalla superficie terreste. E invece no, siamo ancora sulla superficie, ma non la nostra cara, vecchia e inquinata superficie. No, siamo 'qui' dove la gente ti tira le frecce, si trasforma in lupi o appicca il fuoco con la sola imposizione delle mani.
 Uno potrebbe chiedersi quale sia la connessione tra queste cose -ed è quello che sto cercando di fare- ma al massimo riuscireste a cavarne un mal di testa colossale. La cosa assurda è che il fuoco non lo appicca uno stregone canuto col cappello a punta e il bastone di legno in mano, bensì il mocciosetto che fino all'altro ieri tenevo con la testa infilata nello scarico del cesso.

 Che poi su questo punto bisogna spenderci un paio di parole. Elliot è un ragazzino fortunato di quelli che hanno una famigliola perfetta con una casetta perfetta con sul vialetto parcheggiata una macchina perfetta. Niente di più diverso da me e da quella che è la mia vita domestica. Me ne rendo conto solo ora che alla fine la cosa che più mi dava urto in quel ragazzino era la sua totale e inconsapevole tranquillità. Quella felicità semplice e quasi indesiderata che a me non è stata concessa. Una famiglia come la sua la si trova di solito con la faccia stampata sulle cartoline di benvenuto nelle città o sulle brochure delle agenzie immobiliari -e guarda caso sua madre fa l'agente immobiliare.
 Alla fine Elliot non è tanto diverso da me, solo che la vita non l'ha messo nelle condizioni di essere in grado di gestire una situazione del genere. E qui torniamo all'incipit del capitolo: come fa una persona normale a gestire una situazione anormale? La risposta è semplice: non lo fa! Il più delle volte esplode, e non nel senso che da fuoco al primo bosco che gli capita sottomano. No, quello diciamo è più un effetto collaterale. Uno esplode coi nervi. Cede. Si dispera in maniera insensata. E già che c'è fa esplodere altra roba. Ecco, crisi di nervi e super-poteri sono cose che non possono andare a braccetto. Ve lo immaginate Superman che perde il senno perché imbottigliato in mezzo al traffico? Ci avevano anche fatto un film su una super-eroina che veniva scaricata dal fidanzato e dava di matto... Ecco, diciamo che è il caso di evitare una situazione del genere.
 Ok ok, lo ammetto, un minimo mi sento in colpa. Non che sia del tutto colpa mia se siamo finiti qui, ma tutto sommato esiste la remota possibilità che la mia irresponsabile avventatezza possa averci condotti qui. In un certo senso mi sento responsabile della vita di questi miei compagni improvvisati. E' per questo che mi sono dato tanta pena per salvare Lara e perché farò di tutto per andare a salvare quell'idiota di Peter che si è fatto rapire insieme al professore -idioti.

 Elliot ha bisogno di qualcuno che lo sorregga in questo momento. Un po' per evitare che diventi un pericolo per se e per chi gli sta intorno -ad esempio per me- un po' perché a conti fatti queste sue nuove abilità ci possono fare estremamente comodo durante la missione che stiamo per intraprendere. C'è bisogno di qualcuno che lo guidi e lo aiuti a scoprire e controllare il suo potenziale e quel qualcuno non può essere nessun altro se non io.
 Vivere in una situazione di costante allerta mi ha dato la capacità di comprendere le persone e le loro intenzione semplicemente guardandole. Nel mio zaino porto sempre l'occorrente per il pronto soccorso e per la 'sopravvivenza spicciola', ovvero quelle piccole cose che ti permettono di cavartela in qualsiasi situazione imprevista. Eredità di quella triste parentesi della mia vita in cui fui costretto a fare lo scout... ma su questo argomento stendiamo un velo pietoso.
 Questo è solo per dire che dalla vita mi aspetto sempre il peggio e cerco di farmi trovare preparato. Una dote di cui adesso abbiamo molto bisogno e che, insieme ai poteri di Elliot potrebbero tirarci fuori da questo impiccio -ammesso che esista un modo per cavarsela.
 Va bene, va bene. Non è questo l'unico motivo per cui ieri sera sono andato a trovare Elliot. E' che un po' lo sto rivalutando. Una volta superata la naturale repulsione per gli sfigati come lui, scopri che non è poi così malaccio. In realtà riesce anche ad essere simpatico. Certo, a modo suo, però potrei anche considerare l'idea di stringerci amicizia.
 Non sarebbe male per una volta avere al fianco una persona che stia con te per sua scelta e non per paura delle eventuali ritorsioni. Diciamo che potrebbe essere un piacevole diversivo.

 Ora, lasciando da parte tutti questi vaneggiamenti su Elliot e sui miei immeritati sensi di colpa, resta il fatto che c'è una missione da portare a termine e, non per ripetermi, ma qui la gente ti tira addosso le frecce. Quanto meno dalla nostra abbiamo i lupi che, a quanto mi dicono, sono temuti anche da queste parti. Inoltre con questi particolari lupi ci si può anche parlare, basta solo cercare di non ridere sulla loro statura, ma per il resto sono amabilissimi.
 Si sono costruiti questa città-fortezza al riparo dal mondo esterno per non dover convivere con la repulsione e l'odio che gli umani gli tributavano. In un certo senso mi sento anche troppo vicino a loro. Sarà forse per questo che mi trovo così a mio agio in mezzo a loro. Girando per il mercato, parlando con la gente, vagando per le vie del borgo... per la prima volta in vita mia mi sono sentito veramente a casa. Loro ci aiuteranno e di sicuro non ci abbandoneranno e, qualora non riuscissimo a trovare un modo per tornare a casa, penso che non mi dispiacerebbe rimanere a vivere qui. No! Ho promesso ad Elliot che lo avrei aiutato e ci avrei riportati tutti nel nostro mondo e, anche se fatte ad un idiota, le promesse vanno onorate.
 E poi c'è Kaila. Ok, non c'entra nulla col discorso, però da quando l'abbiamo incontrata ogni tanto mi ritrovo a pensare a lei senza alcun motivo apparente. In pratica si potrebbe dire che se siamo in mezzo ai guai sia colpa sua -a riprova del fatto che non dovrei assolutamente sentirmi in colpa- però ogni volta che la vedo mi si forma un nodo in gola. La stessa sensazione che si prova quando si mangia troppo di fretta e qualcosa ti si blocca a metà via tra la gola e lo stomaco. Tu di dai una serie di colpi furiosi sul petto, ma quel boccone non va né su né giù! Non ti stai strozzando, però senti quel fastidioso senso di oppressione dietro lo sterno che ti fa impazzire.
 Ti prende all'improvviso, senza che te lo aspetti. Tu sei lì che cerchi di spiccicare due parole e quelle ti muoiono in gola, ti si confondono, si perdono. Probabilmente quella ragazza penserà che sono un idiota, o peggio ancora, un timidone. Vorrei prenderla a pugni solo per il gusto di cancellare quel sorrisino imbarazzato che le si stampa sulla faccia ogni volta che rimaniamo in silenzio. Di occasioni ce ne sono state, ma puntualmente me ne sono rimasto lì impalato a fare il deficiente.

 Prendiamo ad esempio stamattina. Stavo cercando Holtz, il tipo che ci ha salvato dal novello Robin Hood che ci inseguiva, per chiedergli informazioni sul conto della magia. Ho promesso ad Elliot che lo avrei aiutato, ma sinceramente non avevo proprio idea di dove iniziare. Non avendo a disposizione un computer, e dubitando fortemente che comunque avrei trovato informazioni utili su Wikipedia, ho pensato di rivolgermi a qualcuno del posto che sapesse indirizzarmi. Insomma, chiedo in giro di questo Holtz e vengo indirizzato da un simpatico mercante verso l'ospedale -a proposito, se passate da queste parti e vi fermate a mangiare, lo Shurap è ottimo, ricorda molto il cous-cous, ma evitate come la peste il Rabilh... mai mangiato nulla di più orribile! Sa di pesce marcio infilato in un calzino usato da più di una settimana da qualcuno affetto da una grossa disfunzione alle ghiandole sudoripare. Non mi sono fermato ad indagare sulla ricetta.
 Arrivai all'ospedale in tarda mattinata. Rispetto alla sera prima c'era un via vai di gente incredibile e all'interno era possibile vedere lo stesso tipo di frenesia tipica di un pronto soccorso nostrano. Mi recai al banco dell'accettazione per chiedere di Holtz quando la porta che dava sui locali di ricovero si spalancò con una furia incredibile e una ragazza ne schizzò fuori. Ci misi un po' a riconoscerla per via del suo strano abbigliamento. Oddio, non che fosse strano, solo un po' inusuale. Evidentemente anche a lei i Nani avevano fornito degli abiti puliti, e lei li aveva persino indossati. Quasi d'istinto mi venne da chiamarla: "Ehi Kaila, dove corri?"
 Lei si bloccò all'istante e si voltò verso di me. In quel momento ho avuto come l'impressione che il mondo si spegnesse. Non del tutto, solo il volume. Come quando ricevi una telefonata e togli l'audio al film che stanno dando in TV per poter rispondere. Neanche mi accorsi che si stava avvicinando. O meglio, me ne accorsi, ma non credevo fosse reale. Era come se un faro illuminasse solo lei che camminava al rallentatore verso di me. Niente suoni, niente rumori, niente voci. Solo quegli splendidi occhi verdi e quel sorriso luminoso in una splendida cornice di capelli ricci e neri come la notte. Ok, sto decisamente male. Anche solo a ripensarla mi viene il magone. Mi si attiva il gene della poesia che di solito faccio di tutto per mantenere accuratamente spento. Ammettiamolo, Kaila è una bella ragazza. Forse a scuola ce ne sono di più carine, ma nessuna ha quel sorriso, quegli occhi e quello splendido incedere delicato... AAAAAHHHH! Stupido gene della poesia! Spegniti!
 Sta di fatto che una volta arrivata di fronte a me, il cervello mi è letteralmente andato in pappa! Ho cercato di parlare, ma credo mi siano uscite dalla bocca solo delle sillabe sconnesse e probabilmente sono anche arrossito. Che figuraccia!

