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lunedì 6 dicembre 2010

Un Incarico Scomodo

Il crepitio del fuoco andava lentamente scemando. Grossi pezzi di carbone perdevano rapidamente la loro sfumatura rossastra. Piccole fiammelle si agitavano agonizzanti su un letto di cenere cercando gli ultimi brandelli di legno di cui nutrirsi. Le ombre si amalgamarono col buio impietoso della notte. Un leggero alito portò via l'ultima parvenza di tepore rimasta, lasciando solo il freddo e il gelo a spartirsi l'aria. Nikolas non temeva le basse temperature. Nella sua terra aveva conosciuto il vero freddo, quello che ti gela le ossa. Era cresciuto sentendo il suo respiro condensarsi sulla pelle del suo viso. Quel mite venticello di fine novembre era come una calda vacanza estiva per il suo animo congelato.
Le terre della Stirpe di Mana erano considerate maledette. Il gelo sferzava quei luoghi come per punirli della colpa di cui si erano macchiati. Ormai erano passati più di duemila anni dal termine della Grande Guerra, eppure gli eredi di quella Stirpe venivano ancora additati come rinnegati. Nessuno si fidava di loro. Non ancora. Nikolas era il primo erede di quella gloriosa Stirpe a varcare i confini delle terre di Hoen dai tempi della fine della Guerra. Quando gli fu affidato l'incarico di andare a presidiare la capitale di quel regno da sempre considerato nemico, per un attimo si sentì mancare. Non era paura la sua, anzi, era fiero di quel compito. No, la sua era rabbia. La rabbia frustrata degli sconfitti. Una rabbia non sua, ma della sua gente, che tutta insieme si riversò nelle sue vene e nella sua anima lasciandolo sbigottito. Perché lui? Il Maestro sapeva delle sue origini. Era l'unico a saperlo. Nonostante ciò aveva deciso di mandare lui per quell'incarico. Non riusciva ad apprezzare la sottile ironia di un discendente dei Mana sul trono di Elengar.

Avevano avvistato la montagna sulla cui vetta si ergeva maestosa la capitale fin dal giorno del loro sbarco ad Yrida, la città frontiera. Il porto dal quale tutte le navi da e per il continente dovevano passare. L'unica città portuale sulla riva nord dello stretto. Il primo fronte di difesa delle terre di Hoen.
Avevano perso due giorni tra controlli e perquisizioni. Non si facevano sconti, neanche di fronte al sigillo regale. Il sigillo che Nikolas portava al collo. Un medaglione d'oro massiccio recante impresso lo stemma della Stirpe alla quale un tempo i suoi antenati avevano dichiarato guerra. Il peso di quell'ornamento era aggravato dal peso dell'ipocrisia che sentiva addosso mentre lo indossava. Eppure non l'aveva mai tolto, faceva parte del compito assegnatogli.
Il Maestro aveva una sola parola, e non era molto incline ad accettare obiezioni. Ma a Nikolas stava bene. Si trovava a suo agio ad eseguire gli ordini, di qualunque natura fossero. Aveva bisogno di una guida, di qualcuno che gli indicasse il cammino. Il Maestro aveva preso quel povero ragazzino mendicante che passava la sua esistenza ai margini della vita e lo aveva trasformato in un vero uomo. Un soldato eccellente. Il Capitano della guardia. Ora era stimato e temuto dai suoi uomini. Aveva un posto che poteva chiamare casa. Aveva trovato una ragione per vivere, per sopportare quel senso di inadeguatezza che il gelo delle sue terre aveva instillato fin dentro la sua anima.

Una volta oltrepassate le mura di Yrida, l'avevano vista. Alta e magnifica. Quasi irraggiungibile. La città di Elengar con le sue torri infinite era l'unica cosa che osasse interrompere la linea dell'orizzonte. Ogni giorno di cammino diventava sempre più imponente. Man mano che il drappello guidato da Nikolas si avvicinava alla montagna Hoen, la capitale diventava più nitida. Le sue torri perdevano quell'aspetto mistico di una mano ungulata che ghermisce il cielo. Iniziarono a distinguere le fattorie sul versante della montagna. Videro le piccole torrette di guardia che puntellavano le mura a ritmo regolare. Impararono a riconoscere gli ugelli che in tempo di guerra venivano usati per versare la pece e l'olio bollente sugli assedianti. Ci volle più di una settimana a cavallo perché potessero raggiungere le pendici di quella montagna solitaria.
Quella sarebbe stata la loro ultima notte all'addiaccio. All'alba Nikolas avrebbe svegliato i suoi uomini e avrebbero iniziato la scalata del versante meridionale. Se fossero riusciti a mantenere un buon passo avrebbero raggiunto la città nel primo pomeriggio. Finalmente un po' di riposo.
Stando a quanto gli era stato detto, la città imprendibile era stata presa. In realtà non era successo niente di grave: un ladruncolo si era introdotto all'interno della reggia e aveva sottratto alcuni oggetti di poco conto. Tra l'altro sembrava che il tizio per evitare la cattura si fosse suicidato. Caso chiuso. Il problema stava proprio nel fatto che qualcuno avesse trovato il modo di violare il ventre di quella che per il mondo intero era diventato il simbolo dell'impenetrabilità. Nella storia i figli del monte Hoen avevano radicato nel loro animo il senso della sicurezza. Da qui i controlli maniacali, le mura invalicabili intorno ad ogni città, le navi che pattugliavano le coste. Eppure qualcuno aveva trafitto quella sicurezza direttamente al cuore. Vista in quest'ottica quella che in principio sembrava una sciocchezza - quale reggia al mondo non è mai stata preda di furti - finì per diventare un caso politico. Il Maestro aveva giocato bene le sue carte e aveva convinto il re della Stirpe di Hoen a inviare un gruppo dei suoi fidati soldati per verificare le norme di sicurezza della città e, qualora ce ne fosse bisogno, rinforzarle.

