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venerdì 4 febbraio 2011

Prigionia

 I rumori si ovattavano, le immagini si offuscavano, la luce diventava a tratti intensa e abbagliante per poi ridiscendere nell'oscurità. Suoni, voci, passi. Tutto era confuso e distorto. La ferita alla gamba si era infettata e, di conseguenza, Eric aveva la febbre alta. Sentiva il battito del suo cuore accelerato rimbombargli nelle orecchie. Era confuso e la nausea lo opprimeva. Gocce di sudore gelide scendevano lungo il collo fin giù per la schiena.
 Era sdraiato. Questo riusciva a capirlo. Doveva essere steso su qualcosa di estremamente rigido e scomodo, probabilmente una tavola di legno a giudicare dai dolori e gli spasmi che gli facevano contorcere la spina dorsale. Non sapeva esattamente dove fosse, ne come ci fosse arrivato. Aveva la mente affollata da immagini sbiadite e da ricordi sconclusionati. La gamba. Questo era un ricordo preciso. La gamba gli faceva male, molto male, o per lo meno così era fino a qualche ora prima. Progressivamente l'aveva sentita addormentarsi. Un leggero formicolio aveva sostituito il dolore lancinante. Cercò di alzare la testa. Giusto un poco, per osservarsi la gamba, ma l'impresa fu eccessiva. Sentì il collo stirarsi e la testa come perforata da centinaia di aghi roventi. Riuscì giusto a vedere una lunga cinghia di cuoio saldamente legata intorno alla sua gamba.

 Eric passava rapidamente dallo stato di veglia a quello di totale incoscienza. La febbre doveva essere molto alta perché la luce sembrava trapanargli gli occhi. Da quel che riusciva a capire, doveva trovarsi in una stanza squadrata e molto piccola, con mura di pietre e nessun tipo di arredamento. La luce arrivava da una serie di aperture strette in alto sul muro di fronte a lui e c'era una sola porta in legno sulla sua destra con una feritoia a metà altezza. La sua branda, letto, tavola, o come diavolo la si voglia chiamare, era appesa al muro con due pesanti catene in ferro battuto. 
 Dopo lungo meditare decise che quella sorta di prigione era solo frutto di un'allucinazione causata dalla febbre. Chiuse gli occhi per richiamare a sé il ricordo delle calde coperte e del morbido materasso sul suo letto. Si concentrò per riuscire a sentire gli odori della sua casa, quel misto tra carta di giornale, naftalina e incenso -non troppo, quel tanto che bastava per rilassare la mente. Cercò di ascoltare i rumori della lavatrice in bagno e delle macchine che veloci sfrecciavano davanti al vialetto della sua casa. Sul retro delle sue palpebre si formò l'immagine di un soffitto bianco con al centro un lampadario con le pale al quale non aveva ancora montato i diffusorio, lasciando quindi le tre lampadine nude.
 Si lasciò cullare per un attimo nel piacere infantile della sua camera, ma quando aprì gli occhi tutto sparì e fu di nuovo sostituito dall'inquietante visione di una cella umida e maleodorante.

 Non era un sogno ne un illusione. Era la pura realtà, era rinchiuso in una cella. Ma -c'è sempre un ma- come c'era finito? Ogni volta che cercava di catturare un ricordo, una sensazione o un indizio che lo aiutasse a capire, quello gli sfuggiva di mente, si perdeva tra la nebbia che offuscava i suoi pensieri. Più si sforzava, meno ricordava. Non era quello il modo di procedere, di ricostruire, di ricordare. Eric era uno scienziato, un Dottore con tanto di lode, doveva seguire un metodo, un sistema preciso per trovare il bandolo della matassa. Per arrivare a delle conclusioni valide bisogna concentrarsi sui fatti evidenti e il dolore alla gamba era senza ombra di dubbio la cosa più evidente. La gamba. Ricordava ancora la sensazione tremenda della punta metallica della freccia che veniva estratta dalla carne del suo polpaccio. La freccia. Un nuovo tassello del puzzle. Non l'aveva neanche sentita arrivare. Un dolore lancinante gli aveva fatto perdere l'equilibrio. Persino negli occhi di quel soldato si era dipinta la sorpresa. Il soldato col quale si stava battendo, quello che aveva messo a terra...
 "Peter!"
 Eric si alzò di scatto a sedere ignorando i dolori che attanagliavano tutto il suo corpo. Come un fulmine tutti i ricordi e le sensazioni avevano ripreso forma e si erano concretizzati nell'immagine di Peter. Il suo allievo. Quello che lui aveva inseguito nel bosco. Quello che si era lanciato contro i soldati per permettere al gruppo di scappare. Elliot, Mallory, Lara. Li ricordava tutti. Li ricordava in pericolo. Panico e ansia si avvinghiarono alle sue viscere con rabbia. Doveva alzarsi, doveva raggiungerli.
 Provò ad accennare un movimento con la gamba, ma il dolore tornò più vivo di prima. Fu sul punto di perdere di nuovo conoscenza, ma si aggrappò al ricordo di Peter per mantenere il controllo. Una goccia di sudore cadde dalla sua fronte. Abbassò lo sguardo in preda allo sconforto. Fisso le mani lerce e graffiate con le quali aveva combattuto per salvare il ragazzo. Era riuscito a metterlo in fuga, ma in un bosco, di notte, un ragazzino da solo quante possibilità aveva di cavarsela?

 La luce diffusa nella stanza perse via via di intensità. I colori sfumarono verso l'arancio per poi spegnersi nelle ombre della notte. Il sole stava calando rapidamente ed Eric non riusciva a riprendersi dal colpo. Rimase immobile a fissarsi le mani come nella speranza che l'immagine del ragazzo si materializzasse e riuscisse a tranquillizzarlo, ma il miracolo non avvenne. Si sentiva disperato e perduto. Come un ossessione ripeteva la stessa parola a bassa voce: "Peter"
 "Non ti preoccupare per lui, sta bene. Beh, comunque sta meglio di te."
 La voce veniva dall'angolo sotto la finestra, il punto più in ombra della stanza. Eric impiegò un po' a realizzare, credeva che la voce facesse parte delle tante allucinazioni che lo tormentavano. Si sforzò di vedere cosa si nascondeva in quell'angolo della cella, ma c'era solo il buio più assoluto.
 "Chi sei?" provò a chiedere con un filo di incertezza nella voce.
 "Un amico" rispose la voce.
 "Non mi basta, voglio sapere chi sei!" riprese Eric quasi infastidito da tutto quel mistero.
 "Uhm, questa scena l'ho già vissuta! Cos'è, avete un copione prestampato?" fece la voce ironica.
 "Che diavolo stai dicendo" Eric iniziò a convincersi di stare parlando con un'allucinazione.
 "Niente, lascia stare. Ho bisogno di parlarti, ma adesso non sei in condizione di ascoltarmi."
 Dal buio una sagoma iniziò a delinearsi illuminata dalla luce della luna che lentamente aveva guadagnato il suo posto nel cielo. Un enorme mantello scuro avvolgeva una figura umana con un grosso cappuccio che gli copriva quasi per intero il volto. Eric non riusciva a distinguere i lineamenti del suo viso, ma a giudicare dall'altezza e dalle proporzioni del corpo doveva essere un ragazzino.
 Si avvicinò alla branda dove Eric era ancora seduto "Sdraiati" disse e accompagnò con la mano il movimento dell'uomo che, ubbidiente, si stese sulla rigida tavola di legno. Il ragazzo si avvicinò alla gamba ferita e vi appoggiò una mano sopra. Eric vedeva la scena come attraverso un caleidoscopio rotto. Colori e immagini distorte si alternavano a causa della febbre, ma era abbastanza sicuro di aver visto della luce provenire dal palmo della mano del ragazzo. Una flebile filastrocca, nenia o chissà che strana canzoncina, si stava spandendo nella stanza. Lentamente un leggero torpore invase il corpo di Eric e una sensazione di sollievo fece sprofondare l'uomo in un sonno profondo.