 Alla fine riuscii ad articolare qualcosa del tipo 'hai per caso visto Holtz?' ma con in mezzo molte ma molte più consonanti e vocali buttate lì a casaccio. Quando nominai Holtz il suo sguardo si velò di tristezza e accennò a chinare il capo. Per un attimo pensai che la tremenda onta di averle arrecato tristezza andasse lavato col sangue -il mio sangue- ma per fortuna durò soltanto un attimo. Lei si riprese quasi subito e mi mostrò nuovamente il suo raggiante sorriso. Iniziò a parlarmi con quella sua voce melodica, i capelli corti che danzavano dolcemente sulla sua testa, le sue labbra carnose e vermiglie che si muovevano sinuosamente, i suoi occhi ambrati che mi fissavano con quel meraviglioso sguardo penetrante -ok, mi sono completamente arreso al gene della poesia, tanto non riesco a controllarlo. Ero completamente annientato da tutta quella bellezza che quando finì di parlare mi resi conto di non aver ascoltato neanche una parola di quello che aveva detto.
 Mi guardò intensamente come per chiedermi se avevo capito e l'unica cosa che riuscii a pensare era che se non le davo subito un bacio avrei rischiato di esplodere. Non la baciai -non sono ancora così perduto- né tantomeno esplosi. Biascicai qualcosa di incomprensibile che nella mia mente doveva suonare come un 'Ok, grazie!' così lei si sentì soddisfatta, mi salutò e se ne andò per la sua strada.
 Rimasi a fissare per qualche minuto il punto della porta dalla quale era uscita e alla fine riuscii a riprendermi. Tutte le funzioni neuronali tornarono a pieno regime e riuscii nuovamente a connettere i pensieri. Quello che ne uscì fuori fu: 'Cavolo, ancora non so dove trovare Holtz!'
 Mi voltai verso il tizio seduto dietro il banco dell'accettazione e gli chiesi: "Ehi amico, hai per caso sentito quello che mi ha detto la ragazza mora?" quello fermò la mano che scriveva freneticamente sul registro e lentamente alzò lo sguardo verso di me. Non che fosse possibile fare un paragone, ma se lo sguardo di Kaila era il Paradiso, quello del nano era l'Inferno. Mi fissò con un'aria imbronciata, seccata e annoiata allo stesso tempo. Il suo naso adunco sembrava indicarmi con fase accusatorio e alla fine, quando parlò, ogni lama sembrò un rasoio tagliente e arroventato: "Di un po', ti sembro forse una segretaria?"
 "Ehi, scusa. E' solo che... Ok, fai finta di niente"
 "Vedrò cosa posso fare"
 E con lo stesso identico movimento -solo in direzione contraria- abbassò di nuovo lo sguardo e riprese a scrivere.

 Passai quasi tutto il giorno a vagare per la città, ogni volta che abbassavo lo sguardo e cercavo di non pensare a nulla, il bel visino di Kaila mi si formava in mente. Ma si può? Mi sentivo -e mi sento- veramente ridicolo.
 Comunque, tornando ad Holtz, alla fine lo trovai, beh, più che trovarlo gli sono letteralmente inciampato addosso. Ero come al solito perso nei miei pensieri -e quindi sistematicamente pensavo a Kaila- quando da un angolo mi sbuca davanti guardando dall'altra parte e mi arriva diritto addosso. Anche lui stava cercando me, voleva informarmi della riunione che si terrà stasera e mi chiese di avvisare anche Elliot. Elliot... uhm, mi dice qualcosa questo nome... Non è una battuta, li sul momento mi ero proprio dimenticato del perché stessi cercando Holtz. Continuavo a vagare per il borgo cercandolo solo perché quello era l'unico pensiero al di fuori di Kaila che riuscissi a focalizzare.
 "Senti, a proposito di Elliot, ti volevo chiedere alcune cose."
 "Dimmi pure" fece lui "cosa gli è successo?"
 "Beh, non è che gli sia proprio successo qualcosa, anzi, sarebbe più corretto dire che è lui che fa succedere delle cose."
 Il cervello non mi era ancora tornato del tutto in funzione, e quindi vedevo la faccia perplessa di Holtz mentre io cercavo di raccapezzarmi tra i miei pensieri confusi.
 "In che senso fa succedere delle cose?" mi chiese. Aveva uno sguardo molto paziente. Sembrava una persona estremamente matura, nonostante mi arrivasse a stento all'altezza delle spalle.
 "Beh, cose... cose magiche... tipo accende il fuoco" e qui penso di essermi giocato ogni parvenza di serietà perché Holtz iniziò a guardarmi come io di solito guardo la mia bisnonna. Non è che abbia nulla contro nonna Becka, solo che ormai si è completamente rimbambita.
 "Capisco, accende il fuoco, questa è una dote decisamente notevole, ma in che modo potrei esserti utile?"
 "No no, non mi hai capito, non è che accende il fuoco come fanno gli scout -Non sai cosa siano gli scout? Sei una persona estremamente fortunata- comunque lo accende col pensiero... per magia" ecco la parola che che proprio non mi veniva in mente... Magia. "Si insomma, da quando siamo arrivati Elliot sa usare la magia."
 Questa mia ultima affermazione deve avermi fatto riguadagnare qualche punto, perché Holtz tornò ad essere serio.

 "Beh, questo è abbastanza insolito. Vi verrà spiegato meglio stasera, ma voi in teoria non dovreste essere in grado di utilizzare la magia. Cos'ha fatto di preciso?"
 "Beh, ieri ha fatto esplodere un vaso nella sua stanza e ieri notte ha appiccato l'incendio oltre il quale ci siamo incontrati, ah, e credo sia stato sempre lui a teletrasportarci qui" Holtz iniziò a sembrarmi decisamente preoccupato così mi sentii in dovere di rassicurarlo "Però adesso lo controlla, o meglio. Lo controllicchia. Adesso riesce ad accendere le candele solo avvicinando la mano allo stoppino. Abbiamo fatto pratica per tutta la notte."
 Si grattava il mento. Classica posa di chi sta riflettendo. Alla fine sembrò giungere ad una semplice conclusione. "Beh, tralasciando la parola 'impossibile' che con voi sembra essere quantomai inappropriata, devi sapere che la magia è una sorta di energia che fa parte della natura. A volte, alcune persone particolarmente dotate, sono in grado di domarla quasi istintivamente. Mettiamo che questo sia il caso di Elliot, allora sarà in grado di gestire una piccola quantità di incantesimi elementali" prese un attimo fiato per vedere se il concetto aveva un qualche significato per me e, no, non ce lo aveva, quindi continuò con la spiegazione "per elementali intendo quegli incantesimi basilari che partecipano delle energie degli elementi -acqua, aria, fuoco e terra- quindi si, potra accendere fuocherelli, congelare pozzanghere o cose simili, ma dovrà imparare a controllarsi..."
 "Oh, a questo ci penso io..." risposi tutto entusiasta, ma poi mi resi conto che non mi aveva fatto nessuna domanda e che io mi ero limitato ad interromperlo "...scusa, continua".
 "Dicevo, che dovrà imparare a controllarsi, ma se vorrà progredire, dovrà imparare anche le formule magiche. Qui in città ci sono diversi stregoni a cui..."
 "Non ce ne sarà bisogno" lo interruppi di nuovo. E' che la mia soglia di attenzione per i discorsi troppo lunghi scema dopo pochi secondi. "Le formule ce le ha già".
 "In che senso 'le formule ce le ha già'?" mi chiese incuriosito
 "Beh, non so come spiegarlo, ma ogni tanto, quando siamo in situazioni particolari, è come se perdesse il controllo, inizia a parlare in una lingua strana e poi succedono delle cose... cose magiche ovviamente".
 "Ragazzo mio, se già il fatto che il tuo amico sappia usare la magia è strano, quello che mi dici ora rasenta l'assurdo. Sarà bene parlarne con il consiglio stasera, loro sapranno aiutarlo meglio di quanto possa fare io".

 Detto questo semplicemente se ne andò senza voltarsi. A pensarci adesso mi pento fortemente di avergli raccontato quelle cose. Non vorrei aver condannato Elliot ad essere un fenomeno da baraccone o, peggio ancora, una cavia da laboratorio.
 Finora ci sono stati tutti molto vicini, sono stati amichevoli e ci hanno aiutato in tutti i modi, quindi esiste la possibilità che Elliot non sia in pericolo e che, anzi, sia capitato nel posto giusto, ma credo che lo scopriremo solo stasera. Una riunione con tutti gli anziani del villaggio. Suona molto serio come avvenimento. Sarà un problema perché dubito fortemente di riuscire a mantenere la serietà e l'obiettività di cui avrò bisogno. Non che abbia problemi a parlare in pubblico, di solito quando parlo la gente mi ascolta attenta e in silenzio, ma di solito non c'è Kaila al mio fianco.


giovedì 9 dicembre 2010

Hangwick



La pioggia può essere un'amichevole compagna di viaggio. Kaila iniziò ad apprezzare il ritmico sottofondo delle gocce che rimbalzavano sulla tettoia improvvisata costruita da Felz. Il loro viaggio era iniziato ormai da diverse ore, ma ancora non avevano raggiunto le pendici del monte Hoen. A vederlo dall'alto, quel mondo fatto di campi, foreste e corsi d'acqua sembrava così piccolo e irraggiungibile. Sul primo punto Kaila dovette ricredersi. Man mano che si avvicinavano cominciava ad avere l'idea delle immensità che le si paravano di fronte. Sul secondo punto, beh, dopo cinque ore di viaggio ancora non riuscivano a venire a capo di quegli interminabili tornanti, quindi sì, era decisamente irraggiungibile.
Le continue curve a gomito che si alternavano sotto le lente ruote del carro avevano iniziato a dare la nausea alla ragazza. Ad ogni tornante incontravano nuove fattorie, nuovi campi, nuovi profumi. Come la città di Elengar, anche l'intera montagna sembrava un immenso alveare dove le operose api procedevano nel loro incessante lavoro. La pioggia stava rendendo la strada impervia. Placidi rigoli d'acqua ghermivano la pigra terra battuta del sentiero trascinando a valle detriti e ciottoli. Ad ogni tornate piccole cascate si univano a formare quello che sembra un leggero torrente del colore del cioccolato. Quello allungato con il latte appena munto dalle mucche. Una prelibatezza che

nei giorni di festa
Ivan preparava per i figli sciogliendo in acqua calda quei pochi blocchi di cioccolato che riusciva a permettersi al mercato. Una bevanda tanto gustosa da rendere le fredde serate invernali più sopportabili.

Una leggera sensazione di fame colse Kaila all'improvviso. Non era esattamente fame. Qualcosa di più inusuale. Era golosità. Da giorni aveva come questa strana voglia di cose estremamente dolci. Ogni volta che il sorriso gentile tornava a far visita nei suoi sogni, al risveglio sentiva il richiamo della dispensa. Quella più in alto. Era lì che Ivan nascondeva le poche leccornie che entravano in casa. Le abitudini erano dure a morire, e il fatto che ormai sia Kaila che Felz fossero abbastanza alti da raggiungere quegli sportelli non aveva spinto l'uomo a trovare un nuovo nascondiglio per i dolciumi. Eppure non era il cioccolato ad attirarla. No, quello per tradizione si mangiava durante l'inverno con il latte caldo. Non avrebbe avuto lo stesso sapore preso così, senza tutto quel contorno familiare che rendeva le serate di festa tanto speciali. L'attenzione di Kaila veniva attratta dalle ciliege. Quelle sotto zucchero che lei e Felz preparavano in agosto, dopo la raccolta.