Nikolas si sentiva come alla vigilia di un assalto. Il ché non era del tutto sbagliato visto chi era lui e dove si stava recando. Questa volta però non ci sarebbero state vittime. Ciononostante non riusciva a prendere sonno, erano giorni che non chiudeva occhio. Iniziò a sellare il cavallo per tenersi occupato. I suoi uomini erano rannicchiati nei loro giacigli di piume d'oca. Profondamente addormentati ma sempre con una mano sull'elsa della spada. Li conosceva bene ormai. Sarebbero scattati in piedi alla sua prima parola. Anni e anni di addestramenti serrati li avevano uniti. Ormai si intendevano alla perfezione. Era sufficiente uno sguardo per comunicare un ordine. Non potevano definirsi amici, no, il loro legame andava oltre, ognuno di loro avrebbe dato la vita per proteggere la squadra. Nessuno veniva mai lasciato indietro. O si avanzava uniti e compatti, o si moriva insieme nel tentativo.
Pilsk era il più giovane del gruppo. Lo avevano beccato a rubare nell'armeria dell'esercito pochi anni prima e per penitenza lo avevano arruolato. Il Maestro era scaltro: uno che riusciva ad aggirarsi indisturbato per i corridoi della caserma era sicuramente un valido elemento. Si beccò novecento frustate per quella bravata, poi però fu affidato alle 'amorevoli' cure del Capitano. Adesso se ne stava lì, accovacciato come un bambino vicino ai resti del fuoco e abbracciato ad una freccia. Ne teneva sempre una nel fodero della spada. Quel fodero avrebbe tenuto tranquillamente uno spadone a due mani, invece ospitava una freccia e uno stiletto. Quest'ultimo era completamente arrugginito, non era mai stato usato. Anche nel corpo a corpo Pilsk brandiva le sue frecce come fossero spade. Aveva una mira infallibile. Era in grado di colpire una noce da 500 iarde di distanza con vento a sfavore. Si diceva in giro che avesse discendenze elfiche, ma per il Capitano non era un problema. Nessuno meglio di lui conosceva l'amaro sapore della discriminazione.
Hector era il muro di difesa del gruppo. Aveva l'imponenza del tronco di una quercia secolare e tante cicatrici sulla pelle da farla sembrare la corteccia di un albero. Era alto più di due metri e combatteva con la grossa ascia che portava legata sulla schiena. Malgrado l'apparenza era di un'agilità incredibile. Entrò nell'Esercito Unificato ancor prima del Capitano. Nessuno conosceva la sua età ne la sua voce. Da quando fu affidato al comando di Nikolas non aveva mai proferito verbo. Le sue origini erano avvolte dal mistero come anche il perché si fosse unito spontaneamente all'esercito - di solito si veniva convocati, e nessuno era mai felice di questo onore.
Ariel era l'unico a non avere una spada. Non ne aveva bisogno. Il suo ruolo era quello del cerusico. Curava le ferite degli altri e si occupava di sfamarli. Un ottimo cuoco. Era riuscito a preparare un pasto decente anche mentre erano dispersi nelle paludi di Terahd. Sapeva produrre ogni tipo di antidoto e medicina. Lui ad Elengar c'era già stato. E si era diplomato a pieni voti alla scuola di magia. Il Maestro aveva voluto che ogni squadra fosse accompagnata da un mago. In battaglia Ariel sapeva attaccare bene quanto i suoi colleghi pur mantenendosi a debita distanza dal fronte. Era la retroguardia del gruppo. L'arma più preziosa nelle mani del Capitano.
Tak era Tak. Nikolas conosceva il suo segreto, ma una donna nell'esercito era qualcosa di anomalo. Il suo nome reale era Takalia. Nessuno però, fatta eccezione del Maestro e del Capitano, ne era a conoscenza. Tak era l'esperta di veleni e di mimetismo. Era stata per anni la spia personale del Maestro. Era riuscita ad ottenere tutte quelle informazioni che avevano permesso al loro capo di raggiungere le vette del potere. Ora che la posizione del Maestro era consolidata, era stata assegnata al Capitano. Da anni viveva come un uomo. Camuffava le sue forme grazie alla sua arte del travestimento. Prendeva ogni sera una mistura di sua invenzione che le abbassava il tono di voce. Portava i capelli sempre rasati, solo lo sguardo tradiva una femminilità dimenticata.
Quello era il suo gruppo. Il gruppo del Capitano Nikolas. Il più temuto di tutto l'Esercito Unificato. L'unico al quale il Maestro avrebbe affidato la sua stessa vita. L'unico che poteva accollarsi una missione tanto delicata.

Dalla vetta della montagna iniziò a scendere lenta una leggera nebbia che andò ad annegare la vallata. Il cielo iniziò a schiarirsi sotto una fitta coltre di nubi. L'ora del risveglio era arrivato. Il Capitano chiamò a raccolta i suoi uomini che, dopo pochi preparativi, erano pronti a partire. Montarono a cavallo e si incamminarono verso la loro meta. Verso il loro ultimo giorno di viaggio.
Si unirono alla lenta processione di fattori che portavano la loro merce in città. Raggiunsero il Grande Portone nel primo pomeriggio. Furono subito bloccati dalle guardie che mal tolleravano i forestieri. Solo il sigillo regale gli permise di avere accesso alla città. "Avrò bisogno di incontrare il vostro capitano. Ditegli che lo attendo tra un ora nella Sala del Trono." Nikolas si rivolse ad uno degli armigeri più giovani che subito scattò tra le vie del borgo per consegnare il messaggio.
Vagarono un po' senza meta tra i vicoli dell'alveare. A vederli sembravano sperduti, in realtà stavano studiando la città. Conoscere ogni via di fuga e ogni punto debole di una città era alla base di ogni strategia militare. Alla fine si fermarono alla stalla comunale dove smontarono i cavalli. Si separarono. Il Capitano si diresse verso la reggia mentre lasciò detto ai suoi di continuare l'ispezione della città a piedi.
La Sala del Trono era chiusa da diverse generazioni. Il paggio incaricato di accompagnare Nikolas fece fatica ad aprire le imponenti porte in rovere i cui cardini erano ormai profondamente arrugginiti. Era un luogo insolito per tenere una riunione militare. La scelta del Capitano era però studiata a fondo. Ricevendo qualcuno nella Sala del Trono indossando lo stemma regale avrebbe aiutato a definire facilmente il rapporto che si intende instaurare. Nikolas voleva imporsi sull'esercito locale facendo valere la sua autorità e oscurando quella del capitano di Elengar rendendolo un suo subalterno. Nessuno aveva ostacolato il suo cammino fin lì, addirittura alcuni cortigiani si erano inchinati al suo passaggio. Tutto quello spettacolo visto dagli occhi di un rinnegato aveva un ché di surreale. Andava contro l'ordine naturale delle cose. Eppure era lì, a farsi benedire dalle damigelle e omaggiare dai cavalieri. Un vinto sul trono dei vincitori.