 Quando riprese conoscenza, il ragazzo era accucciato in un angolo. Sembrava appisolato, ma appena Eric fece per alzarsi lui gli sorrise e si alzò in piedi.
 "Come va?"
 Per la prima volta Eric notò che il ragazzo non muoveva le labbra per parlare, come se la voce gli arrivasse dritta nella testa. Testa che tra l'altro non faceva più male. Gli occhi, le orecchie, la schiena, tutto in perfetto ordine. Le immagini che vedeva erano nitide e non distorte, i suoni che ascoltava erano puliti e non rimbombavano più nella sua mente. Stava bene. Persino la gamba non faceva più male, si soffermò ad accarezzare il foro sui suoi pantaloni di velluto ormai impregnati del suo sangue. L'odore acre della carne era ancora forte, ma probabilmente era dovuto ai suoi indumenti sporchi, perché sotto al foro non c'era più nessuna ferita. Niente, neanche una puntura di spillo. Si slegò la cinghia legata intorno alla gamba e un forte formicolio invase tutto il suo corpo. Una sensazione estremamente fastidiosa, ma di certo non dolorosa.
 "Direi che sto bene, ma credo tu lo sapessi già" disse, e il ragazzo si limitò a sorridere.
 "Ho bisogno che tu faccia qualcosa per me" riprese il ragazzo facendosi improvvisamente serio.
 "Mi stavo giusto chiedendo quando saresti arrivato al punto" rispose Eric mettendosi seduto sulla tavola con le spalle al muro e con i piedi scalzi appoggiati sul freddo pavimento lastricato di pietre.
 "Elliot sta arrivando..." iniziò il ragazzo, ma fu subito interrotto "Cosa? Perché sta venendo qui?" il volto di Eric si era deformato in un'espressione di estrema preoccupazione.
 "Elliot sta arrivando" riprese il ragazzo senza dare peso alla reazione di Eric "verrà qui per salvare te, e verrà qui anche per salvare Peter".
 "Avevi detto che Peter è al sicuro" commentò Eric.
 "E te lo confermo, attualmente gli ho affidato una piccola missione. Il punto è che Elliot non deve interferire in nessuna maniera con il compito di Peter."
 "In che modo potrebbe interferire?" chiese dubbioso Eric.
 "Beh, ad esempio andandolo a cercare" ironizzò il ragazzo, ma allo sguardo perplesso di Eric, si appoggiò una mano alla fronte e andò avanti con la sua spiegazione. "Elliot è un ragazzo con un grande cuore ma soprattutto con un grande coraggio. Niente e nessuno potrebbe impedire a lui e ai suoi amici di andare a salvare Peter. Continuerebbero a cercarlo per il mondo intero e poi ancora oltre".
 "Come fai a conoscerlo così bene? E come fai a sapere tante cose di noi?" chiese Eric.
 "E' una lunga, lunghissima storia e adesso non ho il tempo di raccontartela, devi solo sapere che tra me ed Elliot esiste un legame che va oltre la normale comprensione umana" rispose l'altro.
 "Cosa dovrei fare?" chiese quasi rassegnato Eric.
 "Qui viene la parte difficile: dovrai dirgli che Peter è morto! E' l'unico modo per impedirgli di seguirlo"
 "Cosa? Hai voglia di scherzare? Il dolore lo ucciderebbe!" protestò Eric.
 "Ce la farà! Comunque il tuo compito non si ferma qui. Dovrai assicurarti che rimanga al fianco di Kaila, la ragazza che vi ha trovato nel buco."
 "Hai suggerimenti particolari in merito?" rispose sarcastico Eric squadrando il ragazzo da capo a piedi.
 "Lascio tutto alla tua fervida fantasia" concluse il ragazzo.
 "Quindi parli sul serio, dovrei andare da Elliot e dirgli: 'Ehi, il tuo amico è morto, fatti una passeggiata con questa ragazza sconosciuta così ti tiri su di morale'" Eric era completamente incredulo.
 "E in tutto questo dovresti anche evitare di menzionare la mia esistenza" concluse il ragazzo.
 "Non dicevi di avere un legame speciale con Elliot?" la discussione stava decisamente assumendo dei toni surreali.
 "Il fatto che il legame esista non significa che lui ne sia a conoscenza. Presto vi sarà tutto più chiaro, ma per ora la cosa importante è che Elliot e Peter proseguano su due strade separate."


 Il silenzio calò tra i due rotto solo dal tintinnio metallico di una chiave in lontananza. Eric continuò a fissare torvo il ragazzo anche se i suoi occhi rimanevano costantemente coperti dal grande cappuccio.
 "Stanno arrivando" disse all'improvviso il ragazzo.
 "Chi?" chiese Eric.
 "I tuoi carcerieri, saranno qui tra breve."
 "Cosa vogliono da me?"
 "Sapere chi sei, come sei arrivato qui, che legame hai con Kaila... inventati una balla e restaci fedele, loro non hanno la più pallida idea dell'esistenza del luogo dal quale venite".
 "E da dov'è che veniamo... esattamente?" Eric ormai aveva completamente perso il filo logico del discorso.
 "Dal mondo della scienza e della tecnologia e, per rispondere alla tua prossima domanda, questo è il mondo della magia -si, ho detto magia- dovresti aver notato tutte le cose strane che ti stanno accadendo intorno, non dovrebbe essere così difficile per te credere ad una cosa così assurda come la magia" spiegò il ragazzo.
 "Cosa mi faranno?" chiese Eric scoraggiato. Nei suoi occhi lo sconforto era evidente come lo era la sua infinita stanchezza.
 "Non lo so, ma devi resistere, Elliot e gli altri stanno arrivando".
 "Che fortuna! Un gruppo di ragazzini sta per intrufolarsi in una prigione in stile medievale, con chissà quanti guardiani pericolosi. In che modo questo dovrebbe aiutarmi?" la stanchezza si stava rapidamente trasformando in collera. Eric era scattato in piedi e aveva afferrato il ragazzo per il bavero del mantello. Il cappuccio scivolò delicatamente all'indietro scoprendo gli occhi del ragazzo, gonfi di lacrime e di tristezza. Eric lasciò la presa e si rimise a sedere, si prese la testa fra le mani e sospirò. La stanchezza era tornata con la stessa rapidità con la quale era stata scacciata dalla rabbia.
 "Dove mi trovo?" chiese come per cercare di scacciare un pensiero.
 "Sei nella città fortificata di Elengar" rispose la voce nella sua testa. Eric continuò a fissarsi i piedi scalzi. Un topolino squittì in un angolo della stanza e scattò verso la porta.
 "Come facciamo a scappare?" chiese con la stessa naturalezza di una persona che chiede informazioni sul clima.
 "Devi avere fiducia nei tuoi ragazzi, sapranno tirarti fuori da qui" rispose la voce. 
 Eric alzò lo sguardo e un briciolo di collera lampeggiò di nuovo nei suoi occhi "Quindi mi stai dicendo che sai già che sopravviveremo!" chiese rabbioso.
 Il ragazzo rimase immobile. Fu ora il suo turno di abbassare lo sguardo. Non rispose, ma non ce ne fu bisogno. Eric si limitò a sbuffare con aria ironica e a scuotere la testa in segno di disapprovazione.


 Il tintinnio delle chiavi si fece sempre più vicino. Adesso insieme al rumore metallico si potevano udire anche i passi di un uomo che avanzava verso di loro. Nella cella il silenzio era totale ed Eric era in grado di sentire ogni palpitazione del suo cuore. L'ansia lo stava progressivamente divorando. Per la prima volta iniziò a provare paura. Paura per l'ignoto, paura per i suoi allievi, paura della morte.
 "Ora devo andare, da qui in avanti dovrai cavartela da solo" disse la voce nella sua testa. Eric non si sprecò nemmeno ad alzare lo sguardo. Non un cenno di saluto ne una parola. Continuò a fissare il pavimento con ostinazione e rabbia. Paura e collera.
 Il ragazzo era sparito esattamente come era comparso. Eric continuò a tenere lo sguardo basso ma sapeva di essere di nuovo solo nella stanza. Il pesante rimbombo dei passi si arrestò in corrispondenza della sua porta e il rumore della chiave che cercava la sua strada all'interno della toppa gli fece gelare il sangue.
 La porta si spalancò ed un uomo enorme con una casacca nera con una croce bianca al centro fece il suo ingresso nella stanza. Eric ricordò di aver già visto quel simbolo. Era impresso sulle divise dei due soldati che lo avevano catturato. Ricordò finalmente il percorso che lo aveva portato in quella prigione. La cattura. Il viaggio a cavallo con le mani legate. Le continue cadute e le conseguenti perdite di conoscenza. L'interminabile salita costantemente in curva che li aveva condotti fino alla cima di una montagna come mai ne aveva viste. Le mura. Il castello. La cella.
 L'uomo enorme si fece da parte e lasciò il passo ad un suo commilitone. Decisamente più piccolo. Non troppo, aveva una corporatura molto simile a quella di Eric, forse solo un po' più magro, però accanto a quella montagna umana dava l'idea di essere infinitamente piccolo.
 Aveva dei lunghi capelli neri e si fece avanti sorpassando il gigante che lo aveva accompagnato. Si avvicinò ad Eric che continuava a starsene seduto sulla tavola di legno con lo sguardo perso nel vuoto, accecato dalla poca luce che filtrava dalla porta alle loro spalle.
 "Il mio nome è Nikolas" disse e rimase in silenzio come per attendere una risposta, ma vistosi ignorato riprese "Di solito quando qualcuno si presenta, è buona educazione rispondere presentandosi a propria volta".