Era stata sua madre ad iniziare quella tradizione e Kaila trovava che il rito della preparazione delle ciliege fosse come un piccolo legame che la riportasse tra le braccia di quella donna da cui era stata separata troppo presto. E poi era troppo divertente stare lì ad aspettare il concerto di schiocchi che veniva dai tappi di latta una volta che il sole aveva sciolto tutto lo zucchero presente nel barattolo. Una volta Ivan le disse che quello era un vero e proprio sigillo. Come quelli che gli stregoni applicano alle magie per imporvi la loro volontà.

L'uso dei sigilli era una delle materie considerate più importanti tra quelle insegnate alla scuola di magia di Elengar. Kaila non riusciva a coglierne il fascino, pensava fossero solo una cosa buffa. Una superstizione. Eppure quel rito delle ciliege la mandava in estasi. Forse era quella la vera magia che si nascondeva dietro ai sigilli.



Aprì il suo grosso fagotto e ne trasse fuori un barattolo di ciliege. Era grande, ma era pieno solo a metà. Ultimamente il sogno del sorriso gentile si era ripetuto spesso. Allo sguardo perplesso di Felz, Kaila rispose con un sorriso imbarazzato. Si sentiva come quando da bambina veniva colta sul fatto mentre faceva qualche marachella. Il fratello però doveva trovare quello sguardo estremamente tenero, perché scoppiò a ridere e accarezzo la ragazza tra i capelli con affetto. Alla fine Kaila riuscì a vedere il mondo al di fuori dei confini del monte Hoen. Il barattolo no. L'ultimo tornante disse addio alle ultime ciliege pescate dai due affamati e golosi fratelli.

Il calore che quel succo provocava scendendo giù per la gola sciolse il ghiaccio che attanagliava l'animo della ragazza Evidentemente anche la lingua doveva essere in qualche modo congelata, perché man mano che le ciliege nel barattolo diminuivano, le chiacchiere tra i due aumentavano. Kaila iniziò a sentire la testa leggera, scevra da ogni tipo di preoccupazione. Un nuovo mondo si stava aprendo davanti ai suoi occhi e lei sentiva la necessita di assaporarne ogni singola goccia. Le domande si formavano da sole nella sua mente e lei non faceva nulla per trattenerle. Così iniziò a chiedere informazioni su ogni fattoria che incrociavano. Scoprì che in realtà non era necessario avere un bell'appezzamento di terra per poter coltivare in montagna. Molte fattorie infatti avevano grossi frutteti, altre invece si limitavano ad allevare animali. Quello che andava per la maggiore era l'ulivo. A quanto diceva Felz questo tipo di albero cresceva anche nelle condizioni più avverse e l'olio che se ne ricavava si vendeva molto bene e sul pane era un vero e proprio dono del cielo. Kaila rimase sorpresa del fatto che la loro fattoria fosse l'unica a coltivare il luppolo. A quanto pareva bisognava allontanarsi parecchio per trovare altri produttori di questa pianta così particolare. Questo aveva reso negli anni i loro affari molto prosperi.



La strada iniziò a stiracchiarsi abbandonando la monotonia dei tornanti. Il pendio si fece meno scosceso. Le fattorie diminuirono. Presto il percorso iniziò ad essere affiancato da grandi alberi con enormi chiome che formavano una sorta di galleria verde che forniva un minimo di riparo dalla pioggia. Il tamburellare incessante della pioggia divenne aritmico e il carro accelerò il passo. Erano finalmente giunti a valle. Felz identificò i grandi arbusti come castagni. Kaila adorava le castagne, ma non aveva mai visto da dove arrivassero. Si sporse dal carro per raccogliere un frutto da terra. "Ahi!" una piccola goccia di sangue si disegnò su uno dei polpastrelli della sua mano. "Quello è un riccio, fai attenzione perché punge. Se lo apri dentro dovresti trovare due o tre castagne" disse Felz. "Potevi dirmelo prima, ormai mi sono punta" rispose seccata Kaila mentre si succhiava la punta dell'indice. Felz scoppiò a ridere di cuore. Una risata contagiosa che alla fine riportò anche Kaila di buon umore. "Ho imparato qualcosa! D'ora in poi le castagne lascerò che sia tu a venirle a raccogliere" riprese la ragazza facendo la linguaccia al fratello.

Il viaggio continuò lieto e tranquillo verso est per tutto il pomeriggio. I due consumarono il pranzo a bordo del carro. Kaila aveva preparato il pane quella mattina e ne aveva portato con sé mezzo filone. Con un po' di cacio e qualche fico secco sconfissero la fame. Con un sorso di birra fecero strage della sete e della lucidità. Iniziarono a ridere per ogni sciocchezza. Kaila quasi cadde dal carro per le risate quando una farfalla si appoggiò tra i crespi capelli castani del fratello. Felz invece di scacciare l'insetto iniziò a schiaffeggiarsi la nuca. Era arrivato il momento di fermarsi, altrimenti sarebbero finiti dentro ad un fosso prima di riuscire a rendersene conto.

Col passare delle ore la pioggia si calmò. La luce iniziò a scemare. La stanchezza iniziava a farsi sentire. Un gruppo di case comparve all'orizzonte. Non c'erano locande, le uniche coseche avevano era un recinto di animali ed una grande stalla. Chiesero ospitalità per la notte e gli furono concesse un paio di balle di fieno nella stalla da dividere con le avide mucche. Mentre Felz asciugava i cavalli, Kaila accese un piccolo fuocherello e iniziò a scaldare un po' d'acqua. Aveva con se fagioli secchi e cipolle. L'odore della zuppa si sparse per tutto il piccolo villaggio e in poco tempo i musi bavosi delle mucche furono sostituiti dai musi sbavanti degli abitanti. Kaila abbrustolì un po' di pane e qualcuno portò un po' di olio da versarci sopra. In breve fu allestito un piccolo banchetto. Felz aprì uno dei barili di birra che avevano sul carro e la festa ebbe inizio. Continuarono a cantare e a danzare fino a notte fonda. Il cielo si rischiarò e qualche stella fece capolino. Quello che dapprima era un fuocherello si trasformò in un falò e tutti intorno iniziarono a raccontare storie e aneddoti di vita vissuta.

Man mano che la birra si faceva strada nel loro sangue, le storie diventavano sempre più surreali. Quando Felz disse che erano diretti ad Hangwick tutti trasalirono e iniziarono a narrare storie di stregonerie e di mostri. Di fantasmi di luce e di lupi dalle sembianze umane. Kaila scoppiò a piangere a forti singhiozzi terrorizzata. L'alcol le faceva immaginare cose incredibili. Quando fuori dalla porta della stalla vide delle figure muoversi nell'ombra si rintanò tra le braccia del fratello. "Tranquilla, è solo il vento che muove gli alberi".

Alla fine tutti tornarono alle proprie case. Una coppia di anziani signori invitò i due giovani forestieri a dormire nella loro umile dimora. Dopotutto si sentivano un po' in colpa per aver spaventato la ragazza, e poi volevano sdebitarsi per la bella serata. Felz accettò l'invito e si caricò in braccio la sorella ormai pesantemente addormentata.



Il viaggio riprese al mattino di buon ora. La gentile coppia che li aveva ospitati offrì loro la colazione. Kaila però non riuscì a mangiare quasi nulla. Aveva un mal di testa lancinante. Sentiva di avere qualcosa in mente, ma non riusciva ad afferrarla. Come sigillata. Eppure doveva essere una cosa importante. Il sole era tornato l'unico proprietario del cielo. La luce forte ferì gli occhi sensibili della ragazza che dovette affondare il volto tra le mani per proteggersi. Le ci volle un po' per abituarsi. Alla fine però riuscì ad ammirare lo spettacolo. Una sterminata pianura. I grandi campi di grano ormai mietuto si estendevano a perdita d'occhio. Neanche un filo d'erba interrompeva il profilo piatto di quei campi. Solo la montagna di Hoen si ergeva ad infrangere quell'armonia. Kaila riuscì solo a pensare che le mancavano i castagni.

La marcia lenta del carro cullò la ragazza facendola sprofondare in ripetuti sogni agitati. Vedeva delle figure che si agitavano trasformarsi in lupi che poi la aggredivano. I sogni la spaventavano al punto che cercò di tenersi sveglia in ogni modo. Felz ad Hangwick c'era già stato, quindi si fece raccontare com'era. Aveva uno strano interesse per le locande, la ragazza voleva sapere quante ce n'erano e quanto costavano. Kaila non aveva mai dormito fuori casa e l'idea di pagare per un alloggio le faceva strano. D'altra parte però voleva organizzare una cosa simile all'interno della birreria, quindi cercò di capire cosa comportava e quanto ci potevano ricavare. Molte delle idee di successo che avevano messo in pratica nella taverna erano nate dalla mente di Kaila, quindi Felz non tralasciò nessun particolare. Le descrisse le vie dell'antico borgo, le raccontò dove avevano alloggiato e mangiato. C'era una buona birreria che faceva una particolarissima birra 'affumicata'. Era una birra chiara semplice al singolo malto. Di grano a giudicare dal retrogusto. Però al termine della fermentazioni mettevano le botti nelle stesse camere di affumicazione usate per produrre lo speck e il provolone. Una volta terminato il processo la birra risultava imbrunita e aveva un aroma molto particolare. Sapeva di inverno e di casa. Di focolare e di famiglia. Dava uno strano senso di nostalgia e di benessere. E inoltre faceva venire una voglia matta di salsicce.



Al calare del sole si trovarono nei pressi del fiume Koar. Da lì veniva la terra che aveva dato vita alla loro fattoria. L'inconfondibile odore di limo le fece venire nostalgia di casa. Felz decise di accamparsi sulla riva del corso d'acqua. "Domattina attraverseremo il ponte e devieremo verso nord. Se tutto va bene entro sera saremo ad Hangwick". Kaila era ansiosa di arrivare in quella che sarebbe stata la prima città oltre Elengar che avesse mai visto. Quell'aroma di terra bagnata però la rapì completamente e quasi andò a tuffarsi nelle gelide acque del fiume. "Dove corri, guarda che fa freddo!" Felz la guardava correre lungo la riva con dolcezza. Assaporava ogni singolo istante che passava con la sorellina. Kaila dovette accorgersene perché lo chiamò a gran voce "Dai, vieni a prendermi se ci riesci!" I due corsero a perdifiato lungo l'argine e alla fine si sdraiarono a terra esausti. Le prime stelle della sera iniziavano a penetrare l'azzurro del cielo.