Eric, il Capitano della Guardia di Elengar si presentò al cospetto di Nikolas senza farsi annunciare. Puntò dritto sull'avversario con una mano stretta a pugno su un fianco e l'altra saldamente aggrappata all'elsa della spada. Nikolas non si scompose. Si era comodamente adagiato sul trono e non azzardò nessuna reazione all'arrivo dell'altro. "Che ci fate voi qui? Nella mia città? Sul trono del mio sire?" Eric sembrava sul punto di esplodere.
"Ah, questa sediola è un trono? Non l'avrei mai detto! Sono qui per ordine del vostro sire" Nikolas fece segno al suo paggio che consegnò una pergamena al capitano Eric "Come potete leggere mi conferisce pieni poteri! I vostri poteri, per essere precisi. Da oggi sarete al mio servizio" concluse. "Cosa? E' uno scherzo!" Eric cercò di leggere la pergamena più in fretta possibile trattenendo a stento la nausea "Temo di no, mio caro amico! C'è stata garantita la vostra massima collaborazione! Siamo qui per il bene di Elengar!" Eric era furibondo, ma Nikolas intravvide nei suoi occhi un cenno di resa. Il suo furore doveva lasciare il posto al senso del dovere. Gli ordini del re andavano sempre onorati. "Non sono vostro amico, e nemmeno un vostro sottoposto..." Eric fissò intensamente il pavimento meditando su come terminare la frase, poi alzò gli occhi furenti e semplicemente se ne andò. Calcava su ogni passo come un elefante in una radura. Ora la città apparteneva al Capitano. Nikolas si prese un attimo per assaporare la sensazione.
Dopo aver oziato un po' nei suoi pensieri, raggiunse la sua squadra nell'alveare. Si incontrarono di fronte ad una taverna locale che il sole stava iniziando a tramontare. "Ehi Capo, come la vedi una bella mangiata? Ora qui ce la comandiamo, un po' di riposo ce lo siamo meritato". L'insolenza di Pilsk ormai faceva parte della quotidianità. Non avrebbe mai permesso a nessuno di rivolgerglisi in quella maniera. Ma Pilsk faceva parte della compagnia ed aveva dimostrato la sua lealtà in più di un'occasione, quindi Nikolas lasciava correre quelle sue esplosioni di gioventù. Abbozzò un sorriso e fece a tutti cenno di entrare.
Si diresse direttamente al bancone mentre gli altri prendevano posto intorno ad un tavolo. Voleva approfittarne per chiedere qualche informazione all'oste, ma fu preso in contropiede. Se c'era una cosa che a Nikolas proprio non riusciva, era di rivolgersi con disinvoltura alle donne. Ci riusciva con Tak solo perché l'aveva sempre vista prima come un compagno di squadra che come una vera donna. Inoltre lei faceva di tutto per nascondere la sua identità. Ma quella che gli si parò davanti era tutta un'altra cosa. Una ragazza bellissima. Folti capelli neri e ricci racchiudevano come un caschetto quei lineamenti delicati e quegli occhi del colore dell'ambra. Lei lo fissò con quel suo sguardo penetrante e per un attimo Nikolas perse il senso del tempo. Doveva essere molto giovane, decisamente più piccola di lui. Forse aveva quindici o sedici anni, ma aveva le fattezze di una donna. Il naso piccolo e le guance morbide, le labbra carnose e di un rosso vivo. Se ne stava lì a pulire in maniera eccessiva un unico boccale vuoto. Sembrava intimorita. Capitava spesso quando la gente lo guardava. Cercò di intavolare una discussione, ma capì subito di aver sbagliato tono, perché la ragazza si mise sulla difensiva e scappò alla prima occasione.
Era rimasto abbagliato da quella visione. Non gli era mai capitata una cosa del genere. Tutto sommato quella missione poteva avere qualche risvolto positivo. Andò a sedersi coi suoi commilitoni e finalmente si rilassò. Tra il vociare dei suoi uomini e gli sguardi rubati alla ragazza della birreria finalmente iniziò a sentirsi sciogliere un po' di quel gelo che lo attanagliava dentro.
Nikolas aveva ritrovato il sorriso.


martedì 30 novembre 2010

Il Piano

L'alba si presentò con calma. La fitta coltre di nubi che ammantava il cielo iniziò a tingersi d'azzurro via via sfumando verso il grigio. Le ombre iniziarono a stiracchiarsi e a gettarsi oblique sulla valle. Le sagome delle torri si dipinsero sui pascoli ormai quasi completamente aridi. Una morbida nebbia argentata iniziò ad irrigare i campi scivolando debolmente lungo il pendio della montagna.
Man mano che il sole riscaldava l'aria, una leggera brezza di vento iniziò a sferzare le chiome degli alberi da frutta. Le nuvole iniziarono a diradarsi lasciando solo una leggera patina lattiginosa a coprire l'azzurro del cielo. La rugiada iniziò ad asciugarsi. In lontananza un gallo levò il suo canto.
Kaila se ne stava seduta sul tetto della sua fattoria a fissare il giorno in divenire. Da alcune settimane era diventata un'abitudine. Faceva fatica a prendere sonno, pertanto passava la maggior parte della notte a rimuginare sui suoi pensieri.
La fattoria della sua famiglia si trovava sul versante oscuro della montagna, quello che veniva illuminato solo dal tiepido sole del pomeriggio. Il terrapieno sul quale era stata costruita fu ricavato da un'antica cava di argilla. Il trisavolo di Kaila l'aveva fatta riempire con la fertile terra proveniente dalle rive del fiume Koar. Il clima asciutto e fresco era l'ideale per la coltivazione del luppolo, per di più il freddo invernale di quella zona favoriva la fermentazione dei malti. Una sezione della piccola cava era stata adibita a cantina dove venivano raccolti i barili della birra. La casa invece era stata eretta sul punto più estremo del terrapieno, quello a ridosso del burrone, così da permettere al sole di abbracciarla coi suoi raggi il più a lungo possibile.
Dal tetto della casa era possibile vedere tutta la vallata. Kaila passava le prime ore del giorno a fissare le ombre della città di Elengar che lentamente si accorciavano. Al canto del gallo si ridestava dai suoi pensieri e si sforzava di iniziare la sua giornata. Aveva circa un paio d'ore di tempo per preparare la colazione, spicciare le faccende di casa ed infine recarsi in città per aprire la birreria. Era stanca di quella quotidianità. Aveva provato il brivido dell'avventura. La paura, L'ansia ed infine il sollievo. Mentre volteggiava al di fuori delle mura della città aveva sentito il suo cuore leggero. Ogni segno di preoccupazione era scomparso. Aveva provato la felicità allo stato puro. Il giorno dopo però la vita aveva ripreso il suo normale corso, in più su di lei pendeva il peso della colpa. L'ansia di tutte quelle cianfrusaglie trafugate dalla Sala dell'Archivio e ora nascoste nella cantina del padre non le faceva prendere sonno. Doveva sbarazzarsene.
Voleva far sì che fosse impossibile ritrovarle. Ricordava di aver sentito parlare di una collina, poco oltre il villaggio di Hangwick, che si diceva essere infestata da spiriti maligni. Per secoli nessuno aveva cercato di inoltrarsi nel folto del bosco di querce che la ricopriva. I pochi sventurati che avevano tentato l'impresa non avevano mai fatto ritorno. Almeno così diceva la leggenda. Un posto del genere sarebbe stato perfetto, anche se qualcuno avesse trovato lì la refurtiva non l'avrebbe di certo associata al furto avvenuto ad Elengar. Magari avrebbero pensato ad un tesoro nascosto e protetto dagli spiriti, pertanto nessuno avrebbe osato toccarlo.
Il problema principale era la distanza. Hangwick si trovava a più di una settimana di cammino. Anche a cavallo non si impiegavano meno di tre giorni ad arrivarci. Come avrebbe potuto giustificare con la sua famiglia un'assenza tanto lunga? Inoltre una donna giovane che viaggia da sola con un fagotto sospetto sulle spalle rischiava di attirare l'attenzione dei viandanti. Per non parlare del pericolo che una fanciulla sola può correre durante le notti incerte in cui la luna si nasconde e i briganti escono dalle loro tane.
Il mattino giunse puntuale a interrompere i ragionamenti della ragazza. Era ora di rigettarsi nella consuetudine.

