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domenica 28 agosto 2011

Mal di Denti

Il titolo non c'entra nulla con quello che voglio dirvi, ma è l'unica cosa alla quale riesco a pensare... ho come la sensazione che una stella si stia trasformando in una gigante rossa direttamente all'interno della radice di uno dei miei molari e la cosa non è affatto piacevole.

Anyway, vi scrivo per aggiungere due righe al post precedente. Come vi avevo annunciato, L'Angelo della Morte è un racconto breve che avevo scritto per il concorso di scrittura indetto da Arte Scritta, un gruppo di deviantArt al quale sono iscritto e che ogni 2 mesi propone un tema con il quale gli scrittori alle prime armi come me possono dilettarsi. Il tema del concorso era "Dura Lex Sed Lex" il quale, come dissero gli stessi organizzatori, si presta a mille interpretazioni. La mia è stata un po' sui generis e al limite del fuori tema, ma a quanto pare è piaciuta e mi hanno votato come il migliore (non smetterò mai di ringraziarli). Tra l'altro per me è stato un grosso esperimento perché andava decisamente al di fuori dei miei canoni e per una volta ho tirato fuori qualcosa di abbastanza deviato (cosa che con i racconti per ragazzi non si può certo fare). Mi sono molto ispirato ad uno dei miei scrittori preferiti: Chuck Palahniuk autore tra l'altro di best seller come Fight Club e Survivor (quest'ultimo è forse quello che mi ha ispirato di più). L'esperimento è andato bene ed è stato molto apprezzato dalla comunità di deviantArt e spero tanto che piaccia anche a voi.
Il concorso si è svolto più di 3 mesi fa e la premiazione risale a circa 2 mesi fa... come mai ci ho messo tanto a postarlo anche qui? Beh, all'inizio volevo che per la durata del concorso fosse un esclusiva di deviantArt, forse in maniera un po' infantile ho temuto che le persone che mi seguono qui sarebbero venute a votarmi su devianArt, ma questo avrebbe falsato il giudizio finale del gruppo e volevo vincere in maniera onesta senza aiuti esterni (non ho permesso neanche alla mia ragazza di esprimere il suo voto in mio favore). Dopo la vittoria volevo postarlo subito, ma parte del premio consisteva in un'illustrazione dedicata al pezzo e mi sarebbe piaciuto postarla insieme al racconto, ma ad oggi ancora non mi è stata consegnata, e quindi ho deciso di lasciar perdere e di postare lo stesso il racconto. D seguito vi riporto lo schizzo preparatorio dell'illustrazione che ho vinto, ho lasciato all'autore carta bianca chiedendogli di rappresentare il racconto o semplicemente ciò che gli aveva suscitato, fatemi sapere cosa ne pensate e riporterò le vostre opinioni a SerJ-o (l'illustratore).




L'Angelo della Morte


La penombra domina su quel lungo corridoio. solo una esile lampada al neon sul soffitto cerca di portare avanti la sua epica battaglia contro il buio. Il rumore ritmico e, diciamocelo, anche un po' fastidioso delle continue scariche di corrente rompono il silenzio perfetto della notte. Provano ad eccitare quel poco gas ancora rimasto nel tubo della lampada, ma è una battaglia persa. Un po' una metafora dell'uomo moderno che vive in una costante guerra contro l'impotenza. Niente eccitazione, niente luce e la battaglia continua estenuante, snervante, inutile.
Di quei cento metri di cemento e piastrelle e porte e sedie e quadri rimane solo l'immagine impressa nella retina che subito dopo l'ennesima scarica sfuma nello scuro abisso della notte. Ombre e riflessi come fantasmi abbandonati si agitano sul fondo dei miei occhi come echi di tutte le persone che sono state qui, che qui hanno trascorso i loro ultimi giorni e che infine sono scomparse. Scomparse come nebbia al mattino e che adesso riappaiono tra gli sprazzi di vita di una lampada moribonda.
Sarebbe ora di cambiare quella lampada, e forse anche le altre due che si sono arrese al buio esalando il loro ultimo sbuffo di gas. Il problema è che dovrei farlo io, dovrei essere io a sostituirle. Ho qui sotto la scrivania le lampade nuove ancora dentro i loro imballaggi originali, mi basterebbe prendere la scala dallo sgabuzzino, svitare i vecchi tubi di neon e installare quelli nuovi. Un lavoretto da cinque minuti appena, ma questo significherebbe dire addio ai miei fantasmi, ai miei echi, alla mia vita. Quindi me ne rimango qui sdraiato sulla mia poltrona in poliestere e metallo, coi piedi appoggiati sul bancone a godermi lo spettacolo delle anime danzanti.

Qui di anime ormai ce ne sono davvero troppe. Se mi fossi preso la briga di raccogliere in una bottiglia, ampolla o barattolo le ultime esalazioni di tutti i pazienti che sono morti in queste camere, probabilmente adesso avrei una cisterna piena di anime. Una sorta di salvadanaio della vita umana, una raccolta degli ultimi istanti terreni delle migliaia di persone che qui sono venute a morire.
Il reparto Hemerton del Memorial Hospital non è un posto dove si cura la gente. Oddio, dipende da cosa voi intendiate per 'curare'. Qui vengono ricoverate tutte quelle persone per le quali non è più possibile fare nulla. Malati terminali di cancro, pazienti con malformazioni cardiache gravi che non sono risultati idonee al trapianto e così via, la lista è lunga. Dite una malattia grave e io l'ho vista. Abbiamo anche la sezione riservata alle malattie infettive gravi. Nel momento in cui varchi la soglia di questo corridoio hai già il cartellino bianco attaccato all'alluce del piede con sopra il tuo nome, la tua data di nascita e il mese e l'anno della tua morte. Manca solo il giorno, quello è variabile, ma di solito, se arrivi qui, non ti restano più di cinque o sei giorni di vita. Anche meno se io sono di turno.

E' la vita, l'intollerabile legge della vita: si nasce, si vive, si muore, cambiano solo le modalità. Nessuno può sottrarsene, si può solo sperare di vivere in maniera decente e morire senza troppo dolore, cose che qui di solito non si vedono, e quindi i fantasmi si accumulano e le anime si mischiano e si conpenetrano con l'aria appesantita e dolciastra che ogni notte continuo a respirare.
Odore pungente di pelle rancida che si mischia alle essenze di mughetto. Odore acre di vomito che si annulla nel profumo di pino selvatico. Odore metallico di sangue che si dissolve nell'aroma di violette. L'unica cosa che è rimasta da curare qui sono gli odori, e anche quello lo si fa più per i familiari che per i pazienti, per creare l'illusione che il caro estinto stia bene. Col pannolone pieno di merda fumante, con i polmoni pieni di liquido ormai viscoso, con lo stomaco pieno di ulcere e sangue, ma almeno non puzza, e tanto basta alla gente per rasserenarsi, per avere la forza di sorridere. La forza di sostenere il senso di colpa per quel distaccato disinteresse che progressivamente prende forma nei confronti di chi un tempo si è amato, odiato, sopportato e che ora è poco più di un impegno trascurabile su una agenda dimenticata chissà dove.

E' una reazione normale, un po' come andare a portare i fiori sulla tomba di uno che da questo reparto è già uscito. Poco più di un rito per sentirsi la coscienza a posto, per darsi l'illusione di non aver dimenticato. La sofferenza, quella vera, quella con le lacrime e i songhiozzi, con la disperazione che ti osplode dagli occhi e dal naso, quella la gente l'ha già vissuta. Un giorno arriva un dottore, uno vero, non come quelli che si aggirano per questi luoghi. Arriva e ti comunica che tua madre, tua nonna, tuo fratello o tuo figlio verranno spostati qui da noi al quinto piano. Ti dice che lo fanno per metterlo più a suo agio, per dargli conforto in questi ultimi momenti e tu all'inizio non capisci, pensi quasi di aver vinto alla lotteria. Gli daranno una stanza più grande che non dovrà condividere con altri pazienti. Avrà grandi finestre che daranno sul cortile interno e sul roseto. Avrà la TV e il bagno privato. Avrà tre pasti al giorno e su ordinazione. Quello che non ti dice ma che dopo poco capisci da te è che potrà godere di questo paradiso solo per pochi giorni, poi il letto verrà rifatto, le lenzuola verranno lavate, la composizione floreale sul davanzale verrà cambiata e un altro paziente occuperà la camera.

Nel momento in cui questo pensiero si fa strada nella tua testa, la consapevolezza di aver perso il tuo caro diventa una certezza. Quei pochi chili di carne e ossa sono solo il ricordo della persona che era un tempo e che ormai ti ha abbandonato. Da lì alla disperazione il passo è breve. Abbiamo uno psicologo interno che si guadagna lo stipendio semplicemente cercando di dare conforto ai vivi, mentre noialtri del reparto Hemerton cercheremo di dare conforto ai morti. E io questa missione l'ho presa sul serio. L'ho sposata e amata da quel lontano giorno di quattro anni fa.

La prima volta è sempre un incidente, mi avevano avvisato, ma pensavo fosse la solita solfa che si dice per spaventare i novellini. Sbagli a dosare la morfina, dimentichi di controllare che non ci siano bolle d'aria nella siringa, agganci male la sacca nuovo con la fisiologica. Capita a tutti, è un po' un iniziazione il tuo primo omicidio. Beh, non è proprio questo che viene scritto sul certificato di morte. Cause naturali. E' questo che diciamo ai parenti e loro di solito non fanno storie, non piangono nemmeno, erano già preparati. Dopotutto non è un grave errore, al massimo hai rubato un paio di giorni di vita ad una persona che non li avrebbe vissuti. Come rubare i broccoli dal piatto di un bambino, difficilmente nessuno se ne lamenterà, soprattutto non il bambino.

Nel mio caso dimenticai di aprire la bombola dell'ossigeno. Il respiratore si bloccò e madre natura fece il resto. Quando me lo dissero rimasi agghiacciato. Ero lì da pochi mesi e mi aspettavo una lavata di testa epocale e invece ricevetti solo una pacca sulle spalle e alcune parole di conforto. Cose che capitano. Rimasi ore a fissare quel corpo esanime che non voleva saperne di ricominciare a respirare. Mi aspettavo odio e ricevetti gratitudine. La nipote arrivò nel pomeriggio, cercai di spiegarle cosa era successo, mi sentivo in colpa ed ero pronto a costituirmi. Lei mi guardò con i suoi profondi occhi blu, si scostò una ciocca di capelli biondi da davanti alla bocca e con quelle labbra carnose pronunciò una parola che mi rimase scolpita per sempre nell'anima: "Grazie".
Non una lacrima, non un singhiozzo, neanche un insulto, solo un profondo e sincero ringraziamento. Avevo dato la pace ad una persona che se lo meritava. Cos'avesse fatto per meritarlo non l'ho mai saputo, ma io l'avevo salvata. Sono cose che ti segnano e che ti cambiano. I sensi di colpa erano spariti, come lavati via dal vento. Rimorsi, rimpianti, paure, tutto scomparso, come l'anima imprigionata in quell'ammasso di pelle e tumori. La mia prima anima. Mi sentivo onnipotente, mi sentivo realizzato. Avevo trovato il modo di adempiere alla mia missione, il mio modo di aiutare la gente.

Per definizione un serial killer è uno che ammazza la gente, ma quelli che arrivano qui sono già morti, quindi non è un vero e proprio omicidio, è più un modo per accorciare i tempi. Come quando si trova una soluzione per evitarsi di riempire montagne di scartoffie. Come quando si cerca di preparare un esame difficile studiando solo le dispense e i riassunti fatti da altri. La gente muore, è un dato di fatto, l'unica vera legge alla quale non si può sfuggire. Il vero assassino si macchia della colpa di aver sottratto l'esistenza o parte di essa a persone che avevano ancora qualcosa da dare al mondo o alla gente che li circonda e che li ama, li odia, li sopporta. Io qui non sottraggo niente a questi pazienti, non hanno più niente da dare al mondo se non escrementi e vomito. Anche i parenti delle mie vittime non si sentono privati di nulla, quello che avevano da perdere lo avevo già perso. Hanno solo bisogno di poter voltare pagina e io do loro il modo di farlo, di ricominciare a vivere la loro vita e di risparmiarsi altri giorni di affanno e di depressione. Sono loro i miei pazienti, quelli che a conti fatti posso davvero curare. Dopo il mio speciale trattamento ritornano a respirare, a sorridere, a vivere. Io do loro una nuova esistenza, e ogni tanto ci rimedio anche qualcosa. Il più delle volte una scatola di cioccolatini, un mazzo di fiori o un maglione, ma a volte anche qualche soldo e persino una scopata di straforo nello sgabuzzino. Negli ultimi quattro anni ho imparato ad amare questo lavoro.