"Pensi mai alla mamma?" Kaila interruppe il silenzio affannoso col suo sguardo malinconico. Felz si mise su un fianco per poter guardare la sorella negli occhi. Una falce di luna si rifletteva nei suoi occhi dorati. "Ogni sera" rispose dopo un po'. "Raccontamela" fece Kaila illuminandosi "Beh, hai visto il ritratto del papà. Era più o meno così" rispose confuso il ragazzo. "No, no. Voglio sapere com'era lei. Che tipo era." Felz si sdraiò di nuovo con aria pensosa. "Una volta, da bambino, scappai di casa perché avevo litigato col papà. Non ricordo il perché ma on feci molta strada, avevo 5 anni. Mi andai a nascondere nella cantina. Piansi tutta la notte e finii per addormentarmi. Quando mi svegliai la mattina seguente, accanto a me trovai un involto. C'erano dei biscotti alle mandorle freschi. Li aveva fatti quella notte" la voce si interruppe infrangendosi nella commozione. Gli occhi del ragazzo si inumidirono. Il verde delle sue iridi si fece più intenso. Felz riprese fiato e si voltò di nuovo verso la sorella. "Lei era così! Sapeva sempre capire di cosa avevi bisogno! Aveva un animo gentile e generoso. Riusciva sempre a trovare il modo di farti tornare il sorriso."

Tra i due tornò il silenzio. Tornarono a fissare le stelle che man mano diventavano più vivide. Un alito di vento si alzò ad agitare l'erba intorno al greto del fiume. "Dai, torniamo al carro, altrimenti ci prendiamo un malanno". I due accesero un fuoco e passarono la serata a raccontarsi vecchie storie. Kaila era avida di ricordi della madre. Felz le raccontò ogni evento che gli veniva in mente mentre lei rideva e piangeva al contempo. Era felice e nostalgica. Si addormentarono che il fuoco ancora non si era spento. L'uno accanto all'altra. Coperti dalla stessa enorme trapunta. I sogni di Kaila tornarono ad invaderle la mente. Rivide il sorriso gentile, ma stavolta un velo di preoccupazione incrinò quella luce. Trasalì e si svegliò.

Era già mattino e Felz stava arrostendo delle pannocchie sul fuoco. "Buongiorno dormigliona" Kaila era agitata, ma la vista del fratello la calmò. Mangiarono in fretta e si rimisero in marcia. C'era qualcosa che le sfuggiva, ma neanche in quel momento riuscì a capire cosa. Fu una giornata particolarmente silenziosa.



Hangwick era un piccolo borgo nato ai piedi di una piccola collina di querce. Si dice che un tempo fosse la dimora dei novizi del Consiglio. Qui i più giovani aspiranti maghi venivano ad allenarsi e a completare i loro studi. Le mura della città erano composte da enormi blocchi di pietra estratti da una delle tante cave che infestavano il monte Hoen. Le case piccole erano sovrastate da altissimi tetti coperti da tegole in terracotta rossa. Questo dava alle abitazioni un aspetto a fungo. Non un bel porcino succoso, più un ovino rinsecchito. Di quelli che rimangono un po' duri a mangiarli crudi. Le strade erano completamente lastricate in pietra. Strade larghe, non quella specie di cunicoli che si trovavano ad Elengar. Quelle di Hangwick si potevano chiamare 'strade' senza il timore di essere presi in giro. Grossi lastroni piatti ne ricoprivano il manto. Avevano giusto una leggera pendenza verso entrami i lati della strada, dove due canali di scolo permettevano alle acque piovane di defluire silenziosamente senza lasciare tracce.



Tutto era pietra e terracotta. Ne un aiuola, ne un fiore. Non c'era la benché minima traccia di natura in quel borgo che trasudava antichità.

Da quel che narra la leggenda pare che la città fosse stata costruita da una comunità di nani -da qui le dimensioni tisiche delle case- che poi un bel giorno sparirono come neve al sole. Alcuni sostenevano che si fossero rintanati nelle gallerie sotterranee che infestavano la collina -anch'essa chiamata Hangwick- per nascondere un terribile morbo che li aveva affetti. Sta di fatto che su alcuni dei lastroni di pietra, ormai consumati da secoli di carovane e cavalli, si vede ancora oggi raffigurato lo stemma di un'ascia che incrocia una piccozza. Il marchio della comunità dei nani.

Kaila e Felz arrivarono nel tardo pomeriggio. Il pigro sole autunnale aveva già ceduto il passo alla più arzilla Luna. Una falce luminosa mieteva un cielo coperto di stelle. I due avevano viaggiato in silenzio e ininterrottamente tutto il giorno. Volevano assolutamente arrivare a destinazione. Quando Kaila vide le deboli luci della città si riaccese e il fiume di parole riprese incontrollato. Voleva assolutamente assaggiare la birra affumicata, ma non c'era tempo. Era tardi ed erano stanchi, inoltre Felz si sarebbe dovuto alzare all'alba il giorno dopo se voleva raggiungere Salingar prima del tramonto.

Alloggiarono nella locanda del Lupo Armato. Una buffa sagoma a forma di lupo vestito da armigero li accolse. Il padrone era un amico di Ivan, lì avrebbero avuto pasti caldi e letti puliti a buon prezzo. C'era anche una stalla privata che permetteva di mantenere al sicuro sia i cavalli che il prezioso carico che trasportavano. Fratello e sorella alloggiarono in due camere differenti. Cenarono controvoglia. Erano stanchissimi e deboli. Prima che il vociare dei commensali si fosse acquietato i due si erano già ritirati nelle loro stanze.

Kaila sprofondò in un sonno agitato. Si vide ghermita da un branco di lupi inferociti. Uno si stava avventando sul suo collo quando Kaila si svegliò scattando in piedi. Ancora ansimante si asciugò il sudore dalla fronte. Guardò fuori dalla finestra e vide delle figure muoversi. Gli venne istintivamente da pensare agli alberi che tanto l'avevano spaventata durante la prima sera di viaggio. Si rilassò al pensiero del fratello che cercava di tranquillizzarla. Si avvicinò alla finestra per guardare meglio. Si trovava al secondo piano della locanda, praticamente nel sotto tetto. Dalla sua camera aveva una perfetta vista della collina di Hangwick. Cercò di distinguere nuovamente quelle forme quando all'improvviso un enorme bagliore accese la foresta di querce che ricopriva la collina. Una luce intensa. Come un fulmine, però in mezzo agli alberi anziché tra le nubi. Kaila indietreggiò spaventata e andò ad inciampare nella sedia. Finì col sedere in terra tirandosi dietro la sedia.

Il rumore aveva svegliato Felz che si precipitò nella camera della sorella. "Che succede?" Gli occhi di Kaila erano spalancati, sembrava non essere in grado di articolare le parole. "C-ci sono i fantasmi!" Fu l'unica cosa che riuscì a dire. Felz si mise sdraiato accanto a lei e la abbracciò. "Tranquilla, è stato solo un brutto sogno. Adesso ci sono io qui con te". Il cuore di Kaila rallentò e si calmò. Si rilasso. I due rimasero per terrà finché le ossa non iniziarono a protestare furentemente. Alla fine si alzarono e tornarono nei rispettivi giacigli. La ragazza però passò la notte a fissare il soffitto.



Il mattino arrivò lentamente, tanto che Felz riuscì a batterlo sul tempo. Il ragazzo si era svegliato che l'alba ancora non era arrivata. Iniziò a prepararsi e chiamò la sorella. Kaila però non era in camera. Felz la trovò sul carro che infilava alcuni oggetti -la refurtiva- in una sacca da spalla. I due si salutarono in fretta. "Stasera torna qui alla locanda, io cercherò di ritornare domani in serata. Al massimo dopodomani. Fai attenzione nel bosco". Subito fuori le porte della città Kaila scese dal carro in movimento e si diresse verso la collina.

Quando il sole sorse Kaila era già protetta dai fitti rami delle querce. Grosse radici fuoriuscivano dal terreno creando come un enorme scalinata che rendeva la scalata più semplice. Alcuni scoiattoli scappavano da una parte all'altra rubando dal terreno qualche ghianda solitaria. La ragazza si fermò solo quando sentì le gambe cedere. Usignoli levavano il loro dolce canto in giro per il bosco. La stanchezza aveva fermato il suo passo, ma era ancora presto per liberarsi della refurtiva. Prese dal tascapane un barattolo di ciliege e ne mangiò alcune. Consumò metà della sua scorta di acqua per rinfrescarsi e lavarsi via la fatica. Trasaliva ad ogni rumore nel sottobosco. Aveva la sensazione paranoica che hanno tutti i fuggiaschi di essere seguita. Si voltava in continuazione per intercettare qualche sagoma, forma o movimento che potesse tradire un probabile inseguitore. Scoiattoli ed uccelli erano le uniche parti mobili di una natura statica. Neanche il vento osava inoltrarsi tra quegli alberi.

Riprese a camminare di buona lena e scalò il versante della collina per circa un'ora. Arrivò in una radura dove il sole riusciva a fare breccia tra le fronde possenti degli alberi. Si voltò per cercare di vedere quanta strada aveva fatto. La radura era ampia e concedeva una visuale sulla città sottostante. Kaila colse i contorni di quella che era la sua locanda. Il Lupo Armato. Da una di quelle finestre aveva visto un lampo di luce esplodere nella foresta. Si trovava nei pressi dell'origine di quel fenomeno inspiegabile.
Voleva portare a termine la sua missione nel minor tempo possibile. Kaila iniziò a correre con quanta forza le rimaneva nelle gambe. Sentiva il peso della refurtiva sbattere sul suo dorso ad ogni passo. Voleva liberarsene. Doveva liberarsene. Con la coda dell'occhio vide un buco nel terreno. Era poco lontano dal sentiero, ma abbastanza lontano dalla luce del sole. Perfetto per nascondere quei pericolosi oggetti. Kaila deviò la sua corsa per raggiungere l'obiettivo. Si tolse la sacca dalle spalle mentre stava ancora correndo. Con un gesto veloce del braccio ne svuotò il contenuto in quella specie di pozzo. "Ahio!" Un lamento arrivò dal pozzo. Il cuore di Kaila perse un colpo. Rimase impietrita. Si era fatta scoprire.
Si affacciò lentamente e timorosa. "Chi c'è la?". Un ragazzo si stava massaggiando la tempia dove uno degli oggetti di Kaila lo aveva colpito. Si voltò a guardarla e le sorrise. "Ehi dolcezza, che ne dici di darci una mano?". Il sorriso gentile era alla fine arrivato.


sabato 27 novembre 2010

Tra Sogno e Realtà

I sogni sono da sempre un argomento strano. In teoria tutti sognano, è un processo naturale con cui il cervello rielabora le informazione che ha incamerato. Di solito poi il risveglo provvede inesorabilmente a cancellarne il ricordo preciso, ma qualcosa rimane. Una sensazione. La traccia che i sogni lasciano nell'anima.
Ad Elliot non era mai rimasta nessuna traccia nell'anima. Dubitava persino della sua esistenza. Quando alle elementari una sua insegnante affidò alla classe un tema da scrivere sul loro sogno più bello, lui non riuscì a scrivere nulla. Il voto più basso della sua vita.
Quel giorno Elliot rimase basito non tanto dal suo voto, quanto dai temi dei suoi compagni. Raccontavano storie incredibili con dovizia di particolari. Molti probabilmente avevano inventato di sana pianta. Altri avevano semplicemente esagerato un po'. Eppure tutti avevano qualcosa da raccontare. Tutti tranne lui. Non che gli mancasse la fantasia, però non sapeva proprio da dove cominciare. Per inventare qualcosa bisogna avere delle basi, degli elementi su cui costruire la storia. Lui semplicemente quelle basi non le aveva. Elliot Summer non aveva mai sognato.
La cosa non lo aveva mai turbato più di tanto. Come tutte le persone che non riescono a fare qualcosa, aveva deciso che i sogni non erano poi tanto importanti. Quando con gli amici si finiva a parlare di sogni, semplicemente lui cambiava argomento. A volte cercava di nascondere l'invidia col sarcasmo. Prendeva in giro gli altri per la loro ignoranza, perché credevano che quei ricordi costruiti potessero avere un qualche significato.
Elliot si sentiva privato di qualcosa. Un elemento che legava tutti tranne lui. Probabilmente i suoi genitori avrebbero saputo trovare una spiegazione, però esisteva anche la possibilità che la cosa li facesse preoccupare più del necessario. Preferì quindi evitare di parlare con loro di questa sua mancanza. Ogni tanto si faceva passare sotto banco qualche sogno dal suo amico Peter, così da poterlo usare in qualche discorso. I suoi come al solito dimostravano un falso interesse in quello che raccontava, così lui capiva che era riuscito a dargliela a bere. Era riuscito a fargli credere di essere un bambino normale.