 Eric sorrise. Fissò Nikolas negli occhi e ne sostenne lo sguardo, infine disse "Abbiamo un concetto di educazione differente. Dalle mie parti è considerato alquanto scortese prendere uno sconosciuto, tirargli una freccia nel polpaccio, arrestarlo e sbatterlo in prigione senza motivo".
 Nikolas sembrò divertito da quello scambio di parole "Hai ragione, ma da quel che mi risulta tu hai aggredito uno dei miei uomini. Anche questa è una cosa che non andrebbe fatta. Diciamo che siamo pari" disse il soldato sorridendo e tendendo la mano in segno di pace. 
  Eric ignorò la mano e continuò a fissare Nikolas negli occhi. Si alzò in piedi e si accorse di essere di poco più alto del suo interlocutore. Questo doveva infastidire non poco il soldato che in risposta distolse finalmente lo sguardo. "Quindi posso andarmene tranquillamente per la mia strada" esclamò ironico Eric.
 "Oh, ma certo che puoi. E' sufficiente che tu risponda ad alcune domande e poi te ne potrai andare" concluse Nikolas facendo segno con la mano all'energumeno di spostarsi e indicando la via libera.
 "Non so nulla di quella ragazza che stavate inseguendo, l'abbiamo incontrata per caso e non ho neanche avuto modo di scambiarci due parole."
 "Mi hai frainteso. Non mi importa nulla di quella ragazza. L'ho fatta seguire dai miei uomini con una scusa solo perché non mi era permesso di dire loro la verità. La verità è che io sapevo che sareste arrivati -si, proprio così! Sto parlando di te e di quei ragazzini- e sapevo che quella ragazza ci avrebbe condotti da voi".
 Eric rimase spiazzato, il ragazzo che gli aveva fatto visita pochi istanti prima gli aveva detto un sacco di cose inutili, ma doveva aver tralasciato di avvertirlo che lo scopo della retata nel bosco era proprio catturare loro, o perlomeno uno di loro. Lui.
 Si chiese quante possibilità ci fossero che il ragazzo non ne fosse a conoscenza, ma non seppe darsi risposta.
 Nikolas si aggiustò la divisa e ricominciò a parlare "Vedi, qui comando io ma, come tutti, anche io rispondo agli ordini di qualcuno. Questo qualcuno mi ha avvertito che dei forestieri sarebbero giunti in queste terre e che io avrei dovuto catturarli. Questa è la mia missione, il mio scomodo incarico. Non è nostra intenzione farvi del male, vogliamo solo scoprire come avete fatto ad arrivare 'qui'. Perciò ora ci sediamo e tu mi racconti tutto."
 "Lo farei molto volentieri" rispose Eric sedendosi di nuovo sulla branda di legno "ma non ho la più pallida idea di cosa tu stia parlando".
 Nikolas si sedette al suo fianco e attese qualche istante, si voltò verso di lui e sorrise. "Ne sono certo. Amnesia immagino. Ma non ti preoccupare, abbiamo i nostri metodi per far recuperare la memoria ai prigionieri" detto questo si alzò nuovamente ed uscì dalla cella. Il gigante lo seguì silenziosamente.
 Rumore di chiavi. Rumore di passi. Silenzio. Eric era di nuovo solo.


venerdì 31 dicembre 2010

La Missione

Il buio cupo della notte era addolcito da un leggero riverbero. In lontananza il crepitio delle fiamme. L'odore acre del fumo stava riempiendo la valle e rendendo l'aria irrespirabile. Peter continuò a correre a lungo. Sentiva il fumo penetrargli nelle narici e poi giù nei polmoni. Tratteneva la tosse con tutta la sua forza per evitare di segnalare la sua presenza, di indicare ai loro inseguitori dove si trovasse e come raggiungerlo. Gli occhi iniziarono a lacrimargli per lo sforzo e la testa iniziò a girargli. Il mondo si confuse tra nebbia e vertigini. I rami degli alberi sembravano danzare per lui in quella notte infernale. Ombre spettrali si agitavano ovunque.
I primi segni di sfinimento iniziarono a colpire le sue gambe. Dolore e stanchezza si impossessarono dei suoi muscoli. La vista sempre più appannata. Continuò a correre ancora e ancora e ancora. Non voleva fermarsi. Aveva paura. Paura di morire. Paura di aver causato la morte del suo professore. L'aveva abbandonato. Il professor Stevens l'aveva seguito solo per salvarlo e lui l'aveva lasciato in balia dei loro aggressori. Non si dava pace per questo.
All'inizio gli era parsa una buona idea. Dividersi per confondere il nemico poteva portare tutti alla salvezza, ma non aveva previsto di inciampare proprio in quel ragazzo. Aveva preso un piccolo sentiero per allontanarsi dal gruppo. Sentiva il sibilo delle frecce in lontananza e voleva cercare di aggirare l'arciere per aggredirlo alle spalle, ma all'improvviso si era trovato di fronte un secondo soldato. Se ne stava acquattato nell'ombra pronto ad attaccare di sorpresa. Peter gli era letteralmente crollato addosso e lo aveva schiacciato in terra. Avevano iniziato a lottare quando all'improvviso spuntò anche il professore. Era arrivato per aiutarlo. Era arrivato per salvarlo. E invece era finito a terra.
L'intento di Peter era quello di distrarre l'arciere per permettere agli altri di scappare, e tecnicamente ci era anche riuscito, infatti il soldato era arrivato in soccorso del suo collega e aveva colpito il professore. Una lunga freccia conficcata nel polpaccio. Doveva fare un male cane. Il coraggio del ragazzo si infranse in quel momento. Si rese conto del pericolo e della sua idiozia. Quello non era un gioco e quei soldati non erano certo lì per giocare a nascondino. Peter si sentì paralizzato dal terrore e non riuscì a muovere un dito. Anche quando l'arciere si allontanò e il professore riuscì ad atterrare l'altro soldato, Peter non si mosse. Si ripeteva che non voleva lasciare da solo il suo salvatore, ma la realtà è che era terrorizzato. Ci mise un po' a decidersi a scappare. Con le mani legate dietro la schiena e con il fumo negli occhi iniziò a correre come un pazzo. Tutta la sua tecnica di atleta sparì nei meandri della sua paura. Corse finché le gambe glielo permisero. Corse finché i polmoni non gli fecero male. Corse finché i suoi occhi riuscirono a vedere. Corse finché non inciampò nella radice di un albero rovinando bruscamente a terra. Tutto si fece scuro. Il silenzio calò.

La mente di Peter vagò per ore mentre era privo di conoscenza ai piedi di un albero. Aveva battuto la testa e probabilmente perdeva sangue, ma si sentiva tranquillo. Protetto. Lasciò che la paura scivolasse via dal suo corpo, che la fatica abbandonasse le sue membra, che il dolore sparisse tra i suoi ricordi. Sprofondò in un lungo sonno senza sogni. Era stanco e devastato da quella lunga giornata. Il freddo pungente del bosco smise di aggredirlo e una familiare sensazione di tepore lo avvolse. Il respiro divenne regolare. Dormì per ore come un bambino. Tossiva ogni tanto per cacciare via quel fumo che gli si era accumulato nel petto. Le larghe foglie cadute dagli alberi gli fecero da giaciglio.
Iniziò a riprendere coscienza di sé solo quando il cielo iniziò a schiarirsi. L'aurora arrivò a strappargli via brandelli di sonno dagli occhi riportandolo alla realtà. Sentiva ancora il crepitio del fuoco, ma più leggero, soave. L'odore pungente del fumo era sparito e al suo posto l'aria era invasa da un profumo ammaliante. Qualcosa che risvegliò i suoi sensi. Cibo. Si rese conto di avere fame come mai prima d'ora. Lo stomaco ruggiva come un leone nella savana e la bocca era impastata dalla troppa salivazione. Quel profumo sembrava meraviglioso e invitante. Si sforzò di aprire gli occhi. Doveva capire. Doveva mangiare.
Si rese conto di essere al caldo. Protetto da una pesante coperta di lana. Cercò di tirarsi su, ma i dolori assopiti durante la notte tornarono a fargli visita. Le ossa erano pesanti e anchilosate. I muscoli infiammati e irrigiditi. Provò a fare forza su un braccio per alzarsi ma ricadde sdraiato. Non aveva più i polsi legati. Al posto delle corde c'erano profondi solchi escoriati con piccoli grumi di sangue rappreso.
"Non ti sforzare, cerca di riposarti" disse una voce. Peter non se lo fece ripetere e sprofondò nuovamente nell'incoscienza. L'impellente bisogno di mangiare si affievolì un po' ma non si arrese del tutto rendendo il sonno del ragazzo agitato e scomposto.