La casa era fredda. Ormai non si poteva più tenere il camino spento, la stagione non lo permetteva. Il pian terreno dell'abitazione era composto da un unico grande ambiente. Da un lato si trovava la cucina con il forno e i piani cottura. Avevano persino un lavabo per le stoviglie, cosa assai rara vista la difficoltà con cui le varie fattorie venivano collegate all'acquedotto cittadino. Come ogni cava di argilla che si rispetti però, la casa di Kaila sorgeva su una falda acquifera sotterranea dalla quale era possibile attingere l'acqua direttamente. Suo nonno aveva pagato un mago perché imponesse un sortilegio sulle acque sotterranee permettendogli di sgorgare direttamente in alcuni punti chiave della fattoria: La cantina, la latrina, il recinto degli animali, il pozzo di irrigazione e, appunto, il lavabo.
Kaila si avvicinò al grande focolare situato sul lato opposto rispetto alla cucina. Aveva imparato da suo padre a preservare la brace nascondendola sotto la cenere, così accendere il camino al mattino era un compito assai più semplice. Si limitò a disporre i ciocchi di legna su un letto di rami secchi. Con l'attizzatoio spostò la cenere scoprendo le braci ancora calde. Infine dispose sotto i rami un piccolo quantitativo di paglia che si incendiò all'istante. In pochi minuti l'ambiente iniziò a riscldarsi e il fuoco a scoppiettare allegro.
Con la molla di ferro prese poi uno dei ciocchi infuocati per portarlo nel forno, così da poter cuocere il pane. Dispose l'impasto lievitato che aveva preparato la sera prima all'interno del forno e si mise a lavare le stoviglie sporche della cena.
In breve il profumo del pane fresco iniziò a farsi strada lungo il salone, salì la rampa di scale e andò ad incunearsi nelle tre stanze da letto che componevano il piano superiore. Ivan e Felz si svegliarono.
Felz arrivò quasi immediatamente, Ivan si attardò un po'. Erano un paio di giorni che stava poco bene. Kaila mise dell'acqua pulita in un paiolo e la dispose sul fuoco così da poter preparare al padre un decotto contro il male dell'inverno. Ormai Ivan cominciava ad essere in là con l'età e risentiva facilmente degli sbalzi di temperatura tipici della stagione fredda. Per diverso tempo si era discusso di acquistare una dimora umile in città, magari vicino alla birreria, per permettergli di passare la vecchiaia in luoghi più al riparo dalle intemperie invernali. Quando Felz avesse preso moglie e si fosse stabilito nella fattoria con la sua nuova famiglia, Ivan e Kaila si sarebbero trasferiti all'interno delle mura di Elengar.

La mattina proseguì leggera tra le varie faccende di casa. Kaila fece il bucato, rassettò le camere ed infine pulì il soggiorno. Era giunto il momento di uscire per andare ad aprire la taverna in città. Felz era riuscito a convincere il padre a rimanere a casa per riguardarsi. L'incrollabile senso del dovere di Ivan era principalmente dovuto al fatto che a casa si annoiava, ma doveva accettare il fatto che la sua tosse poteva incutere timore negli avventori. Optò per rimettersi a letto dopo aver bevuto un infuso di valeriana e camomilla che Kaila gli aveva preparato. Gliene aveva preparata una brocca intera, così se il primo boccale non fosse stato sufficiente a rispedirlo nel mondo dei sogni, ci sarebbe risucito senz'altro il secondo, o il terzo.
Felz fece uscire i due cavalli dalla stalla e li legò al carro, poi prelevò alcuni barili di birra dalla cantina e li caricò sul pianale. Quando tutto fu pronto, lui e Kaila salirono a bordo e lasciarono la fattoria. La distanza era breve, la loro fattoria si trovava piuttosto in alto, ciononostante il percorso in salita fatto di innumerevoli tornanti, rendeva il viaggio abbastanza lungo. Dopo circa quaranta minuti raggiunsero l'ingresso delle mura. Gli armigeri di guardia erano sempre distratti se non addirittura addormentati, ma Kaila per sicurezza si calava sul volto l'enorme cappuccio del suo mantello. Meglio non rischiare di essere riconosciuta, anche se a conti fatti non era stato diramato nessun mandato di cattura nei confronti del ladro. Per quanto ne sapevano in città, quello era morto spiaccicato ai piedi della montagna. Quando suo fratello gli chiedeva il perché del cappuccio lei si limitava ad imprecare contro il freddo.
Smontarono il carro una volta raggiunto il retrobottega della taverna. Scaricarono i barili e portarono i cavalli nella stalla comunale. Il sole era ormai alto, anche se ancora coperto da una leggera coltre di nubi. Era giunto il momento di aprire al pubblico la birreria.