***

Il quadro di segnalazione prende vita all'improvviso. Sotto il numero 14 inizia a lampeggiare furiosamente una luce bianca. Devo essere sincero, so a cosa serve quel quadro, ma mai lo avevo visto attivo, non ero neanche tanto sicuro che funzionasse. Di sicuro di giorno servirà a qualcosa, le infermiere vengono chiamate di continuo dai parenti dei cadaveri qui ricoverati per qualsiasi tipo di inezia, dal cambio del pannolone all'acqua per i fiori. Ma mai era capitato durante il turno di notte di vedere quel quadro illuminarsi.
Prendo la cartella con la lista dei degenti. La mia personale lista delle cose da fare, o meglio, delle persone da 'aiutare'. Scorro lentamente tra i nomi sul foglio e sul quale ancora non ho scritto il giorno e l'ora del decesso. Casualmente muoiono tutti durante il mio turno. La signora Perez ha ricevuto ieri la sua dose di varecchina. Il signor Joden ci ha lasciato col sapone per i pavimenti. Hellen della numero 6 ha scoperto che la CocaCola è meglio berla piuttosto che averla in circolo nel sangue. Il povero signor Rupert della stanza 9 credo abbia avuto qualche problema con delle bollicine d'aria nelle vene. La stanza numero 13 è il mio fiore all'occhiello, la signora Jensen si è ritrovata un grammo sano sano di acido lisergico nella sua fisiologica. Prima di morire si deve essere fatta uno di quei trip che neanche posso sognarmi.
La maggior parte dei nomi neanche me li ricordo. Sono solo numeri su una lista di cose da fare. C'è chi va a fare la spesa e chi dispensa morte, ad ognuno la sua specialità. Eppure il 14 proprio non me lo ricordo, la signora Madison ancora non ha avuto il piacere di incontrarmi e adesso sembra che abbia fretta di conoscermi.

La luce del quadro continua a lampeggiare insistentemente. I miei occhi ormai abituati ad una vita in penombra iniziano a fare male abbagliati da quella misera lampadina. Vediamo cosa vuole. Camminare per questi corridoi fa un certo effetto, nel silenzio quasi totale i miei passi sembrano quelli di un elefante nella savana. Il rumore da al cervello e sembra di camminare nel braccio della morte di un penitenziario nel giorno dell'esecuzione, sensazione che, per inciso, prima o poi temo dovrò provare. L'iniezione letale sarebbe l'ideale, quasi poetico, il classico cerchio che si chiude. Devo ricordarmi di proporlo al giudice che dovrà emettere la mia condanna, nel frattempo sarò io a decidere di che morte dovrà morire la signora Madison.
La stanza all'interno è buia e silenziosa. La porta si apre lentamente con un leggero cigolio. Mi aspetto da un momento all'altro le luci che si accendano e un nutrito gruppo di persone mi urla: "Sorpresa!" Poi però mi accorgo che sono tutti in divisa e con le pistole puntate verso di me. Devo decisamente rivedere il mio concetto di senso di colpa, non sono più tanto sicuro di non averne.
Con un filo di voce sussurro "Signora Madison?"
"Finalmente!" l'urlo arriva dall'altro lato della stanza e mi trapassa il cranio. Sento distintamente il mio cuore perdere diversi colpi, la testa gira mentre i brividi percorrono i miei muscoli improvvisamente tesi. Le vertigini sono la naturale risposta dell'organismo a qualcosa di imprevisto, inatteso e, soprattutto, indesiderato. Che sia un virus o qualcuno che ti fa prendere un colpo, la prima reazione è quella di sentire il pavimento girare mentre si perde l'equilibrio. Maledetta signora Madison.

Cerco con la mano l'interruttore e accendo la luce. La signora Madison è dall'altra parte della stanza nel suo letto che si copre gli occhi con un braccio.
"Che bisogno c'era di accendere la luce?" mi chiede con quel tono perentorio che non vedo l'ora di soffocare.
"Come potrei assisterla se non riesco a vederla?" rispondo io col tono più pacato che mi riesce.
"Non ho bisogno della sua assistenza" questo lo dice lei, a breve cambierà opinione.
"Allora come mai mi ha chiamato?" un po' di inutile conversazione non fa mai male, di solito i miei 'pazienti' sono tutti in coma o addormentati o ridotti a qualcosa di estremamente simile ad un vegetale.
Afferro la cartella clinica agganciata ai piedi del letto e scorro velocemente tra le varie note. La signora ha un tumore al pancreas con metastasi estese. Soffre di itterizia e arteriosclerosi. Perfetto, abbiamo nonna Simpson qui. Direi che la mia cura prevederà una soluzione di perossido di idrogeno al 30%. Nelle sue vene ci saranno dei veri e propri fuochi d'artificio. Una bella emolisi e tanti saluti alla signora Madison. Dovrebbero farmi impiegato del mese.

"Non voglio sapere di cosa sto per morire, lo so già" non mi piace ripetermi, ma questo lo dice lei, a breve cambierà opinione. 
"Voglio solo sapere se Jonathan è passato a trovarmi" e qui la sua voce si affievolisce, lo sguardo si abbassa, le guance si increspano come se fossero leggermente risucchiate all'interno della bocca, sulla fronte una fittissima ragnatela di rughe si contrae. Se al corso d'arte, uno dei tanti che ho abbandonato a metà, mi avessero chiesto di dipingere la tristezza, l'avrei rappresentata così.
Per queste cose paghiamo uno psicologo, non sono certamente io la persona più adatta a consolare un paziente, al massimo potrei dare una ripassatina alla nipote, ammesso che ce l'abbia e ammesso che sia carina, mah, in realtà non è così necessario che sia carina, mi basta sia disponibile. Devo ricordarmi di chiederle se ha una nipote, o forse potrei scoprirlo dalla cartella clinica.
"Adesso controllo" le dico e intanto mi faccio un po' di affari suoi, ma delle tante informazioni inutili riportate, nella cartella non trovo niente su parenti o visite. Niente nipotina ne informazioni su questo Jonathan.
"Jonathan sarebbe..." lascio morire la voce con la classica intonazione che nel linguaggio universale significa: completa la frase stupida vecchia. Alzo lo sguardo dalla cartella per sollecitare una risposta, ma lei non se ne accorge, con gli occhi rossi e lividi ormai è persa nei suoi ricordi, o almeno quei pochi che le restano.
"Jonathan è mio figlio" risponde lei con un filo di voce increspata dal pianto.

Appoggio la cartella al suo posto e mi avvicino al letto. Le chiedo "Ha per caso il suo numero di telefono? Posso provare a rintracciarlo" ma non ricevo risposta. Un rivolo di bava scende lentamente lungo la sua guancia e il suo respiro lento e regolare indica che si è addormentata. Adoro gli arteriosclerotici.
Beh, questa donna non si ammazzerà di certo da sola, qualcuno dovrà pur farlo, quindi vado in bagno a prendere l'acqua ossigenata. Mentre armeggio nel mobiletto dietro lo specchio alla ricerca del barattolo giusto, una confezione di pillole mi cade e si rovescia a terra. Tante piccole pastiglie si sparpagliano ovunque sul pavimento del bagno.
"Jonathan, sei tu?" la voce della signora Madison arriva un po' a singhiozzi. Mi affaccio dal bagno per tranquillizzarla e nonappena mi vede le pupille le si dilatano quasi nascondendo le sue iridi argentate, la fronte le si distende per quanto le rughe riescano a permetterle, le guance si tirano indietro creando due piccole fossette, le labbra le si tendono fino quasi a creparsi. Se al corso d'arte mi avessero chiesto di dipingere la felicità, l'avrei rappresentata così.

"A dire il vero io..." provai a dire lasciando morire la voce e accennando a voltarmi verso il bagno. Gesto che nel linguaggio universale significa: e adesso che mi invento?
"Accidenti, mi hai fatto proprio sospirare, avevo così voglia di rivederti prima di tirare le cuoia" neanche raccogliendo tutto il cinismo e l'astio nei confronti della vita che mi scorre nelle vene riesco a disilludere tutta quell'aspettativa. Per la prima volta ho l'occasione di curare almeno l'anima di uno dei miei pazienti, dei miei fantasmi. Certo magari eviterò di scriverlo nel curriculum, ma potrebbe essere un modo interessante per ammazzare almeno la noia.
"Scusami... mamma... c'era traffico" non sono mai stato bravo ad inventare balle.
"Oh, non ti preoccupare, l'importante è che tu sia qui adesso. Vieni a sederti" e con la mano indica la sedia accanto al letto. Lentamente esco dal bagno e con il barattolo di acqua ossigenata ancora in mano mi dirigo verso la sedia. Accanto a me, sul comodino, alcuni effetti personali della signora ed una foto incorniciata. La prendo e la guardo distrattamente, è la foto di un bell'uomo giovane in giacca e cravatta, probabilmente Jonathan. Jonathan, Jonathan, Jonathan. Perché mi ricordo questa faccia? Se ne ho memoria io non è buon segno. Difficilmente mi capita di incontrare gente al di fuori dell'ospedale. Coi turni che faccio, durante il giorno dormo e le notti le passo sempre qui dentro. Vita alienante ma tranquilla. Non mi piace la confusione del mondo esterno, preferisco la pacata calma dei miei fantasmi. Jonathan, dov'è che ti ho già visto?
"Ancora trovi il coraggio di prendere la macchina dopo quel brutto incidente? Te l'ho detto un sacco di volte che devi andare in giro con i mezzi pubblici" questo spiega tante cose. Buffo, il parente che stavo per curare in realtà è già stato mio paziente. Jonathan l'ho ammazzato io.

La luce rende lucido il vetro della cornice e il riflesso del mio volto si sostituisce all'immagine di Jonathan. Il mio sguardo è vitreo, quasi inespressivo, la barba incolta, le mascelle serrate e le orecchie arrossate. Se al corso d'arte mi avessero chiesto di dipingere i sensi di colpa è così che li avrei rappresentati. Il peso delle mie azioni, delle mie certezze e delle mie convinzioni è improvvisamente troppo grande da sorreggere. Le vertigini sono la naturale risposta dell'organismo a qualcosa di imprevisto, inatteso e, soprattutto, indesiderato. Faccio per posare la foto sul comodino ma manco l'obiettivo e la cornice si infrange per terra. Jonathan continua a sorridermi attraverso i frammenti del vetro.
"M-mi dispiace, non volevo... mi è scivolata".
"Oh, non ti preoccupare, adesso che sei qui non mi serve una stupida foto" dice lei. Io non riesco a fissarla negli occhi e non riesco neanche a balbettare nulla. Non riesco a vederlo, ma percepisco il suo sorriso benevolo, il sorriso ignaro del male che le ho fatto. Cerco di farmi forza e recuperare la lucidità. In mano ho ancora la boccetta di perossido di idrogeno. La morte è un vincolo universale, prima o poi tutti gli andiamo incontro e nessuno vi si può sottrarre. Non credo in un aldilà ne nella reincarnazione, ma il cerchio si deve chiudere e volente o nolente è mio dovere far ricongiungere la madre al figlio perduto. Almeno è quello che mi ripeto come un mantra per convincermi che quello che sto per fare è giusto e corretto. Allora perché le mani mi tremano mentre prelevo il liquido trasparente con la siringa? Una goccia mi bagna il dorso della mano e mi chiedo come abbia fatto a versare il contenuto della boccetta senza accorgermene, alla fine mi rendo conto che non è acqua ossigenata ma una lacrima, una mia lacrima.