Si svegliò quasi di soprassalto scattando a sedere come se si fosse ricordato improvvisamente di qualcosa. Non aveva realizzato, non ci aveva neanche provato, ma adesso era chiaro come il sole. C'era qualcuno. Qualcuno che si era preso cura di lui e lo aveva protetto durante quella notte. Si guardò intorno ma gli occhi ancora non rispondevano bene. Annebbiati dal sonno e dalle lacrime. Vide la coperta che aveva addosso. Era lana buona e conservava ancora il suo tepore. Vide il fuocherello che scoppiettava allegro sopra dei rami secchi. Scaldava una grossa pentola di rame da dove fuoriusciva un profumo di fagioli e carne. Vide il ragazzo, il suo custode. Aveva un grosso mantello che lo avvolgeva completamente e un largo cappuccio che gli calava sul volto. Ricordava molto quello indossato da Kaila. Kaila. Come poteva averla dimenticata? Un fiume in piena di ricordi lo investì riportandogli alla mente tutti gli eventi del giorno precedente. Un groviglio di pensieri confusi e sconclusionati. Eventi strani e inspiegabili che potevano solo essere frutto di un sogno.
"Dove mi trovo? Cos'è successo? Dove sono i miei amici? Che fine anno fatto quei soldati?" Peter sentì le domande accavallarsi in fretta e furia sulla sua lingua come se sentissero il bisogno di fuggire e dovessero farlo nel più breve tempo possibile.
"Troppe domande amico mio, e non ho molto tempo per risponderti" la voce arrivò da sotto il cappuccio ma Peter non vide nessuna bocca muoversi. Aveva già visto una cosa simile. Quel ragazzo lo aveva già incontrato. Stava mescolando con un bastone il contenuto della pentola come se nulla fosse accaduto. Il profumo della carne stufata aggredì le narici di Peter e la fame ritornò più forte che mai. Aveva bisogno di mangiare. I suoi occhi si persero ad ammirare le volute di fumo che fuoriuscivano dal paiolo. La sua bocca era aperta e carica di saliva. Non avrebbe resistito oltre.
"Questa roba è tutta per te, stai tranquillo, ma adesso dobbiamo parlare" disse la voce sotto il mantello.
"Chi sei tu?" chiese Peter riscuotendosi dal richiamo ipnotico del cibo.
"Un amico" rispose l'altro.
"Non mi basta, voglio sapere chi sei! Sei lo stesso dell'altra sera, quello che mi ha indicato la via per la casa del professore?"
"Si, sono io, e per il momento dovrai accontentarti di questo. Non ho il tempo di darti altre spiegazione. Devo affidarti una missione."
"Una missione? Ma di che parli? Devo tornare dai miei amici, devo dirgli dove stanno portando Stevens. Dobbiamo andare a salvarlo."
"Non ti preoccupare dell'uomo. I tuoi amici sono al sicuro adesso e presto avranno modo di soccorrerlo, ma tu dovrai rinunciare a rivederli per un po'."
"Come fai a sapere che stanno bene?"
"Sono anni che proteggo Elliot. Di me puoi fidarti!"
Elliot. Conosceva il nome del suo migliore amico. Diceva di proteggerlo, ma non l'aveva mai visto prima di quegli eventi. Da anni poi, era impossibile. Però conosceva il suo nome. E conosceva anche quello di Stevens. Sapeva fin troppe cose e ne condivideva troppo poche. Peter iniziò a spazientirsi. Eppure sentiva che di quella persona poteva fidarsi. La stessa sensazione che aveva provato la sera del crollo della grotta, quando gli aveva indicato la strada per la casa del professore e poi era sparito. In quel momento non si era chiesto il perché di quell'aiuto o se potesse trattarsi di un inganno. Anche adesso lentamente si rendeva conto che di quella voce che si nascondeva sotto quel mantello aveva una fiducia cieca.

"Quale sarebbe la missione?" chiese con timidezza Peter. Fissava la coperta che ancora teneva sulle gambe indolenzite. Non voleva far vedere che si era arreso a quella fiducia incondizionata. Quella fiducia che progressivamente lo stava rasserenando. I suoi amici stavano bene e sarebbero andati a salvare il professore. Sarebbe voluto andare anche lui, aveva un debito di gratitudine con Stevens e voleva saldarlo. Si augurò con tutto se stesso che Elliot e Mallory riuscissero nell'impresa.
"Devi trovare un drago" esordì la voce quasi all'improvviso.
"Cosa? Un drago? Hai voglia di scherzare?" Peter si sentì spiazzato. Semplicemente pensò di aver capito male.
"Vedi Peter -si, so anche il tuo nome- l'altra sera voi tutti avete fatto un viaggio incredibile. Il luogo in cui ti trovi è lo stesso che conosci, ma al contempo è completamente diverso. Sei nel mondo della Magia adesso" spiegò il ragazzo.
"Mondo della Magia?" Peter era sempre più confuso. Si limitava a ripetere stupito le ultime parole che sentiva venire da sotto quel cappuccio.
"Beh, non è che abbia un nome vero e proprio, ma è sicuramente il modo migliore per spiegartelo. Riassumendo, tanto tempo fa Magia e Scienza convivevano in questo mondo. Una guerra enorme però rischiava di sterminare la vita sul pianeta, così fu imposto un sigillo che separò le due realtà creando due mondi paralleli che si sono evoluti indipendentemente. Tu vieni dal mondo della scienza e adesso sei finito in quello della magia. Tutto chiaro?"
"Cristallino" rispose ironico Peter. "Mi chiedo come abbia fatto a non capirlo subito!"
"Lo so che questa storia ti sembra incredibile, ma tutto ti diverrà chiaro con il tempo. Dopo che il sigillo fu imposto la guerra finì. Beh, non immediatamente, ci vollero anni, ma una profezia ne paventò il ritorno. La guerra avrebbe nuovamente imperversato su queste terre. E' per questo che ti sto affidando questa missione."
"In che modo un drago -ammesso che esista e che io lo trovi- potrebbe salvare il mondo dalla guerra di cui parli" chiese scettico Peter, ma il ragazzo che aveva di fronte si limitò a sollevare il capo nella sua direzione. Peter riuscì a vedere parte del suo volto. La sua bocca si era deformata in una specie di mezzo sorriso. "Lo capirai al momento giusto" si limitò a dire e Peter ebbe la conferma che il ragazzo non muovesse le labbra per parlare. Quella voce arrivava direttamente dentro la sua testa.
"Per me è ora tempo di andare, nella sacca al tuo fianco ci sono alcune cose: dei vestiti, un po' di cibo per il viaggio e anche qualche soldo -non è stato facile procurarmeli- troverai anche una cartina e una bussola. A due giorni di cammino in direzione nord troverai un villaggio di nome Tamal. Lì vive una donna di nome Ezra che saprà aiutarti. Dalle il ciondolo che trovi nella tasca anteriore della sacca e lei capirà."
"Tu non vieni con me?" chiese Peter preoccupato.
Il ragazzo si alzò in piedi e si voltò a guardare il lento incedere del sole nel cielo. Era ormai l'alba. Fissò la luce aumentare per qualche istante e poi si rivoltò verso Peter. "Vorrei, ma non mi è possibile, dovrai cavartela da solo. Ho piena fiducia in te" e con queste parole semplicemente scomparve. Si volatilizzò nel nulla. Sfumò nello sfondo come la nebbia che si dissolve sotto i caldi raggi del sole. Sparito.