Mentre il periodo estivo portava clienti solo a sera, durante l'inverno si potevano trovare avventori ad ogni ora del giorno. Il freddo rendeva la birra molto più appetibile. Inoltre avevano fatto costruire una piccola cucina e avevano iniziato a servire anche la zuppa con le cotiche, lo stinco di maiale con le patate e altre prelibatezze prettamente invernali. Non dovevano neanche preoccuparsi di acquistare le carni dal macellaio, noto per i suoi prezzi esagerati, in quanto negli ultimi anni erano riusciti a tirare su un consistente allevamento di maiali e bovini all'interno della fattoria.
Questo aveva reso la birreria di Ivan uno dei locali più frequentati di tutta Elengar. Luogo di ritrovo di alcolizzati ed armigeri fuori servizio. Alcuni rimanevano persino a passare la notte distesi sulle lunghe panche di legno allestite nel locale. Al mattino Kaila offriva loro un boccale di tisana ai mirtilli mentre Felz ripuliva il bancone, così se ne andavano contenti pronti per tornare nuovamente una volta calata la notte. A breve avrebbero reso anche quel servizio a pagamento, così si sarebbero trasformati da semplice birreria a locanda vera e propria. Gli affari andavano sempre a gonfie vele con l'arrivo dell'inverno.
Quel mattino non vi fu un grande afflusso di gente, giusto i soliti due clienti fissi. Il Guercio se ne stava accasciato sul bancone col suo boccale tra le mani. Da quando era rimasto ferito durante un'esercitazione militare, il regno aveva iniziato a pagargli un piccolo vitalizio che gli permetteva di mantenersi senza lavorare, in più era stato congedato dall'esercito con tutti gli onori del caso. Da allora passava ogni giorno nella birreria a sperperare quella sua ricchezza e a piangersi addosso per la sua vita inutile. Uno dei clienti migliori.
Seduto ad uno dei tavoli invece se ne stava Drei il maniscalco. Da quando sua moglie era scappata con uno dei tappezzieri in visita da Salingar, non riusciva ad iniziare le sue giornate senza un'adeguata dose di alcohol nelle vene.
A Kaila piaceva quel lavoro. Dietro ogni persona, sotto ogni espressione, si nascondeva una storia. Lei se ne stava spesso dietro al bancone a dare ascolto agli avventori che dopo il secondo boccale di birra alle castagne iniziavano a raccontargli tutti i fatti più intimi. Sapeva ogni evento che accadeva nel regno quasi in tempo reale, ma nessuno gli aveva ancora accennato al drappello di soldati che stava per fare visita alla città.

Arrivarono nel primo pomeriggio. Lasciarono i cavalli alle scarse cure dello stalliere della città ed iniziarono a girare per le strade dell'alveare. Entrarono nella birreria quando erano da poco suonate le 4 del pomeriggio. Erano in cinque. Avevano un equipaggiamento leggero, da viaggio. Sopra una cotta di maglia indossavano una casacca nera con uno stemma che Kaila non aveva mai visto. Una croce bianca circondata da quattro cerchi argentati. Tutti portavano una lunga spada al fianco destro. Roba buona. Fatta con un buon acciaio. Non come le spade di ferro arrugginito degli armigeri di Elengar. Uno di loro portava al collo un grosso ciondolo che raffigurava lo stemma della stirpe di Hoen. Il lasciapassare regale. Il soldato che lo indossava doveva essere il Capitano del drappello ed era stato mandato dal re in persona. Aveva lunghi capelli neri che arrivavano fin sotto le spalle. Li teneva legati in una coda. Non dovevano essere molto comodi in battaglia, ma d'altra parte erano in tempo di pace, pertanto non era più obbligatorio per i militari rasarsi i capelli. Aveva gli occhi di un azzurro così chiaro da sembrare argento. Quando si avvicinò al bancone Kaila notò che il suo volto era ricoperto da lentiggini molto chiare, a malapena si distinguevano dalla sua pelle d'avorio. Era molto alto, più di suo fratello Felz e anche seduto era comunque più alto di Kaila.
Mentre gli altri quattro componenti si accomodarono ad uno dei tavoli, il capo si sistemò al bancone. "Stiamo cercando informazioni" ruppe il silenzio col suo accento particolare, sembrava si sforzasse per rendere la sua calata meno riconoscibile, ma doveva venire dal continente al di là dello stretto, probabilmente dalle terre dell'est. "Che genere di informazioni?" chiese Kaila cercando di simulare disinteresse. "Il vostro Re vuole scoprire come sia stato possibile che qualcuno si introducesse nel suo palazzo". Kaila iniziò a pulire nervosamente un boccale cercando di evitare lo sguardo di ghiaccio del Capitano. "Ho sentito che il ladro è morto, si è buttato dalle mura" cercò di tagliare corto la ragazza.
"Non è quello che vogliamo sapere. Il vostro Re vuole capire come abbia fatto. Elengar dovrebbe essere la città impenetrabile, invece un tizio qualunque è entrato all'interno delle mura, ha superato la vigilanza e si è introdotto a palazzo" calcava quasi con disgusto sulle parole 'vostro Re', evidentemente non era un'autorità che riconosceva. Per qualche ragione si sentiva superiore. "Siamo stati inviati per rendere questa città nuovamente sicura" concluse sottolineando con un ghigno di compiacimento le ultime parole. Kaila sentì un brivido di paura. Si prospettavano tempi duri per la città. Doveva assolutamente disfarsi della refurtiva. "Non ho il genere di informazioni che vi servono, ma posso servirvi dell'ottima birra" rispose con la voce più amabile che la sua ansia le permettesse. "Non beviamo mai quando siamo in servizio, ma i miei uomini hanno fame" Kaila colse al volo la scusa per dileguarsi in cucina.