Il giorno in cui Anna, sua madre, aveva parlato a cena delle chiavi di Casale Spavento, qualcosa si era spezzato. La consuetudine si era interrotta. Elliot aveva sognato. Non era un grande esperto di sogni, eppure quello sembrava proprio un ricordo. Un ricordo molto sfumato, quasi sbiadito. Antico. Al risveglio non gli era rimasta solo la sensazione di aver sognato, ma il ricordo di ciò che era successo. Leggero come una piuma. Volatile. Eppure c'era. Un ricordo nuovo, non suo, ma pur sempre un ricordo.
Quella magia continuò a ripetersi ogni notte. Sempre lo stesso sogno. Sempre lo stesso ricordo. Ad ogni replica le immagini diventavano più nitide, i contorni meno sfumati, le sensazioni sempre più vivide. Quel singolo evento si radicò completamente nella memoria di Elliot. Ormai era impossibile distinguerlo da un qualsiasi altro ricordo. Pensandoci razionalmente sapeva di non aver mai vissuto un'esperienza simile, eppure quel ricordo era reale, forse anche più degli altri. Troppi dettagli. Troppe sensazioni. Non poteva esserselo immaginato.
Ricordava con precisione la forma di quella stanza. Una cupola sorretta da quattro archi incrocati che poggiavano direttamente sul pavimento. Non c'erano colonne a dare altezza a quella camera, c'era solo la cupola. Tutto era in marmo bianco. Elliot si sorprese a ricordare persino le nervature argentee che solcavano il bianco assoluto dei lastroni che ricoprivano le pareti. Otto in totale, otto spicchi di parete separati dai possenti archi.
La precisione geometrica di quella cupola era interrotta soltanto da quella che sembrava essere una porta. Un piccolo arco a sesto acuto poggiato su due esili colonne dava l'idea di un passaggio. Di qualcosa che doveva essere possibile attraversare. Pertanto stonavano un po' quei grossi massi di pietra squadrati posti a riempire quell'apertura. Elliot sentiva ancora nelle narici l'odore della malta fresca che era stata usata per tenerli insieme. Era evidente che chiunque li avesse fatti entrare, non voleva più farli uscire. Erano sigillati dentro quella prigione di marmo.
Elliot non era solo, c'erano altre persone con lui. Col tempo capì che erano tutti giovani, più o meno della sua età. Indossavano tutti la stessa tunica scura con il simbolo di una montagna sovrastata da una falce di luna. I grandi cappucci coprivano quasi per intero i loro volti, ma Elliot imparò a distinguerli uno ad uno. Le loro altezze, i loro occhi, la loro postura, persino la forma delle loro mascelle.
Erano tutti in piedi su quel pavimento fatto da grandi lastroni di pietra. Si erano disposti a circonferenza. Ognuno aveva davanti un piccolo falò che illuminava la stanza proiettando le loro inquietanti ombre sulle pareti circostanti. Stavano tutti intorno ad un enorme cilindro, anch'esso di pietra, che sembrava uscire direttamente dal terreno. Era poco più alto di loro e c'erano dei simboli strani incisi sopra. Un testo molto fitto in una lingua sconosciuta formava una stretta spirale che ricopriva tutta la superficie della roccia.
Nonostante sapesse che nella stanza ci fossero un totale di quindici persone compreso lui, dalla sua posizione Elliot riusciva a vederne solo otto. Erano tutti ragazzi tranne la persona che stava alla sua sinistra. La tunica abbastanza aderente tradiva le sue forme femminili. Il suo sguardo era spaventato ma, a differenza degli altri, non provava astio nei suoi confronti. Nell'unico istante in cui i loro occhi si incrociarono gli concesse anche un abbozzo di sorriso.

Si presero tutti per mano formando un cerchio perfetto. Erano tutti terrorizzati. Anche Elliot sentiva quel bruciore alla bocca dello stomaco. Quella sensazione di ansia che ti toglie il respiro. Eppure in lui c'era anche qualcos'altro che col tempo identificò come senso del dovere. C'era anche una punta di orgoglio. Piccola, insignificante e sommersa dal terrore, ma c'era. Fu proprio quella piccola scintilla in fondo al suo cuore che gli diede la forza di alzare lo sguardo verso la pietra ed iniziare a leggere.
L'inizio del testo era proprio di fronte a lui e, cosa inspiegabile, si rese conto di essere in grado di capire cosa ci fosse scritto. Riusciva ad associare dei suoni, anch'essi incomprensibili, a quei simboli sconosciuti. Dalla sua bocca si levò una lenta litania che lasciava un sapore amaro sulla lingua. Man mano che andava avanti nella lettura, si accorse che la pietra aveva inizato una lenta rotazione su se stessa che gli permetteva di avere sempre cose nuove da leggere di fronte a se. Quando l'inizio del testo passava davanti ad uno dei suoi compagni, anche questo iniziava a leggere. Quindici litanie tutte uguali, con la stessa cadenza e con la stessa velocità, ma ognuna sfasata dalle altre di pochi secondi. Tutte quelle voci insieme si mischiavano rendendo le parole ancora più incomprensibili.
Ogni volta che terminavano di leggere, ricominciavano da capo. Ad ogni giro, la pietra accellerava la sua rotazione. Sempre più veloce. Elliot faceva quasi fatica a distinguere le parole sulla pietra, ma ormai le sapeva a memoria. Il canto continuava ininterrotto. Sempre più misterioso e terribile.
Un leggero venticello sembrò alzarsi nella stanza. I quindici falò iniziarono a bruciare con più intensità. Le fiamme divennero alte quanto i ragazzi che vi stavano di fronte. La legna si consumò completamente in pochi istanti. Le fiamme si spensero all'improvviso, ma la luce rimase. Sempre più forte. Intensa. Accecante. Grandi scariche elettriche avvolgevano il cilindro di pietra. La litania rimase costante ma venne coperta dal sibilo della pietra che strideva sul terreno.
Il cilindro era ormai un unico ammasso di luce. Sporadiche scariche si staccavano dal centro e andavano a colpire gli archi della cupola formando degli strani giochi di luce. Il volume della litania si alzò per sovrastare il rumore. Dal cilindro partirono quindici fasci di luce che colpirono in pieno petto i ragazzi. La luce divenne assoluta. Totale. Le coscienze si fusero in un unico agglomerato di energia. E poi più nulla. La luce sfumava. L'oblio sopraggiungeva. Maestoso e avvolgente. La sensazione di vittoria segnava il momento del risveglio.

Quella mattina l'inquietudine era più forte del solito. Elliot si sentiva nervoso. Irascibile. A colazione quasi non rivolse la parola a nessuno. Quando suo fratello Edward gli lanciò un giocattolo per attirare la sua attenzione, gli urlò con così tanta cattiveria che lo fece mettere a piangere. Quando Harry apostrofò il suo comportamento inappropriato, Elliot si limitò a bofonchiare delle scuse per poi alzarsi e andarsene.
Gli dispiaceva per come aveva reagito, ma non era riuscito ad evitarlo. C'era qualcosa di sbagliato in quella giornata che lo metteva a disagio. Sentiva l'adrenalina invadere il suo corpo. Era arrabbiato senza motivo. Quando il bulletto della scuola, quel Mallory, venne ad attaccar briga, Elliot sfogo tutta la sua rabbia. Assestò un pugno sulla guancia del ragazzo con tutta la forza che aveva in corpo. Provò un piacere immenso e sbagliato nel vederlo sputare un dente. Si sarebbe avventato anche su Coso e Cosetto se non fosse arrivato il professor Stevens a fermarlo.
Il suo odio silenzioso continuò tutto il giorno. Quando poi si ritrovò faccia a faccia con Mallory nell'aula punizioni non lo degnò neanche di uno sguardo. Il suo nervosismo gli permise anche di essere cinico e sarcastico con Lara, di solito era il contrario. Provò di nuovo quel piacere distorto ad umiliarla davanti al professore. Riuscì persino a strappare un mezzo sorriso a Mallory. E poi accadde. Gli altri discutevano animatamente su Casale Spavento. Decidevano se era il caso di organizzare lì la festa di Halloween, quando Lara e Mallory si misero a litigare. In un flash Elliot rivide la stanza. Le quindici persone. Sentì quella litania nelle orecchie. Chiuse gli occhi con forza per cacciare via quell'immagine. Nella sua mente regnava la confusione, ma una voce era distinguibile. Sovrastava le altre. Era sua madre. Un ricordo di un paio di settimane prima. Il giorno in cui i sogni erano iniziati, sua madre a cena aveva parlato di Casa Madison. Casale Spavento. Prima di addormentarsi il suo ultimo pensiero fu che aveva le chiavi di quella casa.
Evidentemente aveva ripetuto quel pensiero a voce alta, perché tutti si erano zittiti e lo fissavano. Mallory sembrava eccitato mentre Lara sorrideva un po' spaventata. Uscendo dall'aula Elliot fu raggiunto dal bulletto che non sembrava interessato a picchiarlo come suo solito. Voleva quelle chiavi e lui gliele avrebbe dovute fornire.