Peter continuò a fissare per qualche minuto il punto dove il mantello era svanito nel nulla. Il sole gli ferì gli occhi e lo costrinse a distogliere lo sguardo. Si ricordò della pentola in cui bollivano fagioli e carne e la fame divampò di nuovo come un incendio. Si avventò sul contenuto e cercò di mangiarlo con il mestolo che il suo amico aveva usato per mescolare. Si ustionò la lingua, ma la cosa non lo fermò. Continuò a mangiare e a mangiare finché non fu sazio.
Con la pancia piena si distese nuovamente a terra a fissare le nuvole che correvano nel cielo tra le fronde degli alberi. Quei rami ormai quasi del tutto spogli che la sera prima lo avevano ghermito e spaventato. Il giorno maturava lentamente e la luce aumentava rendendo il bosco un posto meno spettrale. In lontananza vide alcuni solitari sbuffi di fumo alzarsi dal folto del bosco dove la sera prima era divampato l'incendio. Qualcuno era riuscito a domarlo e a spegnerlo.
Si prese il tempo di rischiararsi le idee e poi si rimise a sedere. Si guardò intorno per cercare la sacca di cui aveva parlato il ragazzo e la trovò appoggiata al tronco dell'albero che aveva accanto. Lo trasse a sé e ne ispezionò il contenuto. Era fatta in tela morbida ma resistente. Era molto grande, poteva essere tranquillamente uno zaino da campeggiatore. Si chiese come avrebbe fatto a portarlo in giro. Doveva essere molto pesante.
Prese gli abiti e li indossò. Dovette farlo sotto la calda coperta di lana perché fuori faceva troppo freddo. Un paio di pantaloni imbottiti di lana di pecora, una pesante casacca di stoffa e una giacca di fustagno. Vestito in quella maniera si sentiva ridicolo -non osava neanche immaginare come lo avrebbero preso in giro a scuola- ma dovette ammettere che non avrebbe più sofferto il freddo.
Ripose i suoi vecchi vestiti nella sacca e altrettanto fece con la coperta di lana. Prese la cartina e la bussola e si andò a sedere vicino al fuoco. Passò la mattinata mangiando ed esaminando la grande pergamena. La conformazione del luogo gli era familiare. Come aveva detto il ragazzo misterioso, quel posto era in tutto e per tutto uguale alla collina che conosceva. Aveva identificato la sua posizione e aveva trovato il villaggio Tamal che avrebbe dovuto raggiungere. Tracciò a mente il percorso per cercare di capire che strada avrebbe dovuto fare e si rese conto che la cartina era estremamente dettagliata. Sembrava fatta a mano da qualche scrivano. La carta era vergata con un leggerissimo e preciso solco di inchiostro scuro, ma non era meno precisa di quelle digitali di un navigatore satellitare. Cercò di esaminare il resto della zona per cercare di capire quanto fosse diversa, quando alla fine si accorse che ogni suo dubbio o perplessità sulla storia che gli era stata raccontata era completamente sparito. Ormai il fatto di essere in un mondo alieno impregnato di magia non gli sembrava più tanto strano. Anzi, sembra perfino la spiegazione più logica per gli eventi dei giorni passati. I fantasmi di nebbia, la luce nella grotta, i modi strani di Kaila. Tutto poteva essere spiegato con la storia dei due mondi.
Avrebbe cercato un drago. Anzi, avrebbe trovato un drago. Realizzò quanto fosse magnifica la cosa e si riempì di gioia. Era finito in un gioco di ruolo e lui ne era il protagonista. Si immaginò la faccia di Elliot quando lo avrebbe visto in sella ad un enorme e possente drago. Quella sì che sarebbe stata una bella soddisfazione. Chissà se Mallory avrebbe fatto ancora il prepotente una volta che Peter si fosse presentato col suo nuovo cucciolo. Avrebbe dovuto dargli un nome? Avrebbe potuto dialogarci? Peter era ansioso di gettarsi a capofitto in quel viaggio magico.
Finì in un sol boccone i pochi avanzi di carne e scattò in piedi. Prese in spalla lo zaino e si accorse che era estremamente leggero. Se lo tolse e lo guardò con attenzione. Lo lanciò in aria e lo riprese al volo. Pesava quanto un pallone da calcio. Non gli sembrava vero e non capiva come fosse possibile, ma dopotutto si trovava nel mondo della magia. Quante cose avrebbe visto che lo avrebbero lasciato senza parole. Quante persone avrebbe incontrato che lo avrebbero affascinato coi loro poteri. Era in un mondo nuovo e fantastico. Il paese delle meraviglie.
Spense il fuoco e si incamminò.


lunedì 27 dicembre 2010

Inseguimento

Il paggio si stava lentamente avvicinando dal corridoio di nord-ovest. Statue e armature consunte si alternavano tra di loro. Le piccole fiammelle delle lanterne proiettavano le loro tremolanti luci sul pavimento creando strani giochi di ombre. L'ostentata opulenza di quella reggia stonava di fronte alla evidente decadenza della città-alveare. Da quando si erano trasferiti ad Elengar, Nikolas aveva iniziato a comportarsi come se fosse il re di quella città morente. Forte del suo sigillo imponeva il suo volere su una città pigra e senza forza di volontà.
Takalia odiava tutte quelle cerimonie. Stare lì immobile ad aspettare di essere ricevuta al cospetto di quell'uomo che fino a poco prima trattava come un fratello maggiore. Continuò a fissare il paggio avvicinarsi con calma senza muovere un muscolo. Era rosso in volto. Indossava diversi strati di merletti, tessuti vari ed infine un pesante mantello di broccato. Ci si sarebbe tranquillamente potuto ricoprire un intero accampamento militare con tutti quei tessuti che avvolgevano come un salame quel ragazzo. Avrà avuto più o meno 14 anni e probabilmente sarebbe morto soffocato sotto tutta quella stoffa prima di arrivare ai 15.
Arrivò tutto trafelato nonostante il lento incedere. Cercava di nascondere l'affanno respirando a fondo con il naso, ma in questo modo non era più in grado di parlare. Takalia continuò a fissarlo col suo sguardo penetrante senza dare segno di impazienza. Non aveva voglia di vedere Nikolas, quindi ogni scusa era buona per prolungare l'attesa. "Il Capitano Nikolas è disposto a ricevervi. Cortesemente potreste seguirmi?"
Takalia trovò molto buffa la scelta delle parole da parte del paggio. Era convinta che fosse stato Nikolas a farla chiamare, ora invece si dimostrava 'disposto' a riceverla. Il volto del ragazzo era completamente imperlato di sudore. Le guance erano due enormi chiazze rosse. Aveva i capelli incollati dal sudore. Dall'ampio bavero del mantello si alzava un pungente olezzo di rancido misto ad essenze di viole e di mughetto. Takalia dovette fare uno sforzo enorme per non dimostrare tutto il suo disgusto per quell'omuncolo unticcio.
Si incamminarono per i lunghi corridoi della reggia. Il paggio davanti a fare strada con la sua andatura pigra e Takalia subito dietro. Non vi fu scambio di parole tra i due per tutta la durata del viaggio. I corridoi si susseguirono lenti dietro di loro. Tante porte tutte uguali puntellavano le mura ad intervalli regolari. Dame e cortigiani chiacchieravano di futili faccende ad ogni angolo.

Arrivarono di fronte ad una enorme porta istoriata con sopra dei bassorilievi raffiguranti vari avvenimenti storici. Il paggio fece segno alla ragazza di attenderlo. Spinse con quel poco di forza che aveva nelle braccia sui possenti battenti aprendo la porta quel tanto che bastava da consentire il passaggio di un uomo. Una volta dentro il paggio si voltò indietro a fissare la porta riflettendo se fosse il caso di richiudersela alle spalle. L'etichetta avrebbe voluto così, ma poi avrebbe dovuto fare doppia fatica per cercare di riaprirla. Alla fine decise di lasciarla aperta e si diresse di corsa verso il centro della sala. Takalia dalla sua posizione non riusciva ad intravvedere il trono, era coperto da una figura esile dai capelli rossicci e arruffati che le dava le spalle. Teneva il peso appoggiato su un solo piede e aveva le braccia conserte dietro la schiena. Nikolas, oltre a lei, aveva convocato anche Pilsk. La faccenda iniziava a farsi sospetta.
Nei lunghi anni che aveva passato al servizio diretto del Maestro, Takalia aveva imparato a comprendere la gravità delle situazioni con velocità sorprendente. Nel mestiere della spia bisognava essere sempre pronti al peggio. Il più delle volte ci si doveva introdurre in luoghi molto ben sorvegliati senza poter fare conto su armi di qualunque genere. Il silenzio ed il buio erano gli unici compagni delle sue missioni. Takalia aveva imparato a riconoscere ogni rumore, ogni respiro, ogni spostamento d'aria. Ricostruiva nella sua mente il mondo circostante con precisione infinitesimale. Spesso il Maestro l'aveva paragonata ad un pipistrello per quella sua peculiarità. In meno di un battito di ciglia era in grado di interpretare i movimenti che la circondavano definendo le dinamiche di ogni situazione. Poteva prevedere ogni singolo cambiamento e agire di conseguenza.
Adesso la situazione non era del tutto diversa. I segnali erano chiari. Nikolas non voleva uno dei suoi soliti rapporti sull'andamento dell'addestramento del nuovo esercito o sullo stato di attività delle pattuglie. No, voleva affidarle una missione. La presenza di Pilsk indicava anche un certo grado di difficoltà del compito che stava per ricevere. Le spie di solito lavorano da sole, essere affiancati da un armato significa la possibilità di dover ingaggiare battaglia. Nikolas non era uno sprovveduto ed evidentemente aveva valutato i rischi e i benefici che sarebbero scaturiti dall'affiancare i due.
Tutto sommato l'idea le piacque. Erano ormai settimane che controllava le ronde sulle mura di cinta o che teneva lezioni di tattica al rinnovato esercito di Elengar. In tutta la sua vita non si era mai annoiata tanto e l'idea di un po' di movimento le stuzzicava la mente. Il paggio tornò indietro facendole segno di seguirla. Finalmente avrebbe avuto qualche informazione precisa.