Era palese che in poco tempo la pigra monotonia che regnava nella città arroccata avrebbe subito un bello scossone. I nuovi arrivati non sembravano intenzionati ad andarsene. Si erano stabiliti a palazzo e da subito avevano iniziato a dare ordini in nome del Re. Furono costituite squadre di vigilanti per controllare le strade della città. Il numero di guardie alle porte e sulle mura di cinta fu aumentato. Anche durante il giorno armigeri in servizio pattugliavano le strade e stazionavano severi di fronte alle locande. Non sarebbe passato molto tempo prima dell'istituzione del coprifuoco. I forestieri dovevano già abbandonare la città prima del decimo rintocco della sera, ora in cui le grandi porte venivano chiuse. Già dopo una settimana il flusso di avventori calò drasticamente nella taverna di Ivan. Inoltre Nikolas, il Capitano, veniva personalmente ogni sera a presidiare il loro bancone. Non beveva mai e di rado lo si sentiva parlare. Se ne stava lì ad incutere timore e a far scappare la clientela.
La situazione era diventata ingestibile e Kaila sentiva la necessità di liberarsi di tutti quegli oggetti che aveva nascosto tra i fusti di birra. Una sera si decise ad agire, ma non poteva farlo da sola. Mentre Felz sistemava dei nuovi barili di birra in fermentazione in cantina, Kaila gli si avvicinò "Ti devo parlare" gli disse quasi sussurrando. "Perché parli piano? L'esercito non ci può sentire da qui" disse scherzando Felz, ma quando vide la sorella trasalire si fece serio "Che succede?" chiese. In tutta risposta Kaila gli fece segno di seguirla e lo condusse nella zona più buia della cantina, dove aveva nascosto la refurtiva.
Avvicinò una fiaccola agli oggetti e li mostrò al fratello. "Da dove viene questa roba?" chiese il ragazzo terrorizzato. "Hai presente il furto all'Archivio?" disse la ragazza fingendo divertimento "Sei stata tu? Oh dei del cielo! Ti impiccheranno per questo" Kaila fece segno di abbassare la voce e il fratello si zittì. Felz era visibilmente in angoscia "Ho preso questa roba solo perché non capissero cosa volevo veramente" cercò di giustificarsi Kaila "Il diario della mamma!" commentò Felz che aveva già capito tutto. Kaila si limitò ad abbassare lo sguardo come un cane bastonato.
"Dobbiamo liberarcene" fece il ragazzo. "Lo so, volevo portarli sulla collina di Hangwick. Quel posto si dice sia stregato, nessuno li andrebbe a cercare in quel bosco. Però non so come arrivarci". Kaila vide il fratello concentrarsi su un pensiero. Fissava distrattamente gli oggetti e si accarezzava il mento. Forse stava elaborando quel piano che lei non era riuscita a formulare. "Un modo ci sarebbe. Col papà pensavamo di andare a Salingar a vendere della birra. Se qui mettono il coprifuoco ce ne rimarrà parecchia invenduta. Possiamo convincerlo a far venire te al suo posto. Hangwick è sulla strada. Potremmo riempire un barile con gli oggetti, così mentre io proseguo per Salingar tu vai a nascondere la refurtiva."
Il piano sembrava perfetto. Sarebbe stato difficile convincere Ivan a rimanere a casa, ma le sue condizioni di salute avrebbero giocato a loro favore. Avrebbero chiamato una badante per prendersi cura del vecchio durante la loro assenza. Col fratello dalla sua parte finalmente Kaila riuscì a tranquillizzarsi. Avrebbero buttato via quella roba e tutto sarebbe tornato alla normalità. La ragazza corse in casa, entrò in camera sua e si chiuse la porta alle spalle. Si appoggiò allo stipite e lasciò che l'ansia le scivolasse via di dosso. Andò alla cassettiera e nascosto tra i vestiti ritrovò il diario che tanta pena le stava dando. Sentì la chiave sul petto scaldarsi della sua luce argentea mentre prendeva in mano il prezioso quaderno. Dal giorno del furto ancora non aveva avuto il coraggio di aprirlo, ma una volta sistemata quella faccenda si ripromise di trovare il tempo di leggere le ultime parole che la madre le aveva lasciato in eredità.
Si sdraiò sul letto e finalmente riuscì a prendere sonno. Il piano l'aveva trovato, ora doveva solo metterlo in pratica.


venerdì 5 novembre 2010

Il Diario

La notte era ormai calata da diverse ore. Le stelle erano più vivide che mai a quell'altezza, senza le luci della città ad adombrarle. Pulsavano di una luce fredda e al contempo misteriosa disegnando strane geometrie nel cielo. Come una danza magica volta a richiamare la loro regina, la loro signora che le aveva abbandonate senza lasciar traccia. Era la prima notte di Luna nuova, il momento perfetto per agire. Il buio totale ammantava tutto come una calda coperta fatta di oscurità e protezione. Nessuno avrebbe notato quello strano mantello nero che si aggirava indomito tra le guglie di protezione della torre più alta in attesa del momento giusto per muoversi.
Le fiaccole lungo le strade lentamente si spensero augurando la buona notte a tutta la cittadella fortificata. Kaila ripassò mentalmente il piano, era un buon piano, così almeno si era ripetuta fino a convincersene. Erano mesi che ci lavorava, che pianificava ogni singolo respiro, ogni singolo battito del suo cuore, ogni singolo movimento dei suoi muscoli. Fino a quel momento era andato tutto bene, ma quella era la parte facile del piano. Se avesse commesso qualche errore in quel frangente avrebbe dovute prendere seriamente in considerazione l'idea di cambiare mestiere. Non che quello della ladra fosse il suo vero mestiere. Era più un lavoro occasionale, uno di quei lavori saltuari che si fanno una sola volta nella vita giurandosi che mai e poi mai si sarebbe più corso un rischio del genere. Insomma, Kaila era alla sua prima esperienza e aveva intenzione di iniziare col botto. Di fare il colpo che ogni ladro sogna di fare prima o poi nella sua vita, e poi basta. Mai più. Non lei, la contadinella che passa la vita tra la piantagione di luppolo e la birreria del padre. Non lei, la dolce ragazza che un giorno sarebbe andata in sposa al figlio del panettiere. Era quella la sua vita. Stasera lei sarebbe stata un'estranea persino per se stessa, Kaila la Ladra. E il bello è che in città tutti la conoscevano e tutti la amavano, e quindi nessuno si sarebbe preso il disturbo di sospettare di lei, ammesso che non si facesse beccare. E questa era la parte difficile del piano, quella che sarebbe iniziata da li a poco, al primo rintocco della campana.