La sensazione di inquietudine si faceva più forte ogni minuto che passava. Corse dal suo amico Peter per chiedere aiuto. Aveva bisogno di sfogarsi. Aveva bisogno di sostegno. Tutta l'adrenalina che aveva in corpo si sprigionò nell'atto della corsa. Una volta raggiunto l'amico quasi vomitò l'anima, ma si sentì meglio. Più calmo. Più sereno. Da sempre Peter gli faceva quell'effetto. Si sentiva completato. Lui era quello impulsivo mentre l'amico era quello razionale. Si misero d'accordo per vedersi quella sera. Peter non sembrava molto felice all'idea, ma Elliot sapeva che non lo avrebbe mai abbandonato nel momento del bisogno.
Con l'animo meno agitato e la mente più lucida, si rese conto che sì, la madre aveva le chiavi, ma questo non significava che lui potesse prenderle a sua discrezione. Avrebbe dovuto sottrarle di nascosto. E questo significava altri guai. Inoltre in quindici anni non aveva mai fatto niente del genere. Mai una volta aveva deluso i suoi genitori. La sensazione di inquietitudine tornò più forte di prima.
Quella sera a cena non alzò lo sguardo dal piatto, si sbrigò a finire di mangiare e sgattaiolò in camera sua. Aveva appuntamento alle nove con Peter. Erano le otto passate e lui non aveva la più pallida idea di dove iniziare a cercare. Qualcuno bussò alla porta. Due deboli colpetti. Doveva essere Edward che come al solito era in vena di scherzi. Aprì la porta controvoglia. Il fratello era lì davanti, silenzioso. Aveva lo sguardo basso. Indossava ancora il suo bavaglino e teneva per mano un orsacchiotto poco più basso di lui.
Elliot si spazientì in fretta. Edward non sembrava intenzionato a proferire verbo. "Che cosa vuoi?" lo incalzò. Il piccolo alzò gli occhi verso il fratello maggiore. Era triste, sul punto di piangere. Sembrava sconvolto. Alla fine si decise a parlare stringendo a sé il pelouche che aveva portato "Te ne vai?" chiese con voce quasi disperata. "No, non vado da nessuna parte, adesso se non ti dispiace dovrei fare i compiti" rispose asciutto Elliot. "No, non è vero, tu te ne vuoi andare. Me l'ha detto il tizio col cappuccio" il cuore di Elliot perse un colpo. Una tremenda sensazione di aridità alla bocca dello stomaco gli fece venire la nausea. "Q-quale tizio col cappuccio?" chiese con ansia. "Mi ha detto che avevi bisogno di queste" aprì la zip sul dorso dell'orsetto e ne estrasse un mazzo di chiavi con un portachiavi a forma di spirale "Vero che però poi torni?" concluse Edward trattenendo a stento le lacrime.
Suo fratello gli voleva bene. Gliene aveva sempre voluto. Era la sua ombra. Stimava Elliot come fosse un eroe e non voleva perderlo. Quel pensiero intenerì il ragazzo che si inginocchiò per avere gli occhi all'altezza di quelli del fratellino "Tornerò, te lo prometto" Edward ritrovò il sorriso e lanciò le braccia al collo del fratello stringendolo con tutta la forza che un bambino di quattro anni può avere. Quando si staccò lascio cadere le chiavi e scappò in camera sua.
Elliot raccolse il mazzo da terra e richiuse la porta. Fissò per qualche minuto il portachiavi a spirale. Un problema si era risolto da solo. Aveva come la sensazione che qualcosa di più grande avesse iniziato a muovere i fili della sua vita. Si distese un attimo sul letto per scacciare via quel pensiero.

Alle nove meno un quarto Elliot era pronto, aveva preparato lo zaino con il cambio per la notte. Aveva detto ai suoi che sarebbe andato a passare la notte da Peter. Cosa che avrebbe fatto subito dopo aver portato Mallory a Casale Spavento. Scese le scale con calma. Assaporò ogni gradino. C'era qualcosa dentro di sé che lo tratteneva a casa. Non voleva andare. Aveva paura.
Anna lo aspettava ai piedi delle scale. Gli aveva preparato un fagotto con gli avanzi della cena e alcune fette di torta. "Mamma, vado solo a dormire da Peter, non ne ho bisogno" provò a dire. Dopotutto non era la prima volta che andava a dormire dall'amico. Che bisogno c'era di portarsi da mangiare? "Beh, non si sa mai quello che può succedere" era visibilmente preoccupata, ma non sembrava volerlo fermare. Elliot quasi ci sperava. Forse se avesse detto qualcosa di cattivo la madre lo avrebbe messo in punizione e non sarebbe dovuto uscire. Non fece in tempo. Anna interruppe il flusso dei suoi pensieri "C'è tuo padre che ti vuole vedere. E' in laboratorio" disse "Ma io dovrei andare, c'è Peter che mi aspetta, poi i genitori si preoccupano" cercò di protestare "Ci vorrà solo un minuto vedrai" e si chinò a baciargli la fronte. Un bacio lungo. Sembrava spaventata. Anche lei. Cosa avevano tutti da essere spaventati. Era lui quello che doveva andare a Casale Spavento, non gli altri. Cercò di divincolarsi, abbozzò un sorriso e si diresse verso il garage.
Le luci del laboratorio erano spente. Elliot sentì alcuni rumori metallici provenire dal fondo. All'improvviso si accese una lampadina "Finalmente! Non riuscivo a trovare le lampadine nuove, quella vecchia si è fulminata" disse Harry "Mi volevi vedere?" chiese spazientito Elliot "Oh, si! Ho qualcosa per te". "Non potresti darmela domani? Adesso devo andare da Peter" guardò l'orologio da parete. Erano le nove in punto. Peter era già all'ingresso di Cherrydale ad aspettarlo e lui come al solito sarebbe arrivato in ritardo.
Harry ignorò l'impazienza del figlio. Tirò fuori dal cassetto quello che sembrava essere un vecchio orologio da taschino "Sai, è per via di questo che io e la mamma ci siamo conosciuti. Un giorno me ne stavo per i fatti miei quando uno strano ragazzo con un mantello mi venne addosso. Non si fermò neanche a chiedermi scusa. Questo orologio deve essergli caduto di tasca ma quando lo raccolsi era già sparito." accennò un sorriso con gli occhi carichi di nostalgia "Decisi di tenerlo come risarcimento!" sembrò volersi giustificare "Insomma me ne stò sul ponte di Hummingdale a giocherellare con questo coso che tra l'altro era pure rotto quando mi scivola dalle mani. In quel momento tua madre passava lì sotto e la presi proprio in testa" Elliot voleva che il vecchio tagliasse corto, ma dalla felicità con cui raccontava non sembrava intenzionato a farlo. "Devo averle rotto qualcosa in testa quel giorno, altrimenti non si spiega il perché abbia accettato di sposarmi!" era quasi commosso da quel ricordo.
"Vorrei che lo prendessi tu! Spero che ti porti la stessa fortuna che ha concesso a me!" Elliot non sapeva che dire. Non gliene fregava niente di quel ninnolo. Voleva solo chiudere quella storia. O gli impedivano di uscire, o lo lasciavano andare. Cobtinuare a torturarlo in quella maniera non aveva senso. Si limitò a sorridere e a ringraziare. Infilò di fretta l'orologio nella borsa e si incamminò verso la porta. "Fai attenzione e in bocca al lupo!" furono le ultime parole di Harry "Ma cosa avete tutti stasera? Sto solo andando a dormire da Peter" sbottò spazientito, ma Harry si limitò a sorridire. Elliot gli rispose tra sé e sé "Crepi!"

Peter non protestò per il ritardo dell'amico. Probabilmente se lo aspettava. La strada verso Casale Spavento fu accompagnata dal silenzio e dal buio. Per la prima volta in vita sua fu grato per la presenza di Mallory. Aveva portato una torcia. A lui proprio non era venuto in mente. Lara lo guardò con superiorità mentre estraeva la sua. Elliot si chiese per l'ennesima volta perché ce l'avesse tanto con lui. Non gli sembrava di averle fatto niente di male.
La casa era buia e fredda ma si sentiva tranquillo. O almeno così fu finché non si accorse che Peter era sparito. Si girò a cercarlo con lo sguardo, ma era troppo buio. Cercò di fermare gli altri per andarlo a cercare, ma quando si voltò gli si materializzò davanti un'enorme colonna di luce. Una nebbia fitta e dorata che iniziò a corrergli incontro. L'urlo esplose dalla sua gola. Lara e Mallory si voltarono per cercare di capire cosa fosse successo. Elliot era paralizzato dallo spavento. Fu Mallory a riscuoterlo urlandogli "Corri!".
I tre si ritrovarono a scappare compatti verso l'uscita. Elliot si voltò a cercare di identificare il loro inseguitore e si accorse che Peter era ricomparso dietro di loro. Come se non se ne fosse mai andato. Corsero a perdifiato cercando di evitare tutti quei cosi, quei, beh, fantasmi, come altro chiamarli. La luce era intensa e tutta intorno a loro. Elliot non capiva più quanti ce ne fossero di questi fantasmi e dove si trovassero. Si accorse a malapena di essere stato sorpassato da Peter. Se ne rese conto quando lo vide spiccare un balzo. E poi il vuoto. Si sentì mancare la terra sotto i piedi. Cadde.
Fu una cosa veloce, quasi indolore. Era finito su Mallory che col suo giaccone di piume d'oca gli aveva attutito l'impatto. Cercò di rialzarsi quasi subito ma fu investito da un flusso di nebbia che andò a riempire tutta la stanza. Rimase immobile. Di nuovo. Completamente terrorizzato.