Takalia appoggio delicatamente la mano sulla grande porta istoriata e con una leggera pressione la spalancò. Il paggio la guardò interdetto e un po' stupito. La ragazza era molto forte e adorava vedere lo sguardo di stupore che ogni volta si dipingeva sul volto di chi puntualmente finiva per sottovalutarla. Da tempo immemore ormai si addestrava per nascondere la sua femminilità. Si allenava duramente per rendere il suo corpo forte e tonico. Niente in lei, tranne forse il solo sguardo, faceva trasparire il suo essere donna. Quel poco seno che avevo lo teneva costantemente costretto all'interno di una fascia elastica. A vederla da lontano si sarebbe pensato ad un paio di pettorali molto ben allenati, non certo alle morbide forme di una ragazza.
Al suo ingresso Pilsk si girò a guardarla. Appena la vide sorrise e le fece cenno con la mano. Quel ragazzo era sempre allegro e spensierato, anche nei momenti più duri trovava il modo di sdrammatizzare con una battuta, il ché spesso faceva saltare i nervi a Nikolas. Takalia gli si fece vicino e ricambiò il sorriso. Pilsk le si avvicinò e le sussurrò nell'orecchio "Finalmente un po' di movimento". La ragazza aveva visto giusto, Nikolas voleva affidare loro una missione.
"Come sapete siamo venuti qui per via di un semplice furto. Qualcuno è riuscito ad introdursi in questa reggia più di due lune fa" iniziò Nikolas. Se ne stava seduto sul trono a consultare una mappa. Non aveva neanche alzato gli occhi dal foglio per guardare i due. Accanto al trono stava in piedi tronfio e sudato il paggio di corte. La stanza era enorme e completamente vuota. Il trono stava su un piccolo podio con tre gradini a separarlo dal pavimento. Dai lati partiva una fila di colonne che seguiva tutto il perimetro di quella stanza quadrata e sorreggeva l'enorme volta affrescata con al centro un sontuoso lucernario. Aldilà delle colonne si formava una specie di corridoio adombrato che sembrava voler nascondere alla vista le porte che davano accesso alle stanze regali.
"Credevo che il ladro fosse morto suicida" disse Pilsk. Nikolas alzò lo sguardo e sul suo volto si dipinse un sorriso a mezza bocca. "Ho ragione di credere che non sia morto".
"Ma ci sono dei testimoni" protestò Takalia con la sua voce mascolina.
"Certo, due armigeri che si sono fatti scappare il ladro sotto il naso. La loro testimonianza non è molto affidabile" sottolineò Nikolas "inoltre il cadavere non è mai stato trovato."
"Se ci hai chiamato qui immagino che tu voglia che scopriamo chi è il ladro" fece Pilsk.
"No, non credo ce ne sia bisogno. Oggi ho avuto uno scambio di parole con quello che ritengo sia il principale sospettato. Un ragazzo di nome Felz. Ha in programma un viaggio lontano da Elengar dove probabilmente cercherà di smerciare la refurtiva."
"E questo glielo avrebbe detto lui? Non mi sembra una mossa tanto intelligente, persino per un bifolco" sentenziò Takalia. Sapeva chi fosse quel Felz, aveva una birreria in città nella quale Nikolas passava quasi tutte le serate. Il sospetto che la missione avesse un secondo fine di natura personale iniziò a farsi strada nella mente della ragazza. Il Capitano aveva completamente perso la testa per la sorella di quel birraio, aveva perso di lucidità e di razionalità. Era diventato irascibile e lunatico. Non era più il valoroso condottiero che li aveva guidati in dozzine di campagne militari. Si era progressivamente trasformato in un annoiato monarca con una stupida infatuazione per una semplice plebea. Finché però la cosa riguardava solo Nikolas per Takalia non c'erano problemi, ma adesso voleva mobilitare anche i suoi uomini per il suo fine.
"Ovviamente ha accampato una scusa sciocca, ma è evidente che sta cercando di fuggire da qualcosa. Vorrei che lo seguiste e controllaste i suoi movimenti. Avremo bisogno di prove per inchiodarlo".
Pilsk e Takalia si guardarono sbigottiti. Erano increduli di fronte all'inutilità e alla superficialità di quella missione, per di più non erano affatto d'accordo con il loro Capitano e disapprovavano i suoi nuovi metodi. Pilsk provò a lanciare una protesta, ma fu subito zittito da Nikolas "Non vorrete certo mettere in discussione i miei ordini, vero? Lo seguirete e mi informerete di ogni cosa insolita che noterete. Qualora riusciate a coglierlo in flagranza di reato lo arresterete e lo scorterete qui a palazzo dove verrà interrogato."

I due soldati si congedarono dal loro Capitano e tornarono nei rispettivi alloggi per prepararsi alla partenza. Takalia era sconcertata dal comportamento di Nikolas. Avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma non ne aveva l'autorità. Il Capitano aveva la piena fiducia del Maestro e quindi aveva diritto alla sua più completa obbedienza.
Partirono immediatamente. Nelle stalle trovarono due stalloni neri sellati e pronti per essere cavalcati. Due bestie imponenti e veloci che macinarono la strada che separava la città di Elengar dalla vallata sottostante in poco tempo. Corsero a tappe serrate per recuperare il vantaggio che Felz aveva su di loro e prima di sera arrivarono in vista del carro che Nikolas gli aveva descritto. Si tennero ad una certa distanza per non essere visti. I cavalli al trotto e i mantelli a coprire il volto. Con il calare della notte si fecero completamente invisibili.
Il carro si fermò presso un piccolo villaggio, probabilmente per passare la notte. La strada era circondata da campi a maggese. Non un albero né una roccia a fornire riparo ai due soldati. Takalia decise di smontare da cavallo a circa un miglio dal villaggio e di proseguire a piedi. Il carro era lento, il giorno dopo avrebbero avuto tutto il tempo di tornare a riprendere i cavalli e gettarsi nuovamente all'inseguimento. Intanto era importante trovare il modo di controllare cosa trasportasse. Prima avessero verificato l'infondatezza dei sospetti di Nikolas, prima se ne sarebbero potuti tornare a casa.
Si avvicinarono di soppiatto alla stalla nella quale avevano visto entrare il carro. Con il favore della notte avrebbero potuto intrufolarvisi. Appena furono abbastanza vicini da poter osservare l'interno del capanno notarono che Felz non era da solo, ma con la sorella, inoltre avevano organizzato una specie di festa che andò avanti fin quasi all'alba. Takalia rimase di guardia tutta la notte, mentre Pilsk a tratti si addormentava appoggiato al suo arco. I due se ne stavano a poca distanza dalla strada, sdraiati per terra per non essere visti. "Certo non sarebbe male partecipare. Guarda quanta birra che hanno!" Pilsk aveva uno sguardo sognante e in più di un'occasione fu tentato di alzarsi. In un momento di distrazione, il ragazzo riuscì a sottrarsi al controllo di Takalia e ad avvicinarsi alla stalla. "Dove diavolo vai?" chiese la ragazza.
"Sono tutti sbronzi persi, potrei mettermi a camminare sulle mani in mezzo a loro e non si accorgerebbero della mia presenza".
"Torna subito qui".
"Vado solo a fregare un pezzo di pane e una birra! Ho fame e sono stufo dei tuoi fichi secchi".
Takalia si avventò sul compagno e lo costrinse nuovamente pancia a terra. Quando alzò la testa il suo sguardo incrociò quello della sorella di Felz. "Cavolo, ci ha visti!"
"Chi?" chiese Pilsk.
"La ragazza, quella Kaila!" spiegò Takalia.
Pilsk sforzò gli occhi per cercare di vedere meglio "Ma che dici? Guardala, è completamente addormentata, probabilmente se la sta russando alla grande".