Tutto era cominciato circa un anno prima: al termine della raccolta del luppolo suo padre Ivan e suo fratello maggiore Felz partirono alla volta della città di Salingar dove avrebbero barattato metà del raccolto con diverse varietà di malti che avrebbero miscelato per preparare la birra. Sulla porta della birreria fu appeso il solito cartello che informava gli avventori che sarebbero rimasti chiusi per circa due settimane, e così Kaila rimase sola in casa a fare la guardia ai polli e alle anatre.
Era abitudine che, mentre gli uomini di casa si occupavano dello scambio del luppolo, lei avrebbe avuto l'onere di fare il cambio di stagione. Avrebbe portato in soffitta i panni troppo leggeri da usare in periodo estivo sostituendoli con gli abiti più pesanti, quelli di lana e di cuoio che avrebbero tenuto caldo durante l'inverno che stava arrivando. Il lavoro era lungo e metodico. Bisognava prima lavare ed asciugare tutti i panni estivi. Andavano poi piegati accuratamente cospargendoli con poca farina di mais che avrebbe impedito all'umidità invernale di far germogliare la muffa sui vestiti. I panni piegati venivano poi riposti in due bauli leggeri di cuoio rinforzato avendo cura di riempirli il più possibile così da lasciare nel baule meno aria possibile. Infine avrebbe aggiunto qua e la tra i vari strati di stoffa dei rametti di fiori di lavanda che servivano a tener lontano le tarme. Era sufficiente un solo baule per stipare tutti i panni del padre e del fratello, mentre il secondo baule era completamente riservato a lei.
In famiglia non erano molto ricchi, ma il padre adorava vederla girare per il paese come un'aristocratica signora, quindi metteva ogni soldo da parte per farle la dote e, ogni tanto, per comprarle qualche vestito nuovo, di quelli buoni, non come gli stracci che indossava lui. Nel tempo i vestiti si erano accumulati e adesso Kaila poteva persino cambiarsi d'abito una volta a settimana.
Una volta portati i bauli estivi in soffitta, era il momento di portare quelli invernali al lavatoio, ma mentre cercava di tirar giù da un ripiano l'ultimo dei bauli, il suo, quello più grosso che si incastrava sempre, fece troppa forza e venne giù tutto lo scaffale. Kaila rovinò a terra e su di lei si riversò tutto il contenuto dei ripiani, compresi i ripiani stessi. Non si era fatta molto male nella caduta, i bauli che aveva ordinatamente posato sul pavimento avevano attutito la caduta dello scaffale, ma qualcosa di pesante le era caduto in testa, e quello si che le aveva fatto male. Era un baule più piccolo degli altri. La ragazza non l'aveva mai visto, probabilmente era nascosto sul ripiano più in alto dove lei non arrivava. per di più nella caduta si era aperto e adesso il contenuto era completamente rovesciato sul pavimento. Kaila si tirò via da sotto lo scaffale e cercò di alzarsi. La fronte le pulsava fortissimo dove il baule l'aveva colpita, le girava anche un po' la testa, tanto che dovette appoggiarsi ad una delle colonne che reggevano il tetto per evitare di cadere di nuovo. Si toccò dove le faceva male e fu come se un ago rovente le si fosse conficcato nella fronte, la testa girò ancora più forte e quasi perse l'equilibrio. Scivolò a sedere con la schiena lungo la colonna e aspettò un po' che il dolore si affievolisse. Si ritrovò accucciata accanto al baule e al suo contenuto e la cosa che le saltò subito agli occhi fu un disegno, o meglio, l'angolo di un disegno che sporgeva dal baule rivoltato. Lo trasse a sé e rimase a bocca aperta.
Kaila sapeva che da giovane il padre era un bravo disegnatore, molti venivano alla sua fattoria per chiedere un ritratto, ma lei non lo aveva mai visto disegnare. Suo fratello le aveva raccontato che aveva smesso quando la loro madre era morta e aveva bruciato tutti i dipinti che aveva realizzato. Quello si era salvato, ed era anche evidente il perché, era un disegno meraviglioso, che ritraeva sua madre seduta su una sedia a dondolo intenta a cullare un neonato. Il neonato aveva un vestitino con una 'K' ricamata sopra. Era la sua iniziale. Quel neonato doveva essere lei, e la madre, oh com'era bella, e quanto era radioso il suo sorriso. Quello doveva essere il baule in cui il padre aveva nascosto tutti i ricordi che aveva della defunta moglie.
Per un attimo Kaila pensò di aver profanato una sacra reliquia, ma poi la curiosità ebbe la meglio e, ancora dolorante, si avvicinò al baule e cominciò a studiarne il contenuto.
Oltre a qualche disegno aveva trovato un paio di vesti, una delle quali doveva essere quella che sua madre aveva indossato il giorno del matrimonio. Trovò l'anello con cui suo padre l'aveva sposata. Trovò anche alcuni sacchetti contenenti petali ormai secchi di fiori che Kaila non riuscì ad identificare. Mentre riponeva tutto nel baule con meticolosità quasi reverenziale, vide un piccolo luccichio proveniente da una tavola del pavimento. Qualcosa uscito dal baule si era conficcato nel legno, Kaila lo raccolse e vide che era una chiave d'argento, piccolissima, impensabile che potesse aprire qualcosa, per di più non c'era niente nel baule che richiedesse di essere aperto con una chiave. Decise di tenersela, prese la catenina che portava al collo, se la tolse e vi infilò la chiave. Finché non avesse scoperto cosa poteva aprire, quella chiave sarebbe stata il suo ciondolo, il suo ricordo di una madre che purtroppo non aveva avuto modo di conoscere.

I giorni passarono e Ivan e Felz fecero ritorno a casa con un carico abbondante, nei giorni successivi avrebbero iniziato a preparare i barili di birra per la fermentazione, quindi sarebbero stati indaffarati, e comunque la taverna andava riaperta, quindi a Kaila spettò il compito di stare dietro al bancone. In lei si fece forte la voglia di chiedere informazioni al padre a proposito della madre e di quella piccola chiave, ma per qualche motivo rimandava sempre. Aveva paura, di cosa non lo sapeva, ma ogni volta che provava ad avvicinare il padre si bloccava.
Decise di rivolgersi al fratello, dopotutto lei era ancora piccola quando la madre morì, ma il fratello aveva compiuto sei anni, doveva pur ricordarsi qualcosa. Così si fece coraggio e andò nella stanza di Felz. "Tu ti ricordi di quando è morta la mamma?" la domanda a bruciapelo aveva spiazzato il ragazzo che impiegò qualche istante a riprendersi "Perché me lo chiedi?" cercò di evadere la richiesta. "Beh, in soffitta ho trovato un baule con dentro le cose della mamma, c'erano anche dei disegni di papà, e poi c'era questa" Kaila tirò fuori dalla veste il ciondolo-chiave e lo mostrò al fratello che assunse un aria quasi seccata. "Senti Kai, quella chiave dovrebbe sparire, non la dovrebbe trovare nessuno, buttala nel fiume appena puoi". La ragazza fissò quell'innocuo pezzo di metallo senza capire come potesse essere così pericolosa. Il fratello, cogliendo il dubbio negli occhi di Kaila cercò di spiegare. "Vedi, la mamma non era di queste terre, veniva da Andalia, la città nel cielo, la città perduta. Quello che so è che quelli della sua Stirpe erano perseguitati perché avevano degli strani poteri, è per questo che la mamma è stata ammazzata". Ammazzata. Kaila sapeva che la madre era morta di febbre nera, e invece era stata ammazzata. Crollò a sedere sul letto alla notizia, con lo sguardo perso nel vuoto. "Non te l'abbiamo mai detto perché non volevamo che vivessi nella rabbia e nell'odio come noi". Kaila rimase a sedere ancora qualche istante a giocare nervosamente con la piccola chiave tra le mani. "A cosa serve la chiave?" chiese ancora "Non lo so, dico sul serio, ma se è della mamma avrà qualche potere magico, guarda come luccica, qui non ci sono luci forti che possano giustificare quella strana luminosità". Questo Kaila non l'aveva ancora notato, ma in effetti era vero. L'aveva sempre guardata di giorno, e comunque l'aveva sempre tenuta sotto le vesti al riparo da sguardi indiscreti, eppure adesso che l'aveva in mano non riusciva a spiegarsi come aveva fatto a non notare quella luce fioca e argentea che la chiave emanava.
Si congedò dal fratello con un sorriso forzato e se ne tornò nella sua stanza, al buio, a fissare la chiave che rischiarava debolmente il palmo della sua mano. Neanche si accorse delle lacrime che avevano cominciato a scendere sulle sue guance, prima piano, poi sempre più copiose e accompagnate da qualche singhiozzo. Pianse per ore, poi, sfinita, si addormentò. Sognò una luce immensa e poi un sorriso, un sorriso senza volto, come se fosse libero dai vincoli corporei ma legato direttamente ad un'anima. Un'anima gentile di uno sfavillante colore dorato. Un'anima che l'avrebbe aiutata, a fare cosa, ancora non lo sapeva, ma la fece sentire bene.