"Perché piangi piccolo mio?" mi chiede la signora Madison.
"Perché devo fare una cosa, ma non sono sicuro di volerla più fare" le parole mi escono da sole dalla bocca. Piango come un ragazzino che si è appena sbucciato un ginocchio e abbasso la testa fino ad appoggiarla sul materasso. Sento frotissimo l'odore acre di bile e pelle morta, mi chiedo dove sia l'essenza di mughetto. La mano della signora accarezza i miei capelli radi e riesco a sentire il suo tepore che mi scalda fin dentro l'anima.
"Quando avrai fatto questa cosa potremo finalmente stare insieme per sempre, giusto? Allora che aspetti?" Mi alzo a guardarla negli occhi. Vivi e vispi come non ne avevo mai visti in questi letti. Lei non è un mio paziente, non deve essere un mio paziente, non voglio che sia un mio paziente, ma non ci si può sottrarre alla legge della vita e della morte. Nessuno è immune dal decadimento, non ci sono sensi di colpa che tengano. Il respiro si fa lento, la forza abbandona il corpo e poi c'è soltanto l'oblio. Potrei scappare da tutto questo, voltarmi, cambiare lavoro, tapparmi in casa per il resto dei miei giorni, eppure è più forte di me. Quando ti spingi oltre un limite ormai non puoi più tirarti indietro e ripensarci. Sono un drogato in cerca della sua dose di morte. La sensazione di onnipotenza e superiorità che ti si scarica nel cervello quando sai di essere il responsabile della vita e della morte altrui, questa è la mia droga, questa è la mia vita. Una vita che non voglio più, che non riconosco più, che devo combattere. Ma cosa cambia poi? Questa donna morirà comunque tra qualche giorno perdendo ogni barlume di dignità.
Ci risiamo. Prima avevo gli altri a giustificare le mia azioni e ora mi giustifico da solo. Sono un caso disperato. E mentre lo stantuffo della siringa spinge la soluzione letale nella flebo, la signora mi sorride e mi dice "Grazie".


venerdì 31 dicembre 2010

La Missione

Il buio cupo della notte era addolcito da un leggero riverbero. In lontananza il crepitio delle fiamme. L'odore acre del fumo stava riempiendo la valle e rendendo l'aria irrespirabile. Peter continuò a correre a lungo. Sentiva il fumo penetrargli nelle narici e poi giù nei polmoni. Tratteneva la tosse con tutta la sua forza per evitare di segnalare la sua presenza, di indicare ai loro inseguitori dove si trovasse e come raggiungerlo. Gli occhi iniziarono a lacrimargli per lo sforzo e la testa iniziò a girargli. Il mondo si confuse tra nebbia e vertigini. I rami degli alberi sembravano danzare per lui in quella notte infernale. Ombre spettrali si agitavano ovunque.
I primi segni di sfinimento iniziarono a colpire le sue gambe. Dolore e stanchezza si impossessarono dei suoi muscoli. La vista sempre più appannata. Continuò a correre ancora e ancora e ancora. Non voleva fermarsi. Aveva paura. Paura di morire. Paura di aver causato la morte del suo professore. L'aveva abbandonato. Il professor Stevens l'aveva seguito solo per salvarlo e lui l'aveva lasciato in balia dei loro aggressori. Non si dava pace per questo.
All'inizio gli era parsa una buona idea. Dividersi per confondere il nemico poteva portare tutti alla salvezza, ma non aveva previsto di inciampare proprio in quel ragazzo. Aveva preso un piccolo sentiero per allontanarsi dal gruppo. Sentiva il sibilo delle frecce in lontananza e voleva cercare di aggirare l'arciere per aggredirlo alle spalle, ma all'improvviso si era trovato di fronte un secondo soldato. Se ne stava acquattato nell'ombra pronto ad attaccare di sorpresa. Peter gli era letteralmente crollato addosso e lo aveva schiacciato in terra. Avevano iniziato a lottare quando all'improvviso spuntò anche il professore. Era arrivato per aiutarlo. Era arrivato per salvarlo. E invece era finito a terra.
L'intento di Peter era quello di distrarre l'arciere per permettere agli altri di scappare, e tecnicamente ci era anche riuscito, infatti il soldato era arrivato in soccorso del suo collega e aveva colpito il professore. Una lunga freccia conficcata nel polpaccio. Doveva fare un male cane. Il coraggio del ragazzo si infranse in quel momento. Si rese conto del pericolo e della sua idiozia. Quello non era un gioco e quei soldati non erano certo lì per giocare a nascondino. Peter si sentì paralizzato dal terrore e non riuscì a muovere un dito. Anche quando l'arciere si allontanò e il professore riuscì ad atterrare l'altro soldato, Peter non si mosse. Si ripeteva che non voleva lasciare da solo il suo salvatore, ma la realtà è che era terrorizzato. Ci mise un po' a decidersi a scappare. Con le mani legate dietro la schiena e con il fumo negli occhi iniziò a correre come un pazzo. Tutta la sua tecnica di atleta sparì nei meandri della sua paura. Corse finché le gambe glielo permisero. Corse finché i polmoni non gli fecero male. Corse finché i suoi occhi riuscirono a vedere. Corse finché non inciampò nella radice di un albero rovinando bruscamente a terra. Tutto si fece scuro. Il silenzio calò.

La mente di Peter vagò per ore mentre era privo di conoscenza ai piedi di un albero. Aveva battuto la testa e probabilmente perdeva sangue, ma si sentiva tranquillo. Protetto. Lasciò che la paura scivolasse via dal suo corpo, che la fatica abbandonasse le sue membra, che il dolore sparisse tra i suoi ricordi. Sprofondò in un lungo sonno senza sogni. Era stanco e devastato da quella lunga giornata. Il freddo pungente del bosco smise di aggredirlo e una familiare sensazione di tepore lo avvolse. Il respiro divenne regolare. Dormì per ore come un bambino. Tossiva ogni tanto per cacciare via quel fumo che gli si era accumulato nel petto. Le larghe foglie cadute dagli alberi gli fecero da giaciglio.
Iniziò a riprendere coscienza di sé solo quando il cielo iniziò a schiarirsi. L'aurora arrivò a strappargli via brandelli di sonno dagli occhi riportandolo alla realtà. Sentiva ancora il crepitio del fuoco, ma più leggero, soave. L'odore pungente del fumo era sparito e al suo posto l'aria era invasa da un profumo ammaliante. Qualcosa che risvegliò i suoi sensi. Cibo. Si rese conto di avere fame come mai prima d'ora. Lo stomaco ruggiva come un leone nella savana e la bocca era impastata dalla troppa salivazione. Quel profumo sembrava meraviglioso e invitante. Si sforzò di aprire gli occhi. Doveva capire. Doveva mangiare.
Si rese conto di essere al caldo. Protetto da una pesante coperta di lana. Cercò di tirarsi su, ma i dolori assopiti durante la notte tornarono a fargli visita. Le ossa erano pesanti e anchilosate. I muscoli infiammati e irrigiditi. Provò a fare forza su un braccio per alzarsi ma ricadde sdraiato. Non aveva più i polsi legati. Al posto delle corde c'erano profondi solchi escoriati con piccoli grumi di sangue rappreso.
"Non ti sforzare, cerca di riposarti" disse una voce. Peter non se lo fece ripetere e sprofondò nuovamente nell'incoscienza. L'impellente bisogno di mangiare si affievolì un po' ma non si arrese del tutto rendendo il sonno del ragazzo agitato e scomposto.

Si svegliò quasi di soprassalto scattando a sedere come se si fosse ricordato improvvisamente di qualcosa. Non aveva realizzato, non ci aveva neanche provato, ma adesso era chiaro come il sole. C'era qualcuno. Qualcuno che si era preso cura di lui e lo aveva protetto durante quella notte. Si guardò intorno ma gli occhi ancora non rispondevano bene. Annebbiati dal sonno e dalle lacrime. Vide la coperta che aveva addosso. Era lana buona e conservava ancora il suo tepore. Vide il fuocherello che scoppiettava allegro sopra dei rami secchi. Scaldava una grossa pentola di rame da dove fuoriusciva un profumo di fagioli e carne. Vide il ragazzo, il suo custode. Aveva un grosso mantello che lo avvolgeva completamente e un largo cappuccio che gli calava sul volto. Ricordava molto quello indossato da Kaila. Kaila. Come poteva averla dimenticata? Un fiume in piena di ricordi lo investì riportandogli alla mente tutti gli eventi del giorno precedente. Un groviglio di pensieri confusi e sconclusionati. Eventi strani e inspiegabili che potevano solo essere frutto di un sogno.
"Dove mi trovo? Cos'è successo? Dove sono i miei amici? Che fine anno fatto quei soldati?" Peter sentì le domande accavallarsi in fretta e furia sulla sua lingua come se sentissero il bisogno di fuggire e dovessero farlo nel più breve tempo possibile.
"Troppe domande amico mio, e non ho molto tempo per risponderti" la voce arrivò da sotto il cappuccio ma Peter non vide nessuna bocca muoversi. Aveva già visto una cosa simile. Quel ragazzo lo aveva già incontrato. Stava mescolando con un bastone il contenuto della pentola come se nulla fosse accaduto. Il profumo della carne stufata aggredì le narici di Peter e la fame ritornò più forte che mai. Aveva bisogno di mangiare. I suoi occhi si persero ad ammirare le volute di fumo che fuoriuscivano dal paiolo. La sua bocca era aperta e carica di saliva. Non avrebbe resistito oltre.
"Questa roba è tutta per te, stai tranquillo, ma adesso dobbiamo parlare" disse la voce sotto il mantello.
"Chi sei tu?" chiese Peter riscuotendosi dal richiamo ipnotico del cibo.
"Un amico" rispose l'altro.
"Non mi basta, voglio sapere chi sei! Sei lo stesso dell'altra sera, quello che mi ha indicato la via per la casa del professore?"
"Si, sono io, e per il momento dovrai accontentarti di questo. Non ho il tempo di darti altre spiegazione. Devo affidarti una missione."
"Una missione? Ma di che parli? Devo tornare dai miei amici, devo dirgli dove stanno portando Stevens. Dobbiamo andare a salvarlo."
"Non ti preoccupare dell'uomo. I tuoi amici sono al sicuro adesso e presto avranno modo di soccorrerlo, ma tu dovrai rinunciare a rivederli per un po'."
"Come fai a sapere che stanno bene?"
"Sono anni che proteggo Elliot. Di me puoi fidarti!"
Elliot. Conosceva il nome del suo migliore amico. Diceva di proteggerlo, ma non l'aveva mai visto prima di quegli eventi. Da anni poi, era impossibile. Però conosceva il suo nome. E conosceva anche quello di Stevens. Sapeva fin troppe cose e ne condivideva troppo poche. Peter iniziò a spazientirsi. Eppure sentiva che di quella persona poteva fidarsi. La stessa sensazione che aveva provato la sera del crollo della grotta, quando gli aveva indicato la strada per la casa del professore e poi era sparito. In quel momento non si era chiesto il perché di quell'aiuto o se potesse trattarsi di un inganno. Anche adesso lentamente si rendeva conto che di quella voce che si nascondeva sotto quel mantello aveva una fiducia cieca.