La festa finì, ma la notte non era più così oscura. Un leggero bagliore ad est indicava l'imminente sorgere del sole. Forse avrebbero avuto ancora una o due ore di tenebre. Alcuni fattori stavano entrando nella stalla per sbrigare il loro lavoro. Probabilmente a breve avrebbero iniziato a mungere le mucche e il carro non sarebbe più rimasto solo. Decisero di ritornare ai cavalli e rimandare il controllo.
Quando il sole fu alto e il carro lontano da loro, Pilsk si diresse al villaggio per ottenere informazioni. Non era certo al livello di Takalia, ma se la cavava coi travestimenti. Posò arco e frecce ed indossò una casacca di tela marrone. In testa aveva un cappello da pescatore e in spalla una sacca da viaggio che aveva riempito con la sua divisa e altre cianfrusaglie che aveva preso dalle bisacce del suo cavallo. Non era perfetto, ma sembrava un normalissimo viandante squattrinato.
Takalia rimase ad aspettare al margine della strada per circa un'ora quando finalmente Pilsk fece ritorno. "Simpatici questi bifolchi. Mi hanno anche regalato una pagnotta appena sfornata." disse il ragazzo lanciando un involto che Takalia prese al volo. "Allora? Che notizie porti?"
"Come sei formale... comunque niente di ché, erano tutti coi postumi di una sbornia colossale. Mi sa che oggi si lavorerà poco in quel villaggio."
"Possibile che tu non abbia scoperto nulla?" chiese Takalia spazientita.
"Un attimo, ci stavo arrivando" disse il ragazzo mentre si cambiava d'abito e indossava nuovamente la divisa. Takalia cercò di guardare altrove mascherando l'imbarazzo per le nudità del compagno. "Hanno detto che stavano andando a Salingar a vendere la birra, che poi è quello che hanno detto anche a Nikolas. Mah, da quel che mi hanno raccontato sembravano persone tranquille, di certo non dei ladri professionisti. Secondo me quelli non sanno neanche cosa sia un grimaldello, figuriamoci se si intrufolano in una reggia" concluse Pilsk risalendo a cavallo e rimettendosi in spalla il suo arco. "Ah, mi hanno detto che faranno tappa ad Hangwick, pare sia una cittadina a poche leghe da qui".

L'inseguimento proseguì lento. Takalia decise di non rischiare più avvicinandosi al carro. Continuarono a tenersi a debita distanza senza però perderli di vista. Ci vollero un paio di giorni per raggiungere la città di Hangwick. Per tutto il percorso Pilsk cercò di intavolare due chiacchiere con la ragazza. Parlò del tempo, del viaggio, della sua opinione su Nikolas e della sua stupida cotta. Niente. Takalia mantenne il più completo riserbo e non diede modo al compagno di iniziare una discussione, tanto che alla fine Pilsk si mise a cantare per impegnare il tempo. "Conosci qualche vecchia canzone marinara? Mio padre viveva per mare. Non ho mai passato molto tempo con lui, ma quelle poche volte che tornava da mia madre mi cantava un sacco di canzoni". E così il sottofondo musicale andò avanti per tutto il viaggio.
Arrivarono in vista di Hangwick che era già notte. Per le strade del borgo non c'era un anima e il silenzio era inquietante. Solo l'ululato di un lupo in lontananza. "Voglio avvicinarmi al carro. Questa potrebbe essere la nostra occasione migliore per dare un'occhiata" disse Takalia, ma Pilsk le fece notare che Felz e Kaila lo avevano appena chiuso in una specie di rimessa coperta. "Sono piuttosto bravo ad introdurmi nei luoghi chiusi, vedrai che non sarà un problema!" sottolineò la ragazza.
Mentre Pilsk si prendeva cura dei cavalli, Takalia aggirò il capanno per esaminarlo. Era in solida pietra e non c'erano finestre. Il tetto spiovente però doveva avere qualche apertura per permettere alla luce di entrare, quindi la ragazza decise di arrampicarsi.
Takalia non aveva mai visto tanta cura nella costruzione di un muro. Di solito erano sbozzati, con sporgenze di ogni tipo o con crepe tra i mattoni. Questo sembrava perfettamente liscio e solido. Non c'erano appigli per arrampicarsi se non una canalina di scolo per le acque piovane. Ci volle parecchio per riuscire a salire sul tetto, ma alla fine ce la fece. Nel momento in cui i suoi piedi furono saldamente al sicuro sul cornicione del tetto, una luce accecante le ferì gli occhi. Un lampo intenso si era propagato dal bosco sulla collina accanto al borgo e per poco non le faceva perdere l'equilibrio. Quando fu passato alzò lo sguardo e lo lasciò vagare alla ricerca della fonte di quella luce. Mille puntini luminosi affollavano il suo campo visivo, come se un esercito di formiche fatte coi pezzi di un arcobaleno infranto le camminassero dentro gli occhi. Cercò di strizzare le pupille per mettere a fuoco meglio e a quel punto se ne accorse. Alle sue spalle, dietro il vetro di una finestra, una ragazza la stava fissando. Per la seconda volta gli sguardi di Takalia e Kaila si incrociarono.

Takalia si gettò sulla canalina di scolo per scendere a terra. Corse con tutto il fiato che aveva in gola verso il suo compagno "Maledizione, mi ha visto di nuovo".
"Chi?" interrogò Pilsk.
"Chi secondo te? Kaila! Quella mocciosa!"
Pilsk si sforzò di guardare nella direzione della locanda che Takalia gli stava indicando ma non vide nessuno dietro le finestre.
"Sei sicura? A proposito, hai visto quel lampo di poco fa?" chiese il ragazzo.
"Certo che l'ho visto, è per quello che mi ha beccato! Avevo la vista annebbiata dalla luce e mi sono distratto a cercare di capire da dove veniva ! Non ci posso credere, mi ha visto per ben due volte! Nessuno era mai riuscito a vedermi, tutta questa inattività mi sta facendo perdere colpi!"
"Maddai, come ce l'avevi tu, anche lei avrà avuto la vista annebbiata, non si sarà accorta di te!" cercò di confortarla Pilsk.
"Non capisci! Sono più di dodici anni che faccio la spia! Mi sono introdotto in luoghi che tu neanche immagini, e alla fine mi sono fatto beccare da una stupida ragazzina! Per ben due volte!"
"Non farla così tragica Tak, a tutti capita una giornata storta"
"Sono due mesi che non facciamo nulla, che non ci alleniamo. Non svolgiamo un incarico da più di quattro lune. E' inevitabile ridursi in queste condizioni. Probabilmente neanche tu avrai più i riflessi di un tempo con l'arco."
"Ehi, non scherzare, io la mira ce l'ho nel sangue" esclamò il soldato.
"Si certo, come no! Senza allenamento tutti perdono l'abilità, e se non fosse per quell'idiota di Nikolas adesso saremmo in giro per il continente a portare a termine qualche incarico importante."
"E adesso Nikolas che c'entra?"
"Oh andiamo, come fai ad essere così stupido! Dovevamo arrivare ad Elengar, dare un'occhiata in giro e strigliare un po' il capo della guardia. In meno di un mese saremmo dovuti tornare dal Maestro a fare rapporto." Takalia era su tutte le furie e cominciò a riversare su Pilsk tutta la sua frustrazione "E invece guardaci, facciamo da balia ad un esercito pigro e teniamo d'occhio la ragazza di cui il nostro Capitano si è infatuato!"
"Beh, effettivamente Nikolas è cambiato parecchio" confermò Pilsk.
"Si è fatto corrompere dal potere e dalla ricchezza. E' diventato un inetto ipocrita e opportunista. Ormai non lo riconosco più. Se solo il Maestro sapesse, sono sicura che prenderebbe provvedimenti!" concluse la ragazza.
"Problemi di identità?" chiese Pilsk.
"Cosa?" disse perplessa Takalia.
"Hai detto 'sono sicurA'. Non suona molto virile" apostrofò il ragazzo.
"Avrai sentito male" glissò la ragazza.
"Sarà! Comunque è ora di nascondersi, quel Felz sta uscendo dalla locanda" concluse Pilsk.