Per alcuni giorni Kaila evitò di incrociare lo sguardo del fratello che, dal canto suo, aveva deciso di lasciarle il tempo di metabolizzare le sue parole. Una sera, mentre infuriava la tempesta, lei rimase da sola nella birreria con il padre. Con quel freddo maledetto e la mole d'acqua che veniva giù, nessuno avrebbe rinunciato al calduccio del proprio focolare. Non per quella sera almeno, neanche per assaggiare la birra di Ivan, rinomata in tutto il paese. L'occasione era perfetta, il padre era piuttosto allegrotto, anche grazie a qualche pinta di birra di troppo. Era il coraggio l'unica cosa che mancava all'appello, quello di Kaila ovviamente, perché di quello di Ivan non si poteva dubitare, soprattutto dopo che lo aveva spinto ad aprire la taverna anche con quel tempo del cavolo.
Kaila fece un respiro profondo e iniziò a parlare, tutto d'un fiato, così da evitare di perdersi nel discorso e di iniziare a pentirsi di aver aperto bocca. "Ecco, ho trovato questa chiave... stava nel baule della mamma... non volevo, è che mi è caduto in testa... e ho trovato la chiave... so com'è morta la mamma, me l'ha detto Felz... mi ha detto di buttarla... ma io non ce l'ho fatta... non ti arrabbiare... volevo sapere... ecco... insomma, la chiave aprirà qualcosa, certo, è una chiave... ma non ho trovato niente e... non volevo frugare, è che mi è caduto in testa e... e si è aperto... ma poi l'ho rimesso a posto... però ho tenuto la chiave..." La voce della ragazza si spense con le lacrime che le riempivano gli occhi, lo sguardo basso per non incontrare quello del padre. All'improvviso due possenti mani le si appoggiarono sulle spalle, ma con delicatezza. Sussultò un attimo, poi alzò gli occhi a cercare quelli del padre. Le stava sorridendo, ma era un sorriso triste. C'era tristezza nei suoi occhi, però non era arrabbiato. Era quello sguardo, di quello aveva paura, era quello che le impediva di parlare. Non era la rabbia che temeva, ma la tristezza. Quella tristezza che inevitabilmente arriva quando si riporta a galla un dolore forte.
"Quella chiave apre il diario di tua madre. Vedi, gli Edori, la Stirpe da cui discendeva tua madre, avevano il potere della preveggenza, e questo spaventava molta gente, gente stupida, così tua madre si teneva per se le sue profezie. O meglio, le scriveva su un diario, era un piccolo quaderno con poche pagine, ci appuntava solo quelle che riteneva più importanti. No, so cosa stai per chiedere, io non le ho mai lette e no, non ho il diario con me. Quello le fu confiscato, prima che me la impiccassero come eretica. Se lo sono tenuti nel loro archivio nella speranza di riuscire ad aprirlo. Idioti. Quella chiave è magica, come lo è il diario, senza quella chiave non si potrà mai aprire, quindi finché quella chiave sarà al sicuro, nessuno potrà leggere quelle profezie."
Kaila si sedé su una panca e così fece il padre, così che lei potesse appoggiarle la testa sulla spalla. "Dov'è successo?" "Qui ad Elengar, sono passati ormai tredici anni" Kaila continuò a fissare la chiave che teneva in mano, quel bagliore adesso la turbava. Fece per restituirla al padre, ma Ivan prese la mano della ragazza e la chiuse intorno alla chiave "Questa chiave ti appartiene, tua madre voleva che l'avessi tu". "Come fai a saperlo?" chiese lei perplessa "Quel diario lei ce l'aveva da prima che la conoscessi, eppure, guardala bene, intendo la chiave, avvicinatela". Kaila fissò quella chiave da pochi pollici di distanza e, per la seconda volta, rimase stupida, un altro dettaglio così evidente le era sfuggito: il passachiavi, il foro che permette ad una chiave di essere inserita in un portachiavi, era forgiato a forma di 'K', ancora una volta la sua iniziale. Kaila sorrise. Guardò il padre e sorrise di nuovo, di gusto. Era felice. Sua madre le aveva lasciato un dono. "Dai su, andiamocene a casa che tanto stasera non si batte cassa".
Quella notte Kaila non pianse come si sarebbe aspettata, non odiò neanche, come invece si aspettava il fratello. No, quella sera Kaila iniziò la sua metamorfosi che l'avrebbe fatta diventare una ladra. Quel diario era suo e aveva il diritto di riprenderselo. Lo avrebbe fatto ad ogni costo. Fuori la bufera si era calmata e dalle nuvole fece capolino la Luna. Un piccolo raggio di quella luce argentea passò dalla finestra di Kaila fino ad arrivare alla chiave che iniziò ad irradiare tutta la stanza con quella stessa luce. Avrebbe ripreso quel diario, a costo di diventare una ladra. Era il suo destino. Era quello che avrebbe voluto sua madre. Questo fu il suo ultimo pensiero, poi venne il sonno. Un sonno agitato e pieno di luce, e c'era di nuovo l'anima gentile che l'avrebbe aiutata. Era forse una profezia? Aveva anche lei i poteri della madre? Forse rubare il diario sarebbe stato più facile del previsto. No, quello l'avrebbe fatto da sola. L'anima gentile sarebbe arrivata dopo. Poi di nuovo quella luce immensa, potente, magica e tutto divenne confuso, come se si fosse alzata una fitta nebbiolina dorata. Kaila alzò lo sguardo e la vide, immensa, nel cielo. Era Andalia. La terra degli Edori. La terra della sua Stirpe. E lei l'avrebbe ritrovata.