"Quale sarebbe la missione?" chiese con timidezza Peter. Fissava la coperta che ancora teneva sulle gambe indolenzite. Non voleva far vedere che si era arreso a quella fiducia incondizionata. Quella fiducia che progressivamente lo stava rasserenando. I suoi amici stavano bene e sarebbero andati a salvare il professore. Sarebbe voluto andare anche lui, aveva un debito di gratitudine con Stevens e voleva saldarlo. Si augurò con tutto se stesso che Elliot e Mallory riuscissero nell'impresa.
"Devi trovare un drago" esordì la voce quasi all'improvviso.
"Cosa? Un drago? Hai voglia di scherzare?" Peter si sentì spiazzato. Semplicemente pensò di aver capito male.
"Vedi Peter -si, so anche il tuo nome- l'altra sera voi tutti avete fatto un viaggio incredibile. Il luogo in cui ti trovi è lo stesso che conosci, ma al contempo è completamente diverso. Sei nel mondo della Magia adesso" spiegò il ragazzo.
"Mondo della Magia?" Peter era sempre più confuso. Si limitava a ripetere stupito le ultime parole che sentiva venire da sotto quel cappuccio.
"Beh, non è che abbia un nome vero e proprio, ma è sicuramente il modo migliore per spiegartelo. Riassumendo, tanto tempo fa Magia e Scienza convivevano in questo mondo. Una guerra enorme però rischiava di sterminare la vita sul pianeta, così fu imposto un sigillo che separò le due realtà creando due mondi paralleli che si sono evoluti indipendentemente. Tu vieni dal mondo della scienza e adesso sei finito in quello della magia. Tutto chiaro?"
"Cristallino" rispose ironico Peter. "Mi chiedo come abbia fatto a non capirlo subito!"
"Lo so che questa storia ti sembra incredibile, ma tutto ti diverrà chiaro con il tempo. Dopo che il sigillo fu imposto la guerra finì. Beh, non immediatamente, ci vollero anni, ma una profezia ne paventò il ritorno. La guerra avrebbe nuovamente imperversato su queste terre. E' per questo che ti sto affidando questa missione."
"In che modo un drago -ammesso che esista e che io lo trovi- potrebbe salvare il mondo dalla guerra di cui parli" chiese scettico Peter, ma il ragazzo che aveva di fronte si limitò a sollevare il capo nella sua direzione. Peter riuscì a vedere parte del suo volto. La sua bocca si era deformata in una specie di mezzo sorriso. "Lo capirai al momento giusto" si limitò a dire e Peter ebbe la conferma che il ragazzo non muovesse le labbra per parlare. Quella voce arrivava direttamente dentro la sua testa.
"Per me è ora tempo di andare, nella sacca al tuo fianco ci sono alcune cose: dei vestiti, un po' di cibo per il viaggio e anche qualche soldo -non è stato facile procurarmeli- troverai anche una cartina e una bussola. A due giorni di cammino in direzione nord troverai un villaggio di nome Tamal. Lì vive una donna di nome Ezra che saprà aiutarti. Dalle il ciondolo che trovi nella tasca anteriore della sacca e lei capirà."
"Tu non vieni con me?" chiese Peter preoccupato.
Il ragazzo si alzò in piedi e si voltò a guardare il lento incedere del sole nel cielo. Era ormai l'alba. Fissò la luce aumentare per qualche istante e poi si rivoltò verso Peter. "Vorrei, ma non mi è possibile, dovrai cavartela da solo. Ho piena fiducia in te" e con queste parole semplicemente scomparve. Si volatilizzò nel nulla. Sfumò nello sfondo come la nebbia che si dissolve sotto i caldi raggi del sole. Sparito.

Peter continuò a fissare per qualche minuto il punto dove il mantello era svanito nel nulla. Il sole gli ferì gli occhi e lo costrinse a distogliere lo sguardo. Si ricordò della pentola in cui bollivano fagioli e carne e la fame divampò di nuovo come un incendio. Si avventò sul contenuto e cercò di mangiarlo con il mestolo che il suo amico aveva usato per mescolare. Si ustionò la lingua, ma la cosa non lo fermò. Continuò a mangiare e a mangiare finché non fu sazio.
Con la pancia piena si distese nuovamente a terra a fissare le nuvole che correvano nel cielo tra le fronde degli alberi. Quei rami ormai quasi del tutto spogli che la sera prima lo avevano ghermito e spaventato. Il giorno maturava lentamente e la luce aumentava rendendo il bosco un posto meno spettrale. In lontananza vide alcuni solitari sbuffi di fumo alzarsi dal folto del bosco dove la sera prima era divampato l'incendio. Qualcuno era riuscito a domarlo e a spegnerlo.
Si prese il tempo di rischiararsi le idee e poi si rimise a sedere. Si guardò intorno per cercare la sacca di cui aveva parlato il ragazzo e la trovò appoggiata al tronco dell'albero che aveva accanto. Lo trasse a sé e ne ispezionò il contenuto. Era fatta in tela morbida ma resistente. Era molto grande, poteva essere tranquillamente uno zaino da campeggiatore. Si chiese come avrebbe fatto a portarlo in giro. Doveva essere molto pesante.
Prese gli abiti e li indossò. Dovette farlo sotto la calda coperta di lana perché fuori faceva troppo freddo. Un paio di pantaloni imbottiti di lana di pecora, una pesante casacca di stoffa e una giacca di fustagno. Vestito in quella maniera si sentiva ridicolo -non osava neanche immaginare come lo avrebbero preso in giro a scuola- ma dovette ammettere che non avrebbe più sofferto il freddo.
Ripose i suoi vecchi vestiti nella sacca e altrettanto fece con la coperta di lana. Prese la cartina e la bussola e si andò a sedere vicino al fuoco. Passò la mattinata mangiando ed esaminando la grande pergamena. La conformazione del luogo gli era familiare. Come aveva detto il ragazzo misterioso, quel posto era in tutto e per tutto uguale alla collina che conosceva. Aveva identificato la sua posizione e aveva trovato il villaggio Tamal che avrebbe dovuto raggiungere. Tracciò a mente il percorso per cercare di capire che strada avrebbe dovuto fare e si rese conto che la cartina era estremamente dettagliata. Sembrava fatta a mano da qualche scrivano. La carta era vergata con un leggerissimo e preciso solco di inchiostro scuro, ma non era meno precisa di quelle digitali di un navigatore satellitare. Cercò di esaminare il resto della zona per cercare di capire quanto fosse diversa, quando alla fine si accorse che ogni suo dubbio o perplessità sulla storia che gli era stata raccontata era completamente sparito. Ormai il fatto di essere in un mondo alieno impregnato di magia non gli sembrava più tanto strano. Anzi, sembra perfino la spiegazione più logica per gli eventi dei giorni passati. I fantasmi di nebbia, la luce nella grotta, i modi strani di Kaila. Tutto poteva essere spiegato con la storia dei due mondi.
Avrebbe cercato un drago. Anzi, avrebbe trovato un drago. Realizzò quanto fosse magnifica la cosa e si riempì di gioia. Era finito in un gioco di ruolo e lui ne era il protagonista. Si immaginò la faccia di Elliot quando lo avrebbe visto in sella ad un enorme e possente drago. Quella sì che sarebbe stata una bella soddisfazione. Chissà se Mallory avrebbe fatto ancora il prepotente una volta che Peter si fosse presentato col suo nuovo cucciolo. Avrebbe dovuto dargli un nome? Avrebbe potuto dialogarci? Peter era ansioso di gettarsi a capofitto in quel viaggio magico.
Finì in un sol boccone i pochi avanzi di carne e scattò in piedi. Prese in spalla lo zaino e si accorse che era estremamente leggero. Se lo tolse e lo guardò con attenzione. Lo lanciò in aria e lo riprese al volo. Pesava quanto un pallone da calcio. Non gli sembrava vero e non capiva come fosse possibile, ma dopotutto si trovava nel mondo della magia. Quante cose avrebbe visto che lo avrebbero lasciato senza parole. Quante persone avrebbe incontrato che lo avrebbero affascinato coi loro poteri. Era in un mondo nuovo e fantastico. Il paese delle meraviglie.
Spense il fuoco e si incamminò.


giovedì 9 dicembre 2010

Hangwick



La pioggia può essere un'amichevole compagna di viaggio. Kaila iniziò ad apprezzare il ritmico sottofondo delle gocce che rimbalzavano sulla tettoia improvvisata costruita da Felz. Il loro viaggio era iniziato ormai da diverse ore, ma ancora non avevano raggiunto le pendici del monte Hoen. A vederlo dall'alto, quel mondo fatto di campi, foreste e corsi d'acqua sembrava così piccolo e irraggiungibile. Sul primo punto Kaila dovette ricredersi. Man mano che si avvicinavano cominciava ad avere l'idea delle immensità che le si paravano di fronte. Sul secondo punto, beh, dopo cinque ore di viaggio ancora non riuscivano a venire a capo di quegli interminabili tornanti, quindi sì, era decisamente irraggiungibile.
Le continue curve a gomito che si alternavano sotto le lente ruote del carro avevano iniziato a dare la nausea alla ragazza. Ad ogni tornante incontravano nuove fattorie, nuovi campi, nuovi profumi. Come la città di Elengar, anche l'intera montagna sembrava un immenso alveare dove le operose api procedevano nel loro incessante lavoro. La pioggia stava rendendo la strada impervia. Placidi rigoli d'acqua ghermivano la pigra terra battuta del sentiero trascinando a valle detriti e ciottoli. Ad ogni tornate piccole cascate si univano a formare quello che sembra un leggero torrente del colore del cioccolato. Quello allungato con il latte appena munto dalle mucche. Una prelibatezza che

nei giorni di festa
Ivan preparava per i figli sciogliendo in acqua calda quei pochi blocchi di cioccolato che riusciva a permettersi al mercato. Una bevanda tanto gustosa da rendere le fredde serate invernali più sopportabili.

Una leggera sensazione di fame colse Kaila all'improvviso. Non era esattamente fame. Qualcosa di più inusuale. Era golosità. Da giorni aveva come questa strana voglia di cose estremamente dolci. Ogni volta che il sorriso gentile tornava a far visita nei suoi sogni, al risveglio sentiva il richiamo della dispensa. Quella più in alto. Era lì che Ivan nascondeva le poche leccornie che entravano in casa. Le abitudini erano dure a morire, e il fatto che ormai sia Kaila che Felz fossero abbastanza alti da raggiungere quegli sportelli non aveva spinto l'uomo a trovare un nuovo nascondiglio per i dolciumi. Eppure non era il cioccolato ad attirarla. No, quello per tradizione si mangiava durante l'inverno con il latte caldo. Non avrebbe avuto lo stesso sapore preso così, senza tutto quel contorno familiare che rendeva le serate di festa tanto speciali. L'attenzione di Kaila veniva attratta dalle ciliege. Quelle sotto zucchero che lei e Felz preparavano in agosto, dopo la raccolta.

Era stata sua madre ad iniziare quella tradizione e Kaila trovava che il rito della preparazione delle ciliege fosse come un piccolo legame che la riportasse tra le braccia di quella donna da cui era stata separata troppo presto. E poi era troppo divertente stare lì ad aspettare il concerto di schiocchi che veniva dai tappi di latta una volta che il sole aveva sciolto tutto lo zucchero presente nel barattolo. Una volta Ivan le disse che quello era un vero e proprio sigillo. Come quelli che gli stregoni applicano alle magie per imporvi la loro volontà.

L'uso dei sigilli era una delle materie considerate più importanti tra quelle insegnate alla scuola di magia di Elengar. Kaila non riusciva a coglierne il fascino, pensava fossero solo una cosa buffa. Una superstizione. Eppure quel rito delle ciliege la mandava in estasi. Forse era quella la vera magia che si nascondeva dietro ai sigilli.



Aprì il suo grosso fagotto e ne trasse fuori un barattolo di ciliege. Era grande, ma era pieno solo a metà. Ultimamente il sogno del sorriso gentile si era ripetuto spesso. Allo sguardo perplesso di Felz, Kaila rispose con un sorriso imbarazzato. Si sentiva come quando da bambina veniva colta sul fatto mentre faceva qualche marachella. Il fratello però doveva trovare quello sguardo estremamente tenero, perché scoppiò a ridere e accarezzo la ragazza tra i capelli con affetto. Alla fine Kaila riuscì a vedere il mondo al di fuori dei confini del monte Hoen. Il barattolo no. L'ultimo tornante disse addio alle ultime ciliege pescate dai due affamati e golosi fratelli.