La camera nella quale erano finiti aveva qualcosa di familiare. Prima che riuscisse ad identificare cosa, la voce di Peter richiamò la loro attenzione. Lo mandarono a cercare aiuto, era l'unico ad essersi salvato ed era la loro unica speranza. Quando il ragazzo si allontanò si preoccuparono di Lara. Era stata la prima a cadere nel buco. Doveva essere atterrata malamente perché aveva una gamba visibilmente rotta.
Mallory le si avvicinò e cercò di farla riprendere senza successo. Si rivolse ad Elliot "Dobbiamo sistemarle la gamba e steccargliela" disse "Ma io non so come si fa" rispose il ragazzo intimorito. "Non ti preoccupare, tu raccogli un po' di quei rami" disse indicando il punto dove la terra aveva ceduto ed era franata dentro la stanza "Io cerco di farla rinvenire".
Mallory sembrava tranquillo. Lucido. Sapeva ciò che andava fatto e si muoveva con disinvoltura. Elliot per la seconda volta fu contento della presenza dell'altro. Lara riprese conoscenza all'improvviso, come se si fosse appena risvegliata da un incubo. "Stai calma, va tutto bene" gli fece Mallory, poi, rivolgendosi sotto voce ad Elliot "Cerca di distrarla, devo addrizzarle l'osso e non le farà molto piacere."
Elliot si inginocchiò vicino alla ragazza. Era spaventata, con i capelli in disordine, doveva aver perso gli occhiali nella caduta. Elliot non aveva mai fatto caso a quanto fossero belli gli occhi di Lara. Un verde intenso. Smeraldo. Sentì il suo profumo. Non erano mai stati così vicini. "Stai tranquilla, va tutto bene. Domani sarai di nuovo pronta a stracciarmi in ogni competizione." Lara sorrise. Dolcemente. Le sue labbra piccole si assottigliarono nel gesto e due fossette si disegnarono sulle sue guance morbide. Arricciò il nasino a punta e disse "Come sempre!" Era bellissima. Elliot si sentì avvampare. Poi l'espressione della ragazza si incrinò. Lo sguardo divenne vitreo. il dolore si dipinse sul suo volte che improvvisamente divenne rosso. Il rumore sordo dell'osso che Mallory aveva sistemato aveva rimandato Lara nel regno dell'incoscienza. Svenuta di nuovo. "Quando hai finito di ansimare sulla tua bella avrei bisogno del tuo aiuto. Dobbiamo costruirle una barella".
Mentre Mallory steccava la gamba di Lara, Elliot si occupava di intrecciare i vari rami per formare una lettiga. Era un'impresa difficile, un po' perché i rami tendevano a spezzarsi facilmente, un po' perché Elliot continuava a distrarsi pensando al sorriso di Lara. Il loro odio era reciproco e intenso, non capiva perché quel sorriso continua ad ingarbugliargli la mente.
Mallory raccolse le radici più esili e morbide per usarle come corde per legare la lettiga. Provarono a sollevarla insieme per valutarne la consistenza. Sembrava solida. La appoggiarono al fianco di Lara. Mallory si avvicinò ai piedi della ragazza e li sollevò delicatamente. Fece cenno ad Elliot di fare altrettanto con le sue spalle "Al mio tre la solleviamo e la spostiamo sulla barella" Elliot annuì "Uno, due, TRE!" All'unisono sollevarono Lara e la spostarono di pochi centimetri adagiandola sulla lettiga.
Provarono a sollevare lentamente la barella per vedere se era in grado di sostenere il peso della ragazza. Ondeggiando però rischiarono di farla cadere. "Dovremmo legarla" fece Elliot "E come?" chiese Mallory. Non c'era sarcasmo nella sua voce. "Potremmo usare le cinture dei nostri pantaloni" propose Elliot "Si può fare" concesse Mallory.
"Non ti facevo così in gamba" Elliot era visibilmente ammirato dal comportamento lucido di Mallory "Ci sono abituato. Mi piace aggiustare le cose" rispose il bullo. I due si sorrisero. In quel momento fece ritorno Peter portandosi dietro il professor Stevens.

Non era sicuro che chiamare il professor Stevens fosse stata una buona idea, ma almeno c'era qualcuno che li poteva aiutare. Inoltre Mallory sembrava avere tutto sotto controllo. Così Elliot si rasserenò un po'. Il suo sguardo tornò a vagare per quella stanza a forma di cupola. Quattro archi che si incrcoiavano. Una piccola porta murata sul lato di sud-est. Mancava solo il cilindro al centro. Come poteva essere possibile? La stanza che sognava ogni notte era lì, sotto i suoi occhi. Reale. E se la stanza era reale, anche il suo sogno doveva esserlo. Eppure lui era sicuro di non essere mai stato lì dentro. La quantità immane di ragnatele in giro per la stanza confermavano l'idea che nessuno avesse visitato quel luogo per secoli. Si chiese come mai mancasse il cilindro di pietra e quasi di istinto si avvicinò al centro della stanza. Notò un piccolo foro circolare poco più grande di un pugno. Forse il perno sul quale girava la pietra. Del cilindro non c'erano tracce, neanche i segni sul terreno che indicassero il suo spostamento. Tutti i lastroni di pietra che formavano il pavimento erano circolari e concentrici. Questo poteva aver mascherato i segni della rotazione, ma un macigno di pietra di quella portata dove aver lasciato delle tracce mentre veniva spostato.
Mallory richiamò l'attenzione di Elliot. Dovevano legare la corda portata da Peter intorno alla lettiga. Elliot non sapeva da dove iniziare, ma Mallory sembrava preparato anche su quell'argomento. Si limitò a seguire scrupolosamente le sue indicazioni.
Mentre Peter e il professore tiravano verso l'alto la barella, Lara riprese conoscenza. Sembrava spaventata. Continuava a ripetere "Cede di nuovo! Cede di nuovo". Quando Elliot capì a cosa si riferisse fu troppo tardi. La terra ricominciò a franare e i due soccorritori caddero nel buco. Elliot e Mallory riuscirono a prendere al volo la lettiga e a spostarla in modo da evitare altri incidenti alla povera Lara. I due nuovi arrivati rallentarono la loro caduta tenendosi saldamente alla corda, ma il dolore causato dall'attrito fece perdere la presa a Peter che rovinò a terra.
Dalla tasca della giacca del ragazzo uscì un disco. Un pezzo di pietra che rotolò per tutta la stanza fino a raggiungerne il centro. Sembrava guidato da una forza estranea. Forse dalla stessa nebbia luminosa che riempiva la stanza. Andò ad incastrarsi alla perfezione nel foro che Elliot aveva notato.
Il pavimento iniziò a tremare "Ma che diavolo succede" imprecò Mallory. Al centro della stanza una parte del pavimento iniziò a sollevarsi. Salì per un paio di metri rivelando un grosso cilindro di pietra. Ora il ricordo che Elliot aveva di quella stanza era completo. Si alzò d'istinto e si avvicinò alla roccia. Da dietro qualcuno chiese cosa fosse quella pietra e da dove saltasse fuori. Elliot ignorò il gruppo e raggiunse il centro della stanza quasi ipnotizzato. Appoggiò la mano sulla fredda roccia e con un dito seguì i solchi formati da quegli incomprensibili simboli. Si sentì strano, come svuotato. Sentì quella litania dentro la sua testa. "Ma che stai dicendo?" La voce di Mallory gli arrivò lontana e ovattata. Le parole della cantilena uscivano dalla sua bocca da sole. La mente si fece leggera. La nebbia iniziò a turbinare dentro la stanza. I simboli incisi sulla roccia iniziarono ad illuminarsi di una sfumatura verde.
Luce.
Tutto fu luce. le voci sparirono. Una sensazione di tepore riempì la mente dei presenti. La luce si fece intensa. Liquida. Tutti ne furono avvolti.
E poi fu di nuovo l'oblio.


martedì 2 novembre 2010

Casa Summer

La giornata volgeva al termine e gli ultimi raggi di sole tingevano di arancione le strade private del quartiere residenziale di Cherrydale. La quiete quasi assoluta veniva di tanto in tanto interrotta da una macchina che riportava il legittimo proprietario alla sua legittima dimora per la sua legittima cena. Anche in questo caso comunque tutti cercavano di mantenere una sorta di ossequioso silenzio muovendosi il più lentamente possibile per non disturbare quella sacra calma di cui solo a quell'ora si poteva godere. Persino gli uccelli se ne stavano guardinghi sui rami dei ciliegi che costeggiano le strade limitando al minimo l'istinto di cantare per non infrangere l'idillio creato da quel silenzio quasi innaturale.
Passando di lì per caso non si sarebbe potuto evitare di percepire quel brivido di inquietitudine che partendo dalla base della schiena va a scavarsi un posticino comodo all'altezza del collo. Quella sensazione che avverte i sensi che c'è qualcosa di strano e che è il caso di stare all'erta per evitare ogni pericolo. Per gli abitanti del quartiere residenziale di Cherrydale quella era la consuetudine, oltre ai giardinetti tagliati all'inglese, oltre agli alberi di ciliegio che in primavera tingevano le strade di rosa, oltre alle casette tutte uguali, tutte perfette e pulite, c'era quel brivido, e c'era solo a quell'ora, nell'esatto momento in cui il sole si congeda dal cielo per godersi una nottata di meritato riposo. E come ci si abitua al rosa degli alberi e al rosso ciliegia con cui erano verniciate tutte le case, gli abitanti del quartiere residenziale di Cherrydale si erano abituati anche a quel brivido, avevano imparato a rispettarlo e ad amarlo, avevano imparato anche a sentirne la mancanza quando per qualche motivo questo veniva a mancare. Sapevano quanto fosse prezioso quel brivido perché sapevano quanto fosse prezioso il silenzio che lo scaturiva. Il silenzio. Il rumore della notte. O almeno così si dice in giro, perché nel quartiere residenziale di Cherrydale, quando si parla del rumore della notte, non si fa riferimento ad un modo di dire, ma ad un rumore reale, ossessionante, costante e snervante. Il rumore di una sirena anti-incendio che puntualmente, almeno due o tre volte a settimana, quando dice bene, si leva dal numero 15 di Cherrylane e si propaga in ogni direzione per almeno un paio di chilometri svegliando chiunque abbia l'ardire di assopirsi in un orario che va in genere dalle due alle quattro del mattino. E così inizia la processione dei vicini seccati, la distribuzione delle scuse da parte dei proprietari della casa incriminata ed infine, come dopo aver fatto la fila all'ufficio postale per ore solo per spedire un pacco, tutti se ne tornano nelle rispettive dimore un po' sfiancati ma con l'animo rasserenato.
Con il passare del tempo, per gli abitanti del quartiere residenziale di Cherrydale, il rumore della notte è diventato tanto irrinunciabile quanto il brivido di fine giornata, come una sorta di terapia di gruppo, una valvola di sfogo, perché nella foga di far valere le proprie ragioni con quelli del numero 15 di Cherrylane, vengono a galla tutte le frustrazioni e lo stress della giornata, quello che si accumula nelle ossa prima che nella mente, quello che rimane lì a farti girare nel letto insonne e agitato, così, quando la calma ritorna e le scuse sono state distribuite, tutti se ne tornano nei propri letti più tranquilli e con meno bile in corpo. Allora, e solo allora, gli abitanti del quartiere residenziale di Cherrydale si addormentano.