Il calore che quel succo provocava scendendo giù per la gola sciolse il ghiaccio che attanagliava l'animo della ragazza Evidentemente anche la lingua doveva essere in qualche modo congelata, perché man mano che le ciliege nel barattolo diminuivano, le chiacchiere tra i due aumentavano. Kaila iniziò a sentire la testa leggera, scevra da ogni tipo di preoccupazione. Un nuovo mondo si stava aprendo davanti ai suoi occhi e lei sentiva la necessita di assaporarne ogni singola goccia. Le domande si formavano da sole nella sua mente e lei non faceva nulla per trattenerle. Così iniziò a chiedere informazioni su ogni fattoria che incrociavano. Scoprì che in realtà non era necessario avere un bell'appezzamento di terra per poter coltivare in montagna. Molte fattorie infatti avevano grossi frutteti, altre invece si limitavano ad allevare animali. Quello che andava per la maggiore era l'ulivo. A quanto diceva Felz questo tipo di albero cresceva anche nelle condizioni più avverse e l'olio che se ne ricavava si vendeva molto bene e sul pane era un vero e proprio dono del cielo. Kaila rimase sorpresa del fatto che la loro fattoria fosse l'unica a coltivare il luppolo. A quanto pareva bisognava allontanarsi parecchio per trovare altri produttori di questa pianta così particolare. Questo aveva reso negli anni i loro affari molto prosperi.



La strada iniziò a stiracchiarsi abbandonando la monotonia dei tornanti. Il pendio si fece meno scosceso. Le fattorie diminuirono. Presto il percorso iniziò ad essere affiancato da grandi alberi con enormi chiome che formavano una sorta di galleria verde che forniva un minimo di riparo dalla pioggia. Il tamburellare incessante della pioggia divenne aritmico e il carro accelerò il passo. Erano finalmente giunti a valle. Felz identificò i grandi arbusti come castagni. Kaila adorava le castagne, ma non aveva mai visto da dove arrivassero. Si sporse dal carro per raccogliere un frutto da terra. "Ahi!" una piccola goccia di sangue si disegnò su uno dei polpastrelli della sua mano. "Quello è un riccio, fai attenzione perché punge. Se lo apri dentro dovresti trovare due o tre castagne" disse Felz. "Potevi dirmelo prima, ormai mi sono punta" rispose seccata Kaila mentre si succhiava la punta dell'indice. Felz scoppiò a ridere di cuore. Una risata contagiosa che alla fine riportò anche Kaila di buon umore. "Ho imparato qualcosa! D'ora in poi le castagne lascerò che sia tu a venirle a raccogliere" riprese la ragazza facendo la linguaccia al fratello.

Il viaggio continuò lieto e tranquillo verso est per tutto il pomeriggio. I due consumarono il pranzo a bordo del carro. Kaila aveva preparato il pane quella mattina e ne aveva portato con sé mezzo filone. Con un po' di cacio e qualche fico secco sconfissero la fame. Con un sorso di birra fecero strage della sete e della lucidità. Iniziarono a ridere per ogni sciocchezza. Kaila quasi cadde dal carro per le risate quando una farfalla si appoggiò tra i crespi capelli castani del fratello. Felz invece di scacciare l'insetto iniziò a schiaffeggiarsi la nuca. Era arrivato il momento di fermarsi, altrimenti sarebbero finiti dentro ad un fosso prima di riuscire a rendersene conto.

Col passare delle ore la pioggia si calmò. La luce iniziò a scemare. La stanchezza iniziava a farsi sentire. Un gruppo di case comparve all'orizzonte. Non c'erano locande, le uniche coseche avevano era un recinto di animali ed una grande stalla. Chiesero ospitalità per la notte e gli furono concesse un paio di balle di fieno nella stalla da dividere con le avide mucche. Mentre Felz asciugava i cavalli, Kaila accese un piccolo fuocherello e iniziò a scaldare un po' d'acqua. Aveva con se fagioli secchi e cipolle. L'odore della zuppa si sparse per tutto il piccolo villaggio e in poco tempo i musi bavosi delle mucche furono sostituiti dai musi sbavanti degli abitanti. Kaila abbrustolì un po' di pane e qualcuno portò un po' di olio da versarci sopra. In breve fu allestito un piccolo banchetto. Felz aprì uno dei barili di birra che avevano sul carro e la festa ebbe inizio. Continuarono a cantare e a danzare fino a notte fonda. Il cielo si rischiarò e qualche stella fece capolino. Quello che dapprima era un fuocherello si trasformò in un falò e tutti intorno iniziarono a raccontare storie e aneddoti di vita vissuta.

Man mano che la birra si faceva strada nel loro sangue, le storie diventavano sempre più surreali. Quando Felz disse che erano diretti ad Hangwick tutti trasalirono e iniziarono a narrare storie di stregonerie e di mostri. Di fantasmi di luce e di lupi dalle sembianze umane. Kaila scoppiò a piangere a forti singhiozzi terrorizzata. L'alcol le faceva immaginare cose incredibili. Quando fuori dalla porta della stalla vide delle figure muoversi nell'ombra si rintanò tra le braccia del fratello. "Tranquilla, è solo il vento che muove gli alberi".

Alla fine tutti tornarono alle proprie case. Una coppia di anziani signori invitò i due giovani forestieri a dormire nella loro umile dimora. Dopotutto si sentivano un po' in colpa per aver spaventato la ragazza, e poi volevano sdebitarsi per la bella serata. Felz accettò l'invito e si caricò in braccio la sorella ormai pesantemente addormentata.



Il viaggio riprese al mattino di buon ora. La gentile coppia che li aveva ospitati offrì loro la colazione. Kaila però non riuscì a mangiare quasi nulla. Aveva un mal di testa lancinante. Sentiva di avere qualcosa in mente, ma non riusciva ad afferrarla. Come sigillata. Eppure doveva essere una cosa importante. Il sole era tornato l'unico proprietario del cielo. La luce forte ferì gli occhi sensibili della ragazza che dovette affondare il volto tra le mani per proteggersi. Le ci volle un po' per abituarsi. Alla fine però riuscì ad ammirare lo spettacolo. Una sterminata pianura. I grandi campi di grano ormai mietuto si estendevano a perdita d'occhio. Neanche un filo d'erba interrompeva il profilo piatto di quei campi. Solo la montagna di Hoen si ergeva ad infrangere quell'armonia. Kaila riuscì solo a pensare che le mancavano i castagni.

La marcia lenta del carro cullò la ragazza facendola sprofondare in ripetuti sogni agitati. Vedeva delle figure che si agitavano trasformarsi in lupi che poi la aggredivano. I sogni la spaventavano al punto che cercò di tenersi sveglia in ogni modo. Felz ad Hangwick c'era già stato, quindi si fece raccontare com'era. Aveva uno strano interesse per le locande, la ragazza voleva sapere quante ce n'erano e quanto costavano. Kaila non aveva mai dormito fuori casa e l'idea di pagare per un alloggio le faceva strano. D'altra parte però voleva organizzare una cosa simile all'interno della birreria, quindi cercò di capire cosa comportava e quanto ci potevano ricavare. Molte delle idee di successo che avevano messo in pratica nella taverna erano nate dalla mente di Kaila, quindi Felz non tralasciò nessun particolare. Le descrisse le vie dell'antico borgo, le raccontò dove avevano alloggiato e mangiato. C'era una buona birreria che faceva una particolarissima birra 'affumicata'. Era una birra chiara semplice al singolo malto. Di grano a giudicare dal retrogusto. Però al termine della fermentazioni mettevano le botti nelle stesse camere di affumicazione usate per produrre lo speck e il provolone. Una volta terminato il processo la birra risultava imbrunita e aveva un aroma molto particolare. Sapeva di inverno e di casa. Di focolare e di famiglia. Dava uno strano senso di nostalgia e di benessere. E inoltre faceva venire una voglia matta di salsicce.



Al calare del sole si trovarono nei pressi del fiume Koar. Da lì veniva la terra che aveva dato vita alla loro fattoria. L'inconfondibile odore di limo le fece venire nostalgia di casa. Felz decise di accamparsi sulla riva del corso d'acqua. "Domattina attraverseremo il ponte e devieremo verso nord. Se tutto va bene entro sera saremo ad Hangwick". Kaila era ansiosa di arrivare in quella che sarebbe stata la prima città oltre Elengar che avesse mai visto. Quell'aroma di terra bagnata però la rapì completamente e quasi andò a tuffarsi nelle gelide acque del fiume. "Dove corri, guarda che fa freddo!" Felz la guardava correre lungo la riva con dolcezza. Assaporava ogni singolo istante che passava con la sorellina. Kaila dovette accorgersene perché lo chiamò a gran voce "Dai, vieni a prendermi se ci riesci!" I due corsero a perdifiato lungo l'argine e alla fine si sdraiarono a terra esausti. Le prime stelle della sera iniziavano a penetrare l'azzurro del cielo.

"Pensi mai alla mamma?" Kaila interruppe il silenzio affannoso col suo sguardo malinconico. Felz si mise su un fianco per poter guardare la sorella negli occhi. Una falce di luna si rifletteva nei suoi occhi dorati. "Ogni sera" rispose dopo un po'. "Raccontamela" fece Kaila illuminandosi "Beh, hai visto il ritratto del papà. Era più o meno così" rispose confuso il ragazzo. "No, no. Voglio sapere com'era lei. Che tipo era." Felz si sdraiò di nuovo con aria pensosa. "Una volta, da bambino, scappai di casa perché avevo litigato col papà. Non ricordo il perché ma on feci molta strada, avevo 5 anni. Mi andai a nascondere nella cantina. Piansi tutta la notte e finii per addormentarmi. Quando mi svegliai la mattina seguente, accanto a me trovai un involto. C'erano dei biscotti alle mandorle freschi. Li aveva fatti quella notte" la voce si interruppe infrangendosi nella commozione. Gli occhi del ragazzo si inumidirono. Il verde delle sue iridi si fece più intenso. Felz riprese fiato e si voltò di nuovo verso la sorella. "Lei era così! Sapeva sempre capire di cosa avevi bisogno! Aveva un animo gentile e generoso. Riusciva sempre a trovare il modo di farti tornare il sorriso."

Tra i due tornò il silenzio. Tornarono a fissare le stelle che man mano diventavano più vivide. Un alito di vento si alzò ad agitare l'erba intorno al greto del fiume. "Dai, torniamo al carro, altrimenti ci prendiamo un malanno". I due accesero un fuoco e passarono la serata a raccontarsi vecchie storie. Kaila era avida di ricordi della madre. Felz le raccontò ogni evento che gli veniva in mente mentre lei rideva e piangeva al contempo. Era felice e nostalgica. Si addormentarono che il fuoco ancora non si era spento. L'uno accanto all'altra. Coperti dalla stessa enorme trapunta. I sogni di Kaila tornarono ad invaderle la mente. Rivide il sorriso gentile, ma stavolta un velo di preoccupazione incrinò quella luce. Trasalì e si svegliò.

Era già mattino e Felz stava arrostendo delle pannocchie sul fuoco. "Buongiorno dormigliona" Kaila era agitata, ma la vista del fratello la calmò. Mangiarono in fretta e si rimisero in marcia. C'era qualcosa che le sfuggiva, ma neanche in quel momento riuscì a capire cosa. Fu una giornata particolarmente silenziosa.



Hangwick era un piccolo borgo nato ai piedi di una piccola collina di querce. Si dice che un tempo fosse la dimora dei novizi del Consiglio. Qui i più giovani aspiranti maghi venivano ad allenarsi e a completare i loro studi. Le mura della città erano composte da enormi blocchi di pietra estratti da una delle tante cave che infestavano il monte Hoen. Le case piccole erano sovrastate da altissimi tetti coperti da tegole in terracotta rossa. Questo dava alle abitazioni un aspetto a fungo. Non un bel porcino succoso, più un ovino rinsecchito. Di quelli che rimangono un po' duri a mangiarli crudi. Le strade erano completamente lastricate in pietra. Strade larghe, non quella specie di cunicoli che si trovavano ad Elengar. Quelle di Hangwick si potevano chiamare 'strade' senza il timore di essere presi in giro. Grossi lastroni piatti ne ricoprivano il manto. Avevano giusto una leggera pendenza verso entrami i lati della strada, dove due canali di scolo permettevano alle acque piovane di defluire silenziosamente senza lasciare tracce.



Tutto era pietra e terracotta. Ne un aiuola, ne un fiore. Non c'era la benché minima traccia di natura in quel borgo che trasudava antichità.

Da quel che narra la leggenda pare che la città fosse stata costruita da una comunità di nani -da qui le dimensioni tisiche delle case- che poi un bel giorno sparirono come neve al sole. Alcuni sostenevano che si fossero rintanati nelle gallerie sotterranee che infestavano la collina -anch'essa chiamata Hangwick- per nascondere un terribile morbo che li aveva affetti. Sta di fatto che su alcuni dei lastroni di pietra, ormai consumati da secoli di carovane e cavalli, si vede ancora oggi raffigurato lo stemma di un'ascia che incrocia una piccozza. Il marchio della comunità dei nani.

Kaila e Felz arrivarono nel tardo pomeriggio. Il pigro sole autunnale aveva già ceduto il passo alla più arzilla Luna. Una falce luminosa mieteva un cielo coperto di stelle. I due avevano viaggiato in silenzio e ininterrottamente tutto il giorno. Volevano assolutamente arrivare a destinazione. Quando Kaila vide le deboli luci della città si riaccese e il fiume di parole riprese incontrollato. Voleva assolutamente assaggiare la birra affumicata, ma non c'era tempo. Era tardi ed erano stanchi, inoltre Felz si sarebbe dovuto alzare all'alba il giorno dopo se voleva raggiungere Salingar prima del tramonto.

Alloggiarono nella locanda del Lupo Armato. Una buffa sagoma a forma di lupo vestito da armigero li accolse. Il padrone era un amico di Ivan, lì avrebbero avuto pasti caldi e letti puliti a buon prezzo. C'era anche una stalla privata che permetteva di mantenere al sicuro sia i cavalli che il prezioso carico che trasportavano. Fratello e sorella alloggiarono in due camere differenti. Cenarono controvoglia. Erano stanchissimi e deboli. Prima che il vociare dei commensali si fosse acquietato i due si erano già ritirati nelle loro stanze.

Kaila sprofondò in un sonno agitato. Si vide ghermita da un branco di lupi inferociti. Uno si stava avventando sul suo collo quando Kaila si svegliò scattando in piedi. Ancora ansimante si asciugò il sudore dalla fronte. Guardò fuori dalla finestra e vide delle figure muoversi. Gli venne istintivamente da pensare agli alberi che tanto l'avevano spaventata durante la prima sera di viaggio. Si rilassò al pensiero del fratello che cercava di tranquillizzarla. Si avvicinò alla finestra per guardare meglio. Si trovava al secondo piano della locanda, praticamente nel sotto tetto. Dalla sua camera aveva una perfetta vista della collina di Hangwick. Cercò di distinguere nuovamente quelle forme quando all'improvviso un enorme bagliore accese la foresta di querce che ricopriva la collina. Una luce intensa. Come un fulmine, però in mezzo agli alberi anziché tra le nubi. Kaila indietreggiò spaventata e andò ad inciampare nella sedia. Finì col sedere in terra tirandosi dietro la sedia.

Il rumore aveva svegliato Felz che si precipitò nella camera della sorella. "Che succede?" Gli occhi di Kaila erano spalancati, sembrava non essere in grado di articolare le parole. "C-ci sono i fantasmi!" Fu l'unica cosa che riuscì a dire. Felz si mise sdraiato accanto a lei e la abbracciò. "Tranquilla, è stato solo un brutto sogno. Adesso ci sono io qui con te". Il cuore di Kaila rallentò e si calmò. Si rilasso. I due rimasero per terrà finché le ossa non iniziarono a protestare furentemente. Alla fine si alzarono e tornarono nei rispettivi giacigli. La ragazza però passò la notte a fissare il soffitto.



Il mattino arrivò lentamente, tanto che Felz riuscì a batterlo sul tempo. Il ragazzo si era svegliato che l'alba ancora non era arrivata. Iniziò a prepararsi e chiamò la sorella. Kaila però non era in camera. Felz la trovò sul carro che infilava alcuni oggetti -la refurtiva- in una sacca da spalla. I due si salutarono in fretta. "Stasera torna qui alla locanda, io cercherò di ritornare domani in serata. Al massimo dopodomani. Fai attenzione nel bosco". Subito fuori le porte della città Kaila scese dal carro in movimento e si diresse verso la collina.

Quando il sole sorse Kaila era già protetta dai fitti rami delle querce. Grosse radici fuoriuscivano dal terreno creando come un enorme scalinata che rendeva la scalata più semplice. Alcuni scoiattoli scappavano da una parte all'altra rubando dal terreno qualche ghianda solitaria. La ragazza si fermò solo quando sentì le gambe cedere. Usignoli levavano il loro dolce canto in giro per il bosco. La stanchezza aveva fermato il suo passo, ma era ancora presto per liberarsi della refurtiva. Prese dal tascapane un barattolo di ciliege e ne mangiò alcune. Consumò metà della sua scorta di acqua per rinfrescarsi e lavarsi via la fatica. Trasaliva ad ogni rumore nel sottobosco. Aveva la sensazione paranoica che hanno tutti i fuggiaschi di essere seguita. Si voltava in continuazione per intercettare qualche sagoma, forma o movimento che potesse tradire un probabile inseguitore. Scoiattoli ed uccelli erano le uniche parti mobili di una natura statica. Neanche il vento osava inoltrarsi tra quegli alberi.

Riprese a camminare di buona lena e scalò il versante della collina per circa un'ora. Arrivò in una radura dove il sole riusciva a fare breccia tra le fronde possenti degli alberi. Si voltò per cercare di vedere quanta strada aveva fatto. La radura era ampia e concedeva una visuale sulla città sottostante. Kaila colse i contorni di quella che era la sua locanda. Il Lupo Armato. Da una di quelle finestre aveva visto un lampo di luce esplodere nella foresta. Si trovava nei pressi dell'origine di quel fenomeno inspiegabile.
Voleva portare a termine la sua missione nel minor tempo possibile. Kaila iniziò a correre con quanta forza le rimaneva nelle gambe. Sentiva il peso della refurtiva sbattere sul suo dorso ad ogni passo. Voleva liberarsene. Doveva liberarsene. Con la coda dell'occhio vide un buco nel terreno. Era poco lontano dal sentiero, ma abbastanza lontano dalla luce del sole. Perfetto per nascondere quei pericolosi oggetti. Kaila deviò la sua corsa per raggiungere l'obiettivo. Si tolse la sacca dalle spalle mentre stava ancora correndo. Con un gesto veloce del braccio ne svuotò il contenuto in quella specie di pozzo. "Ahio!" Un lamento arrivò dal pozzo. Il cuore di Kaila perse un colpo. Rimase impietrita. Si era fatta scoprire.
Si affacciò lentamente e timorosa. "Chi c'è la?". Un ragazzo si stava massaggiando la tempia dove uno degli oggetti di Kaila lo aveva colpito. Si voltò a guardarla e le sorrise. "Ehi dolcezza, che ne dici di darci una mano?". Il sorriso gentile era alla fine arrivato.


sabato 27 novembre 2010

Tra Sogno e Realtà

I sogni sono da sempre un argomento strano. In teoria tutti sognano, è un processo naturale con cui il cervello rielabora le informazione che ha incamerato. Di solito poi il risveglo provvede inesorabilmente a cancellarne il ricordo preciso, ma qualcosa rimane. Una sensazione. La traccia che i sogni lasciano nell'anima.
Ad Elliot non era mai rimasta nessuna traccia nell'anima. Dubitava persino della sua esistenza. Quando alle elementari una sua insegnante affidò alla classe un tema da scrivere sul loro sogno più bello, lui non riuscì a scrivere nulla. Il voto più basso della sua vita.
Quel giorno Elliot rimase basito non tanto dal suo voto, quanto dai temi dei suoi compagni. Raccontavano storie incredibili con dovizia di particolari. Molti probabilmente avevano inventato di sana pianta. Altri avevano semplicemente esagerato un po'. Eppure tutti avevano qualcosa da raccontare. Tutti tranne lui. Non che gli mancasse la fantasia, però non sapeva proprio da dove cominciare. Per inventare qualcosa bisogna avere delle basi, degli elementi su cui costruire la storia. Lui semplicemente quelle basi non le aveva. Elliot Summer non aveva mai sognato.
La cosa non lo aveva mai turbato più di tanto. Come tutte le persone che non riescono a fare qualcosa, aveva deciso che i sogni non erano poi tanto importanti. Quando con gli amici si finiva a parlare di sogni, semplicemente lui cambiava argomento. A volte cercava di nascondere l'invidia col sarcasmo. Prendeva in giro gli altri per la loro ignoranza, perché credevano che quei ricordi costruiti potessero avere un qualche significato.
Elliot si sentiva privato di qualcosa. Un elemento che legava tutti tranne lui. Probabilmente i suoi genitori avrebbero saputo trovare una spiegazione, però esisteva anche la possibilità che la cosa li facesse preoccupare più del necessario. Preferì quindi evitare di parlare con loro di questa sua mancanza. Ogni tanto si faceva passare sotto banco qualche sogno dal suo amico Peter, così da poterlo usare in qualche discorso. I suoi come al solito dimostravano un falso interesse in quello che raccontava, così lui capiva che era riuscito a dargliela a bere. Era riuscito a fargli credere di essere un bambino normale.

Il giorno in cui Anna, sua madre, aveva parlato a cena delle chiavi di Casale Spavento, qualcosa si era spezzato. La consuetudine si era interrotta. Elliot aveva sognato. Non era un grande esperto di sogni, eppure quello sembrava proprio un ricordo. Un ricordo molto sfumato, quasi sbiadito. Antico. Al risveglio non gli era rimasta solo la sensazione di aver sognato, ma il ricordo di ciò che era successo. Leggero come una piuma. Volatile. Eppure c'era. Un ricordo nuovo, non suo, ma pur sempre un ricordo.
Quella magia continuò a ripetersi ogni notte. Sempre lo stesso sogno. Sempre lo stesso ricordo. Ad ogni replica le immagini diventavano più nitide, i contorni meno sfumati, le sensazioni sempre più vivide. Quel singolo evento si radicò completamente nella memoria di Elliot. Ormai era impossibile distinguerlo da un qualsiasi altro ricordo. Pensandoci razionalmente sapeva di non aver mai vissuto un'esperienza simile, eppure quel ricordo era reale, forse anche più degli altri. Troppi dettagli. Troppe sensazioni. Non poteva esserselo immaginato.
Ricordava con precisione la forma di quella stanza. Una cupola sorretta da quattro archi incrocati che poggiavano direttamente sul pavimento. Non c'erano colonne a dare altezza a quella camera, c'era solo la cupola. Tutto era in marmo bianco. Elliot si sorprese a ricordare persino le nervature argentee che solcavano il bianco assoluto dei lastroni che ricoprivano le pareti. Otto in totale, otto spicchi di parete separati dai possenti archi.
La precisione geometrica di quella cupola era interrotta soltanto da quella che sembrava essere una porta. Un piccolo arco a sesto acuto poggiato su due esili colonne dava l'idea di un passaggio. Di qualcosa che doveva essere possibile attraversare. Pertanto stonavano un po' quei grossi massi di pietra squadrati posti a riempire quell'apertura. Elliot sentiva ancora nelle narici l'odore della malta fresca che era stata usata per tenerli insieme. Era evidente che chiunque li avesse fatti entrare, non voleva più farli uscire. Erano sigillati dentro quella prigione di marmo.
Elliot non era solo, c'erano altre persone con lui. Col tempo capì che erano tutti giovani, più o meno della sua età. Indossavano tutti la stessa tunica scura con il simbolo di una montagna sovrastata da una falce di luna. I grandi cappucci coprivano quasi per intero i loro volti, ma Elliot imparò a distinguerli uno ad uno. Le loro altezze, i loro occhi, la loro postura, persino la forma delle loro mascelle.
Erano tutti in piedi su quel pavimento fatto da grandi lastroni di pietra. Si erano disposti a circonferenza. Ognuno aveva davanti un piccolo falò che illuminava la stanza proiettando le loro inquietanti ombre sulle pareti circostanti. Stavano tutti intorno ad un enorme cilindro, anch'esso di pietra, che sembrava uscire direttamente dal terreno. Era poco più alto di loro e c'erano dei simboli strani incisi sopra. Un testo molto fitto in una lingua sconosciuta formava una stretta spirale che ricopriva tutta la superficie della roccia.
Nonostante sapesse che nella stanza ci fossero un totale di quindici persone compreso lui, dalla sua posizione Elliot riusciva a vederne solo otto. Erano tutti ragazzi tranne la persona che stava alla sua sinistra. La tunica abbastanza aderente tradiva le sue forme femminili. Il suo sguardo era spaventato ma, a differenza degli altri, non provava astio nei suoi confronti. Nell'unico istante in cui i loro occhi si incrociarono gli concesse anche un abbozzo di sorriso.