Quella sera la quiete fu interrotta prima del solito, iniziarono ad alzarsi in volo stormi di pettirossi e passerotti partendo dall'inizio di Cherrylane e avanzando verso il giardino pubblico situato al centro del quartiere. La marea scura che si levava in cielo era come inseguita dal tintinnio di un campanello da bicicletta. Elliot era in ritardo per la cena, e la madre era categorica sugli orari, specie su quello della cena, l'unico momento in cui riusciva a radunare tutta la sua famiglia in un unico posto, nella fattispecie intorno ad un tavolo imbandito. Aggiustare la ruota squarciata della bicicletta si era rivelato più arduo del previsto, lui e Peter avevano passato il pomeriggio a cercare una camera d'aria buona tra le biciclette rotte abbandonate al vecchio sfasciacarrozze, ma non ne avevano trovata una della misura giusta. Alla fine avevano risolto incollando i lembi strappati di quella vecchia e applicando una toppa sul copertone per cercare di contenere i danni. La soluzione aveva funzionato, ma Peter si era comunque raccomandato di non correre troppo e aveva aggiunto che l'indomani era meglio andarne a comprare una nuova. Elliot mantenne un'andatura cauta per i primi metri, fin quando non gli cadde l'occhio sull'orologio e si rese conto di quanto fosse tardi. Rinunciando ad ogni forma di prudenza iniziò a pestare sui pedali con quanta forza aveva in corpo, scandendo ogni pedalata con un colpo di campanello, un po' per tenere il ritmo, un po' nella speranza che chiunque si trovasse lungo il suo cammino si sarebbe tolto dai piedi per tempo. Tirò i freni solo quando si trovò a pochi metri da casa sua. Per riuscire a fermarsi in tempo lasciò buona parte dei copertoni e del rattoppo improvvisato sull'asfalto di Cherrylane, così che quando fu finalmente fermo sentì chiaro il sibilo dell'aria che fuoriusciva nuovamente dalla camera d'aria bucata. Poco male, poteva dire di aver bucato in quel momento a causa del brecciolino sulla strada, così il padre gliel'avrebbe riparata senza troppi problemi.
Elliot si fermò un attimo a prendere fiato di fronte alla sua abitazione. Tra le tende color giallo canarino che davano sul soggiorno vide la madre intenta ad apparecchiare la tavola, tra qualche istante avrebbe sentito la sua voce chiamarli a raccolta uno per uno. Avrebbe iniziato da Edward, il membro più piccolo della famiglia, che faceva sempre tante storie quando era ora di andare a tavola, e pertanto aveva bisogno di più tempo per convincersi a scendere. Il compito di Elliot in quel frangente sarebbe stato quello di convincere il fratellino a separarsi dai suoi giochi infantili per seguirlo a tavola. Infine sarebbe stata la volta di Harry, suo padre, che appena sentiva il richiamo della cena correva a chiedere se c'era bisogno di aiuto, peccato che nel tempo che passava dal momento della prima chiamata al momento effettivo in cui finalmente Harry sentisse arrivare la voce della moglie, Anna aveva fatto in tempo a finire di preparare la cena, aveva apparecchiato la tavola e, nei giorni in cui Harry si sentiva più produttivo, anche a preparare un dolce, quindi puntualmente no, non c'era bisogno del suo aiuto.

Harry era un brav'uomo, un ottimo lavoratore e un bravo padre, Anna non avrebbe desiderato di meglio nella sua vita. Il problema è che ad Harry il suo lavoro proprio non piaceva. Fare il ragioniere per una società di contabili non era esattamente l'aspirazione della sua vita. Fin da piccolo era ossessionato dalle sue idee, come se nel suo cervello fossero stipati i progetti di un numero infinito di invenzioni che aspettavano solo di essere trasformate in realtà. Era un suo dovere morale assecondare quelle idee, ci si diventa matti a non dare ascolto alle proprie idee, così si organizzò per riuscire ad approfittare di ogni singolo ritaglio di tempo per poter adempiere alla sua missione divina: Fare l'inventore.
Dapprima aveva iniziato a trafficare con i suoi arnesi nella stanza degli ospiti, poi dopo la nascita di Edward si trasferì in garage, infine, quando lo spazio iniziò a stargli stretto, costruì una sorta di mansarda sopra il garage da adibire a laboratorio, ricoprì il tetto della casa di pannelli fotovoltaici per far fronte alle sue eccessivamente costose necessità di energia elettrica e pavimentò il giardino per potervi installare sotto un cassone per la raccolta delle acque piovane da usare in caso di incendio che da allora non fu più tanto un caso, bensì la norma. Che la si guardasse dall'alto o semplicemente passando lungo la strada, Casa Summer, al numero 15 di Cherrylane, era la nota stonata in una sinfonia di note tutte uguali, era il puntino nero all'interno di un tappeto rosso, era, per i vicini, quel prurito sulla pianta del piede che ti potresti tranquillamente grattare se non avessi indosso calzini e scarpe e, soprattutto, se non stessi guidando. Invece no, te ne resti lì, in mezzo al traffico, a maledire quello stramaledettissimo prurito perché sai benissimo che non c'è modo di eliminarlo.

La chiamata per la cena arrivò puntuale. Elliot abbandonò la bicicletta sul vialetto del garage e corse in casa, poi diritto su per le scale e infine nella camera di Edward. Il fratello era intento a simulare con un bambolotto una caduta da una rampa di scale, Elliot non perse tempo coi soliti convenevoli, si caricò di peso Edward in braccio e scese per le scale ignorando le proteste del suo passeggero. La cena si svolse in tranquillità, Harry chiese ancora scusa al figlio per avergli fatto fare tardi quella mattina e Elliot ne approfittò per chiedere al padre di riparargli la bicicletta. Un problema era risolto, doveva solo trovare il modo di eliminare dalla faccia della terra Lara e Mallory. Poi arrivò il purè, ed Edward odiava il purè, il che significava che buona parte della sua porzione sarebbe andata a confondersi coi muri della sala color giallo canarino. Eppure stranamente Anna restò calma, anzi, sorrise allegramente anche quando un po' di quel purè gli finì in mezzo ai capelli. "E' successo qualcosa di bello in ufficio?" chiese Harry stupito da tanta tranquillità. Anna era un'agente immobiliare, e in questo periodo non si vendevano tante case, perciò le commissioni erano poche, e di conseguenza anche il suo stipendio era piuttosto basso. Spesso, negli ultimi mesi, lei ed Harry si erano dovuti sedere a tavolino per buttare giù un piano di risparmi per far fronte al periodo di crisi. Harry aveva persino rinunciato a buona parte dei suoi esperimenti per venire incontro alle esigenze della moglie. Però adesso le cose stavano cambiando, almeno così diceva Anna sfoggiando il miglior sorriso che la sua faccia coperta di purè le permettesse. "Mi hanno affidato la vendita di Casa Madison, una splendida villetta in cima alla collina ad est di Plumdale!" disse, ed iniziò a descriverne i mille pregi e a parlare di quello che avrebbero potuto fare coi proventi della vendita quando Elliot fu colto da una folgorazione: "Ma non starai mica parlando di Casale Spavento?"
Il gelo calò sulla stanza, persino Edward smise di lanciare purè in giro. Il sorriso scomparve dalle labbra di Anna ed Harry sgranò gli occhi e cercò di zittire il figlio facendo cenno di 'no' con la testa avendo cura di non farsi vedere dalla moglie. "Quella è solo una superstizione" rispose Anna tranquilla cercando di recuperare un barlume di sorriso e tutti, Edward compreso, tirarono un sospiro di sollievo. Elliot però rincarò la dose "Sei morti sospette negli ultimi quattro anni non mi sembrano tanto una superstizione ..." fece lui servendosi dell'altro purè "... e molti miei compagni di classe hanno visto chiaramente delle luci strane comparire al suo interno nonostante tutti sappiano che è disabitata da anni." Edward lanciò un calcio sotto al tavolo all'indirizzo del fratello nella speranza di zittirlo, ma non ci riuscì. "C'è gente che dice di aver visto dei fantasmi in quella casa, sagome fatte di luce dorata aggirarsi per le stanze!" Questa volta il calcio arrivò in contemporanea sia da parte di Edward che da parte di Harry. Elliot, o almeno il suo ginocchio destro, dovette cedere e lasciar cadere il discorso.
"Questo è quello che passa il convento, siamo in periodo di crisi, e se vuoi continuare ad avere del cibo su questa tavola prega perché io riesca a vendere quella casa" fu la risposta stizzita di Anna. Finirono tutti di mangiare in silenzio.

Erano da poco passate le dieci quando qualcuno bussò alla porta della camera di Elliot. Era Anna che veniva a scusarsi con il figlio per aver alzato la voce, al ché Elliot si scusò per essere stato insensibile e il tutto degenerò in un profluvio di baci, coccole e tenerezze che Elliot non riuscì a scansare del tutto. Non erano passati dieci minuti da quando Anna aveva lasciato la stanza che qualcun'altro bussò alla sua porta, era il padre stavolta, che lo informava che la sua bicicletta era come nuova e si sedette accanto a lui sul letto dicendogli di come sua madre fosse stressata in questo periodo e che lui non doveva prendersela per la sua reazione. Elliot rispose tranquillamente che no, non se l'era presa e che aveva già avuto modo di chiarirsi con lei. Harry si rallegrò e se ne andò quasi senza salutare. Dopo altri dieci minuti bussarono di nuovo, era Edward, che una volta entrato si limitò a lanciare addosso al fratello del purè che aveva tenuto con cura da parte per l'occasione. Tra una litigata e l'altra passarono le undici prima che Elliot potesse rimanere da solo con se stesso. Era stata una dura giornata, eppure non riusciva a prendere sonno, c'era qualcosa che lo turbava ed insieme lo eccitava. Casale Spavento. Era il terrore di tutti i suoi compagni, anche il suo ad essere sinceri, tutti avevano paura di quella tranquilla villetta. E ora lui aveva le chiavi per entrarvi.
Si buttò sul letto ancora vestito, rimase qualche minuto a fissare il soffitto. Lo sguardo si perse tra le trame delle travi di legno che sorreggevano il tetto spiovente e tra le quali il padre, quando Elliot era poco più di un bambino, aveva montato delle lucine bianche che formavano le principali costellazioni del firmamento. Accese le lucine e iniziò a identificare i nomi delle varie costellazioni. C'era il Drago, l'Orsa, sia quella minore che quella maggiore, c'era il Cigno e il Toro. Si decise che era il momento di studiare, quindi spense le lucine e prese il libro di storia. Casale Spavento. Non vedeva l'ora di dirlo al suo amico Peter. Le immagini dei soldati si fecero confuse, le parole che le accompagnavano sbiadirono nel nulla.
Si addormentò che la guerra di secessione ancora non era scoppiata. Dormì profondamente e sognò. sognò quattordici ragazzini accanto a lui in cerchio che lo guardavano di traverso. Si tenevano per mano intorno ad una pietra cilindrica con delle strane iscrizioni sopra. Una strana litania gli riempiva le orecchie sino a fargli venire la nausea. Si trovavano in una specie di stanza a forma di cupola completamente bianca, con un arco che doveva indicare un'uscita, ma che era completamente murata. Per un attimo sentì il panico montargli dentro, e poi infine arrivò la luce, una luce abbagliante che riempì tutto. Elliot si sentì smarrito in quella luce che lentamente sfumava nell'oblio. Il buio, un buio spaventoso lo avvolse e come un uragano lo scaraventò via lontano. Si sentì sperduto e abbandonato, e mentre la sua coscienza si arrendeva a quel buio spegnendosi lentamente, sentì qualcosa. Qualcosa che non era una vera sensazione, ma più un barlume di sensazione. Era orgoglio. Era vittoria. Era la consapevolezza di avercela fatta. A fare cosa, Elliot lo ignorava, ma ce l'aveva fatta. Poi, puntuale, arrivò il rumore della notte, l'allarme anti-incendio che svegliò tutti. Si mise a sedere che ancora il cuore gli batteva all'impazzata. I dettagli di quello strano sogno sfumarono velocemente, ma la sensazione di angoscia rimase palpabile. Aspettò che la sirena si zittisse e poi si rimise a letto, ma non riuscì a dormire, decise di mettersi a studiare nella speranza di distrarre la mente, ma non ebbe molto successo. La storia proprio non gli piaceva.