Si presero tutti per mano formando un cerchio perfetto. Erano tutti terrorizzati. Anche Elliot sentiva quel bruciore alla bocca dello stomaco. Quella sensazione di ansia che ti toglie il respiro. Eppure in lui c'era anche qualcos'altro che col tempo identificò come senso del dovere. C'era anche una punta di orgoglio. Piccola, insignificante e sommersa dal terrore, ma c'era. Fu proprio quella piccola scintilla in fondo al suo cuore che gli diede la forza di alzare lo sguardo verso la pietra ed iniziare a leggere.
L'inizio del testo era proprio di fronte a lui e, cosa inspiegabile, si rese conto di essere in grado di capire cosa ci fosse scritto. Riusciva ad associare dei suoni, anch'essi incomprensibili, a quei simboli sconosciuti. Dalla sua bocca si levò una lenta litania che lasciava un sapore amaro sulla lingua. Man mano che andava avanti nella lettura, si accorse che la pietra aveva inizato una lenta rotazione su se stessa che gli permetteva di avere sempre cose nuove da leggere di fronte a se. Quando l'inizio del testo passava davanti ad uno dei suoi compagni, anche questo iniziava a leggere. Quindici litanie tutte uguali, con la stessa cadenza e con la stessa velocità, ma ognuna sfasata dalle altre di pochi secondi. Tutte quelle voci insieme si mischiavano rendendo le parole ancora più incomprensibili.
Ogni volta che terminavano di leggere, ricominciavano da capo. Ad ogni giro, la pietra accellerava la sua rotazione. Sempre più veloce. Elliot faceva quasi fatica a distinguere le parole sulla pietra, ma ormai le sapeva a memoria. Il canto continuava ininterrotto. Sempre più misterioso e terribile.
Un leggero venticello sembrò alzarsi nella stanza. I quindici falò iniziarono a bruciare con più intensità. Le fiamme divennero alte quanto i ragazzi che vi stavano di fronte. La legna si consumò completamente in pochi istanti. Le fiamme si spensero all'improvviso, ma la luce rimase. Sempre più forte. Intensa. Accecante. Grandi scariche elettriche avvolgevano il cilindro di pietra. La litania rimase costante ma venne coperta dal sibilo della pietra che strideva sul terreno.
Il cilindro era ormai un unico ammasso di luce. Sporadiche scariche si staccavano dal centro e andavano a colpire gli archi della cupola formando degli strani giochi di luce. Il volume della litania si alzò per sovrastare il rumore. Dal cilindro partirono quindici fasci di luce che colpirono in pieno petto i ragazzi. La luce divenne assoluta. Totale. Le coscienze si fusero in un unico agglomerato di energia. E poi più nulla. La luce sfumava. L'oblio sopraggiungeva. Maestoso e avvolgente. La sensazione di vittoria segnava il momento del risveglio.

Quella mattina l'inquietudine era più forte del solito. Elliot si sentiva nervoso. Irascibile. A colazione quasi non rivolse la parola a nessuno. Quando suo fratello Edward gli lanciò un giocattolo per attirare la sua attenzione, gli urlò con così tanta cattiveria che lo fece mettere a piangere. Quando Harry apostrofò il suo comportamento inappropriato, Elliot si limitò a bofonchiare delle scuse per poi alzarsi e andarsene.
Gli dispiaceva per come aveva reagito, ma non era riuscito ad evitarlo. C'era qualcosa di sbagliato in quella giornata che lo metteva a disagio. Sentiva l'adrenalina invadere il suo corpo. Era arrabbiato senza motivo. Quando il bulletto della scuola, quel Mallory, venne ad attaccar briga, Elliot sfogo tutta la sua rabbia. Assestò un pugno sulla guancia del ragazzo con tutta la forza che aveva in corpo. Provò un piacere immenso e sbagliato nel vederlo sputare un dente. Si sarebbe avventato anche su Coso e Cosetto se non fosse arrivato il professor Stevens a fermarlo.
Il suo odio silenzioso continuò tutto il giorno. Quando poi si ritrovò faccia a faccia con Mallory nell'aula punizioni non lo degnò neanche di uno sguardo. Il suo nervosismo gli permise anche di essere cinico e sarcastico con Lara, di solito era il contrario. Provò di nuovo quel piacere distorto ad umiliarla davanti al professore. Riuscì persino a strappare un mezzo sorriso a Mallory. E poi accadde. Gli altri discutevano animatamente su Casale Spavento. Decidevano se era il caso di organizzare lì la festa di Halloween, quando Lara e Mallory si misero a litigare. In un flash Elliot rivide la stanza. Le quindici persone. Sentì quella litania nelle orecchie. Chiuse gli occhi con forza per cacciare via quell'immagine. Nella sua mente regnava la confusione, ma una voce era distinguibile. Sovrastava le altre. Era sua madre. Un ricordo di un paio di settimane prima. Il giorno in cui i sogni erano iniziati, sua madre a cena aveva parlato di Casa Madison. Casale Spavento. Prima di addormentarsi il suo ultimo pensiero fu che aveva le chiavi di quella casa.
Evidentemente aveva ripetuto quel pensiero a voce alta, perché tutti si erano zittiti e lo fissavano. Mallory sembrava eccitato mentre Lara sorrideva un po' spaventata. Uscendo dall'aula Elliot fu raggiunto dal bulletto che non sembrava interessato a picchiarlo come suo solito. Voleva quelle chiavi e lui gliele avrebbe dovute fornire.

La sensazione di inquietudine si faceva più forte ogni minuto che passava. Corse dal suo amico Peter per chiedere aiuto. Aveva bisogno di sfogarsi. Aveva bisogno di sostegno. Tutta l'adrenalina che aveva in corpo si sprigionò nell'atto della corsa. Una volta raggiunto l'amico quasi vomitò l'anima, ma si sentì meglio. Più calmo. Più sereno. Da sempre Peter gli faceva quell'effetto. Si sentiva completato. Lui era quello impulsivo mentre l'amico era quello razionale. Si misero d'accordo per vedersi quella sera. Peter non sembrava molto felice all'idea, ma Elliot sapeva che non lo avrebbe mai abbandonato nel momento del bisogno.
Con l'animo meno agitato e la mente più lucida, si rese conto che sì, la madre aveva le chiavi, ma questo non significava che lui potesse prenderle a sua discrezione. Avrebbe dovuto sottrarle di nascosto. E questo significava altri guai. Inoltre in quindici anni non aveva mai fatto niente del genere. Mai una volta aveva deluso i suoi genitori. La sensazione di inquietitudine tornò più forte di prima.
Quella sera a cena non alzò lo sguardo dal piatto, si sbrigò a finire di mangiare e sgattaiolò in camera sua. Aveva appuntamento alle nove con Peter. Erano le otto passate e lui non aveva la più pallida idea di dove iniziare a cercare. Qualcuno bussò alla porta. Due deboli colpetti. Doveva essere Edward che come al solito era in vena di scherzi. Aprì la porta controvoglia. Il fratello era lì davanti, silenzioso. Aveva lo sguardo basso. Indossava ancora il suo bavaglino e teneva per mano un orsacchiotto poco più basso di lui.
Elliot si spazientì in fretta. Edward non sembrava intenzionato a proferire verbo. "Che cosa vuoi?" lo incalzò. Il piccolo alzò gli occhi verso il fratello maggiore. Era triste, sul punto di piangere. Sembrava sconvolto. Alla fine si decise a parlare stringendo a sé il pelouche che aveva portato "Te ne vai?" chiese con voce quasi disperata. "No, non vado da nessuna parte, adesso se non ti dispiace dovrei fare i compiti" rispose asciutto Elliot. "No, non è vero, tu te ne vuoi andare. Me l'ha detto il tizio col cappuccio" il cuore di Elliot perse un colpo. Una tremenda sensazione di aridità alla bocca dello stomaco gli fece venire la nausea. "Q-quale tizio col cappuccio?" chiese con ansia. "Mi ha detto che avevi bisogno di queste" aprì la zip sul dorso dell'orsetto e ne estrasse un mazzo di chiavi con un portachiavi a forma di spirale "Vero che però poi torni?" concluse Edward trattenendo a stento le lacrime.
Suo fratello gli voleva bene. Gliene aveva sempre voluto. Era la sua ombra. Stimava Elliot come fosse un eroe e non voleva perderlo. Quel pensiero intenerì il ragazzo che si inginocchiò per avere gli occhi all'altezza di quelli del fratellino "Tornerò, te lo prometto" Edward ritrovò il sorriso e lanciò le braccia al collo del fratello stringendolo con tutta la forza che un bambino di quattro anni può avere. Quando si staccò lascio cadere le chiavi e scappò in camera sua.
Elliot raccolse il mazzo da terra e richiuse la porta. Fissò per qualche minuto il portachiavi a spirale. Un problema si era risolto da solo. Aveva come la sensazione che qualcosa di più grande avesse iniziato a muovere i fili della sua vita. Si distese un attimo sul letto per scacciare via quel pensiero.

Alle nove meno un quarto Elliot era pronto, aveva preparato lo zaino con il cambio per la notte. Aveva detto ai suoi che sarebbe andato a passare la notte da Peter. Cosa che avrebbe fatto subito dopo aver portato Mallory a Casale Spavento. Scese le scale con calma. Assaporò ogni gradino. C'era qualcosa dentro di sé che lo tratteneva a casa. Non voleva andare. Aveva paura.
Anna lo aspettava ai piedi delle scale. Gli aveva preparato un fagotto con gli avanzi della cena e alcune fette di torta. "Mamma, vado solo a dormire da Peter, non ne ho bisogno" provò a dire. Dopotutto non era la prima volta che andava a dormire dall'amico. Che bisogno c'era di portarsi da mangiare? "Beh, non si sa mai quello che può succedere" era visibilmente preoccupata, ma non sembrava volerlo fermare. Elliot quasi ci sperava. Forse se avesse detto qualcosa di cattivo la madre lo avrebbe messo in punizione e non sarebbe dovuto uscire. Non fece in tempo. Anna interruppe il flusso dei suoi pensieri "C'è tuo padre che ti vuole vedere. E' in laboratorio" disse "Ma io dovrei andare, c'è Peter che mi aspetta, poi i genitori si preoccupano" cercò di protestare "Ci vorrà solo un minuto vedrai" e si chinò a baciargli la fronte. Un bacio lungo. Sembrava spaventata. Anche lei. Cosa avevano tutti da essere spaventati. Era lui quello che doveva andare a Casale Spavento, non gli altri. Cercò di divincolarsi, abbozzò un sorriso e si diresse verso il garage.
Le luci del laboratorio erano spente. Elliot sentì alcuni rumori metallici provenire dal fondo. All'improvviso si accese una lampadina "Finalmente! Non riuscivo a trovare le lampadine nuove, quella vecchia si è fulminata" disse Harry "Mi volevi vedere?" chiese spazientito Elliot "Oh, si! Ho qualcosa per te". "Non potresti darmela domani? Adesso devo andare da Peter" guardò l'orologio da parete. Erano le nove in punto. Peter era già all'ingresso di Cherrydale ad aspettarlo e lui come al solito sarebbe arrivato in ritardo.
Harry ignorò l'impazienza del figlio. Tirò fuori dal cassetto quello che sembrava essere un vecchio orologio da taschino "Sai, è per via di questo che io e la mamma ci siamo conosciuti. Un giorno me ne stavo per i fatti miei quando uno strano ragazzo con un mantello mi venne addosso. Non si fermò neanche a chiedermi scusa. Questo orologio deve essergli caduto di tasca ma quando lo raccolsi era già sparito." accennò un sorriso con gli occhi carichi di nostalgia "Decisi di tenerlo come risarcimento!" sembrò volersi giustificare "Insomma me ne stò sul ponte di Hummingdale a giocherellare con questo coso che tra l'altro era pure rotto quando mi scivola dalle mani. In quel momento tua madre passava lì sotto e la presi proprio in testa" Elliot voleva che il vecchio tagliasse corto, ma dalla felicità con cui raccontava non sembrava intenzionato a farlo. "Devo averle rotto qualcosa in testa quel giorno, altrimenti non si spiega il perché abbia accettato di sposarmi!" era quasi commosso da quel ricordo.
"Vorrei che lo prendessi tu! Spero che ti porti la stessa fortuna che ha concesso a me!" Elliot non sapeva che dire. Non gliene fregava niente di quel ninnolo. Voleva solo chiudere quella storia. O gli impedivano di uscire, o lo lasciavano andare. Cobtinuare a torturarlo in quella maniera non aveva senso. Si limitò a sorridere e a ringraziare. Infilò di fretta l'orologio nella borsa e si incamminò verso la porta. "Fai attenzione e in bocca al lupo!" furono le ultime parole di Harry "Ma cosa avete tutti stasera? Sto solo andando a dormire da Peter" sbottò spazientito, ma Harry si limitò a sorridire. Elliot gli rispose tra sé e sé "Crepi!"

Peter non protestò per il ritardo dell'amico. Probabilmente se lo aspettava. La strada verso Casale Spavento fu accompagnata dal silenzio e dal buio. Per la prima volta in vita sua fu grato per la presenza di Mallory. Aveva portato una torcia. A lui proprio non era venuto in mente. Lara lo guardò con superiorità mentre estraeva la sua. Elliot si chiese per l'ennesima volta perché ce l'avesse tanto con lui. Non gli sembrava di averle fatto niente di male.
La casa era buia e fredda ma si sentiva tranquillo. O almeno così fu finché non si accorse che Peter era sparito. Si girò a cercarlo con lo sguardo, ma era troppo buio. Cercò di fermare gli altri per andarlo a cercare, ma quando si voltò gli si materializzò davanti un'enorme colonna di luce. Una nebbia fitta e dorata che iniziò a corrergli incontro. L'urlo esplose dalla sua gola. Lara e Mallory si voltarono per cercare di capire cosa fosse successo. Elliot era paralizzato dallo spavento. Fu Mallory a riscuoterlo urlandogli "Corri!".
I tre si ritrovarono a scappare compatti verso l'uscita. Elliot si voltò a cercare di identificare il loro inseguitore e si accorse che Peter era ricomparso dietro di loro. Come se non se ne fosse mai andato. Corsero a perdifiato cercando di evitare tutti quei cosi, quei, beh, fantasmi, come altro chiamarli. La luce era intensa e tutta intorno a loro. Elliot non capiva più quanti ce ne fossero di questi fantasmi e dove si trovassero. Si accorse a malapena di essere stato sorpassato da Peter. Se ne rese conto quando lo vide spiccare un balzo. E poi il vuoto. Si sentì mancare la terra sotto i piedi. Cadde.
Fu una cosa veloce, quasi indolore. Era finito su Mallory che col suo giaccone di piume d'oca gli aveva attutito l'impatto. Cercò di rialzarsi quasi subito ma fu investito da un flusso di nebbia che andò a riempire tutta la stanza. Rimase immobile. Di nuovo. Completamente terrorizzato.

La camera nella quale erano finiti aveva qualcosa di familiare. Prima che riuscisse ad identificare cosa, la voce di Peter richiamò la loro attenzione. Lo mandarono a cercare aiuto, era l'unico ad essersi salvato ed era la loro unica speranza. Quando il ragazzo si allontanò si preoccuparono di Lara. Era stata la prima a cadere nel buco. Doveva essere atterrata malamente perché aveva una gamba visibilmente rotta.
Mallory le si avvicinò e cercò di farla riprendere senza successo. Si rivolse ad Elliot "Dobbiamo sistemarle la gamba e steccargliela" disse "Ma io non so come si fa" rispose il ragazzo intimorito. "Non ti preoccupare, tu raccogli un po' di quei rami" disse indicando il punto dove la terra aveva ceduto ed era franata dentro la stanza "Io cerco di farla rinvenire".
Mallory sembrava tranquillo. Lucido. Sapeva ciò che andava fatto e si muoveva con disinvoltura. Elliot per la seconda volta fu contento della presenza dell'altro. Lara riprese conoscenza all'improvviso, come se si fosse appena risvegliata da un incubo. "Stai calma, va tutto bene" gli fece Mallory, poi, rivolgendosi sotto voce ad Elliot "Cerca di distrarla, devo addrizzarle l'osso e non le farà molto piacere."
Elliot si inginocchiò vicino alla ragazza. Era spaventata, con i capelli in disordine, doveva aver perso gli occhiali nella caduta. Elliot non aveva mai fatto caso a quanto fossero belli gli occhi di Lara. Un verde intenso. Smeraldo. Sentì il suo profumo. Non erano mai stati così vicini. "Stai tranquilla, va tutto bene. Domani sarai di nuovo pronta a stracciarmi in ogni competizione." Lara sorrise. Dolcemente. Le sue labbra piccole si assottigliarono nel gesto e due fossette si disegnarono sulle sue guance morbide. Arricciò il nasino a punta e disse "Come sempre!" Era bellissima. Elliot si sentì avvampare. Poi l'espressione della ragazza si incrinò. Lo sguardo divenne vitreo. il dolore si dipinse sul suo volte che improvvisamente divenne rosso. Il rumore sordo dell'osso che Mallory aveva sistemato aveva rimandato Lara nel regno dell'incoscienza. Svenuta di nuovo. "Quando hai finito di ansimare sulla tua bella avrei bisogno del tuo aiuto. Dobbiamo costruirle una barella".
Mentre Mallory steccava la gamba di Lara, Elliot si occupava di intrecciare i vari rami per formare una lettiga. Era un'impresa difficile, un po' perché i rami tendevano a spezzarsi facilmente, un po' perché Elliot continuava a distrarsi pensando al sorriso di Lara. Il loro odio era reciproco e intenso, non capiva perché quel sorriso continua ad ingarbugliargli la mente.
Mallory raccolse le radici più esili e morbide per usarle come corde per legare la lettiga. Provarono a sollevarla insieme per valutarne la consistenza. Sembrava solida. La appoggiarono al fianco di Lara. Mallory si avvicinò ai piedi della ragazza e li sollevò delicatamente. Fece cenno ad Elliot di fare altrettanto con le sue spalle "Al mio tre la solleviamo e la spostiamo sulla barella" Elliot annuì "Uno, due, TRE!" All'unisono sollevarono Lara e la spostarono di pochi centimetri adagiandola sulla lettiga.
Provarono a sollevare lentamente la barella per vedere se era in grado di sostenere il peso della ragazza. Ondeggiando però rischiarono di farla cadere. "Dovremmo legarla" fece Elliot "E come?" chiese Mallory. Non c'era sarcasmo nella sua voce. "Potremmo usare le cinture dei nostri pantaloni" propose Elliot "Si può fare" concesse Mallory.
"Non ti facevo così in gamba" Elliot era visibilmente ammirato dal comportamento lucido di Mallory "Ci sono abituato. Mi piace aggiustare le cose" rispose il bullo. I due si sorrisero. In quel momento fece ritorno Peter portandosi dietro il professor Stevens.

Non era sicuro che chiamare il professor Stevens fosse stata una buona idea, ma almeno c'era qualcuno che li poteva aiutare. Inoltre Mallory sembrava avere tutto sotto controllo. Così Elliot si rasserenò un po'. Il suo sguardo tornò a vagare per quella stanza a forma di cupola. Quattro archi che si incrcoiavano. Una piccola porta murata sul lato di sud-est. Mancava solo il cilindro al centro. Come poteva essere possibile? La stanza che sognava ogni notte era lì, sotto i suoi occhi. Reale. E se la stanza era reale, anche il suo sogno doveva esserlo. Eppure lui era sicuro di non essere mai stato lì dentro. La quantità immane di ragnatele in giro per la stanza confermavano l'idea che nessuno avesse visitato quel luogo per secoli. Si chiese come mai mancasse il cilindro di pietra e quasi di istinto si avvicinò al centro della stanza. Notò un piccolo foro circolare poco più grande di un pugno. Forse il perno sul quale girava la pietra. Del cilindro non c'erano tracce, neanche i segni sul terreno che indicassero il suo spostamento. Tutti i lastroni di pietra che formavano il pavimento erano circolari e concentrici. Questo poteva aver mascherato i segni della rotazione, ma un macigno di pietra di quella portata dove aver lasciato delle tracce mentre veniva spostato.
Mallory richiamò l'attenzione di Elliot. Dovevano legare la corda portata da Peter intorno alla lettiga. Elliot non sapeva da dove iniziare, ma Mallory sembrava preparato anche su quell'argomento. Si limitò a seguire scrupolosamente le sue indicazioni.
Mentre Peter e il professore tiravano verso l'alto la barella, Lara riprese conoscenza. Sembrava spaventata. Continuava a ripetere "Cede di nuovo! Cede di nuovo". Quando Elliot capì a cosa si riferisse fu troppo tardi. La terra ricominciò a franare e i due soccorritori caddero nel buco. Elliot e Mallory riuscirono a prendere al volo la lettiga e a spostarla in modo da evitare altri incidenti alla povera Lara. I due nuovi arrivati rallentarono la loro caduta tenendosi saldamente alla corda, ma il dolore causato dall'attrito fece perdere la presa a Peter che rovinò a terra.
Dalla tasca della giacca del ragazzo uscì un disco. Un pezzo di pietra che rotolò per tutta la stanza fino a raggiungerne il centro. Sembrava guidato da una forza estranea. Forse dalla stessa nebbia luminosa che riempiva la stanza. Andò ad incastrarsi alla perfezione nel foro che Elliot aveva notato.
Il pavimento iniziò a tremare "Ma che diavolo succede" imprecò Mallory. Al centro della stanza una parte del pavimento iniziò a sollevarsi. Salì per un paio di metri rivelando un grosso cilindro di pietra. Ora il ricordo che Elliot aveva di quella stanza era completo. Si alzò d'istinto e si avvicinò alla roccia. Da dietro qualcuno chiese cosa fosse quella pietra e da dove saltasse fuori. Elliot ignorò il gruppo e raggiunse il centro della stanza quasi ipnotizzato. Appoggiò la mano sulla fredda roccia e con un dito seguì i solchi formati da quegli incomprensibili simboli. Si sentì strano, come svuotato. Sentì quella litania dentro la sua testa. "Ma che stai dicendo?" La voce di Mallory gli arrivò lontana e ovattata. Le parole della cantilena uscivano dalla sua bocca da sole. La mente si fece leggera. La nebbia iniziò a turbinare dentro la stanza. I simboli incisi sulla roccia iniziarono ad illuminarsi di una sfumatura verde.
Luce.
Tutto fu luce. le voci sparirono. Una sensazione di tepore riempì la mente dei presenti. La luce si fece intensa. Liquida. Tutti ne furono avvolti.
E poi fu di nuovo l'oblio.