I due uscirono fuori dalle mura della città e raggiunsero la biforcazione della strada che portava a Salingar in attesa del passaggio del carro. Trovarono riparo dietro una piccola macchia di arbusti. Felz e Kaila non si fecero attendere a lungo. Il rumore degli zoccoli dei cavalli riecheggiò nel silenzio dell'alba. Sempre più vicino. Takalia si sporse per osservare la scena e vide un'ombra scendere dal pianale del carro e schizzare in direzione della collina.
"Seguiamo la ragazza" sussurrò Takalia.
"Perché? Nikolas ci ha chiesto di seguire Felz e il suo carro" protestò Pilsk.
"Già, ma da quel carro è appena scesa una ragazza con un enorme cappuccio calato sul volto e con una sacca sulle spalle. Non ti viene qualche sospetto?" spiegò Takalia ma Pilsk continuava a sembrare perplesso. "Oh, andiamo, come arciere sarai bravo, ma come investigatore non vali un soldo di cacio. Probabilmente la refurtiva ce l'ha la ragazza e adesso dobbiamo scoprire dove la sta portando".
"Ma non eri tu quello che diceva che Nikolas si era inventato tutto e la storia del furto era solo una scusa per ottenere informazioni su quella ragazza?" osservò Pilsk.
Takalia non rispose. La questione era spinosa. Forse Nikolas non era impazzito. Aveva sicuramente subito il fascino del potere e della ricchezza, ma forse aveva visto giusto sul furto. Forse non si era infatuato di quella ragazza, ma aveva veramente avuto fin dall'inizio dei sospetti su quella coppia. Per un attimo sentì il peso delle sue accuse e si pentì di averle mosse. Avrebbe almeno dovuto concedere il beneficio del dubbio al suo Capitano.
I due si incamminarono cercando di seguire l'ombra della ragazza che correva tra i tronchi di quelle enormi querce. Il pendio della collina era abbastanza dolce, ma non c'era un sentiero preciso da seguire, quindi Pilsk propose di aspettare il sorgere del sole per poter seguire le tracce della ragazza senza rischiare di perdersi all'interno di quel bosco così intricato. Il soldato si rivelò essere un perfetto segugio. Con il favore della luce identificò ogni passo della ragazza e ne ricostruì il percorso. Prima del calare del sole riuscirono a raggiungerla, ma rimasero spiazzati da ciò che trovarono. Kaila non era sola. Un gruppo di ragazzi e un uomo di mezza età bivaccavano insieme a lei in una radura intorno ad un piccolo fuoco. Takalia si avvicinò per cercare di osservare meglio. Notò che c'era un'altra ragazza distesa su una lettiga in evidente stato confusionale, aveva una gamba fasciata e steccata. Tutti i nuovi arrivati avevano abiti strani. Sembravano usciti da un circo.
"Non sembra un esercito. In realtà hanno l'aria di essere fenomeni da baraccone, ma non sembrano pericolosi" spiegò Takalia a Pilsk.
"Hai visto la refurtiva? Magari la ragazza la sta vendendo" si informò il ragazzo.
"No, non l'ho vista, ma la sacca di Kaila ora e vuota. Inoltre hanno un ferito. Forse sono delle spie" ipotizzò Takalia.
"Beh, allora che aspettiamo, andiamo a catturarli" Pilsk sembrava emozionato e felice, come se non aspettasse altro.
"Sono in tanti, non sarà facile" obiettò Takalia.
"Ho un idea. In questi casi non serve catturare tutti, l'importante è cercare di prendere uno del gruppo per interrogarlo, poi magari cerchiamo anche di prendere Kaila, così Nikolas è contento".
"E l'idea dove sarebbe?" chiese Takalia ironica.
"Spaventiamoli. Se non sono organizzati probabilmente si sparpaglieranno e sarà più facile seguirne uno e catturarlo. Io inizio a perseguitarli con le mie frecce e tu li catturi. "

Pilsk si allontanò silenziosamente. Takalia sentì il sibilo sordo di una freccia provenire dal folto del bosco e poi tante voci concitate che si sovrapponevano. Decisamente non erano organizzati. La luce del fuoco si spense e il rumore pesante dei passi si sparse tra gli alberi. Pilsk riusciva a dirigere il gruppo in fuga nella direzione che voleva lanciando frecce sui lati del percorso. Takalia si mise in moto e cercò di raggiungere il gruppo mantenendosi nell'ombra quando improvvisamente da un cespuglio saltò fuori un ragazzo. Era strano, era difficile distinguerlo nel buio e riuscì a coglierla impreparata. Il ragazzo le si avventò addosso e la gettò in terra. Takalia fece per rialzarsi ma l'uomo che aveva visto nell'accampamento uscì da dietro un albero e le bloccò i movimenti. "Chi diavolo sei e cosa vuoi da noi?" Chiese il ragazzo mentre Takalia cercava di divincolarsi dalla presa salda dell'uomo. La teneva stretta da dietro con le braccia intorno al petto, mentre con un ginocchio le teneva le gambe bloccate contro il tronco di un albero. Takalia non rispose e continuò ad agitarsi. Non era abituata a farsi prendere di sorpresa e aveva perso la lucidità che di solito l'accompagnava. Non riusciva a concentrarsi e si era fatta prendere dal panico. Fece un respiro profondo e cercò di calmarsi per trovare il modo di contrastare l'uomo, ma non ce ne fu bisogno. Un urlo di dolore arrivò dalle sue spalle e la presa si allentò, Takalia si girò di scatto e di fronte a sé vide Pilsk con l'arco puntato e con una freccia incoccata. "Tranquillo, come vedi non ho perso la mira, l'ho solo colpito alla gamba" disse rivolto alla ragazza, dopodiché si voltò verso il suo assalitore e tese la corda dell'arco "Ora se volete farci il favore di stare buoni eviteremo inutili spargimenti di sangue".
Takalia si mise alle spalle di Pilsk mentre il ragazzo corse verso l'uomo ferito per cercare di soccorrerlo "Prof, come stai, va tutto bene?" chiese il giovane.
"Non preoccuparti, sto bene" cercò di mentire l'uomo.
Pilsk passò il suo stiletto e una corda a Takalia "Io vado a cercare Kaila, tu cerca di calmarti e lega questi due. Cura la ferita di quel tizio, altrimenti non ci arriva vivo ad Elengar." Detto questo sparì tra gli arbusti lasciando Takalia da sola.
Le tremava ancora la mano e si sentiva stupida. Si ricordò del suo primo incarico quando per poco non si fece catturare. Il Maestro la trasse in salvo uccidendo con una strana arma i tre armigeri che aveva alle costole. Anni e anni di allenamenti si erano annullati con pochi mesi di ozio. Si ripromise di ricominciare da zero l'addestramento una volta tornata a palazzo.
Legò i polsi dei due prigionieri e tolse la freccia dal polpaccio dell'uomo. L'urlo di dolore fece scappare alcune civette appostate sull'albero. Mentre fasciava la ferita si accorse che la luminosità era aumentata, si voltò verso la cima della collina e vide delle fiamme altissime che stavano divampando tra le fronde degli alberi ormai quasi del tutto spogli. Sentì il calore delle fiamme da quella distanza e poi fu solo dolore. "Scappa!" urlò l'uomo che con un calcio aveva atterrato Takalia. "Ma lei..." provò a dire il ragazzo ma l'altro lo interruppe "Pensa solo a scappare, io me la caverò".
Takalia cercò di voltarsi verso il ragazzo ma aveva ancora le idee confuse. Sentì solo il rumore dei passi veloci che si allontanavano e l'odore acre del sangue che le colava dal labbro. Il fumo riempì l'aria e il rumore del crepitio del fuoco si fece più forte. "Che diavolo è successo qui?" Pilsk era tornato col fiatone.
"Il ragazzo è scappato!" spiegò Takalia con lo sguardo basso.
"Non fa niente, dobbiamo scappare. Prendo io il tipo". Afferrò l'uomo per un lembo di quella strana veste e lo tirò in piedi. Di nuovo un urlo di dolore. "Non fare la femminuccia, appoggiati a me e non cercare di scappare altrimenti stavolta ti ammazzo" minacciò Pilsk incamminandosi.
"Ma da dove viene quel fuoco?" chiese Takalia.
"Non è di quello che devi preoccuparti. Siamo inseguiti dai lupi e a quanto pare il fuoco non li spaventa" urlò Pilsk mentre accelerava il passo verso valle.
Avrebbero avuto fin troppe cose da spiegare a Nikolas al loro ritorno.


lunedì 6 dicembre 2010

Un Incarico Scomodo

Il crepitio del fuoco andava lentamente scemando. Grossi pezzi di carbone perdevano rapidamente la loro sfumatura rossastra. Piccole fiammelle si agitavano agonizzanti su un letto di cenere cercando gli ultimi brandelli di legno di cui nutrirsi. Le ombre si amalgamarono col buio impietoso della notte. Un leggero alito portò via l'ultima parvenza di tepore rimasta, lasciando solo il freddo e il gelo a spartirsi l'aria. Nikolas non temeva le basse temperature. Nella sua terra aveva conosciuto il vero freddo, quello che ti gela le ossa. Era cresciuto sentendo il suo respiro condensarsi sulla pelle del suo viso. Quel mite venticello di fine novembre era come una calda vacanza estiva per il suo animo congelato.
Le terre della Stirpe di Mana erano considerate maledette. Il gelo sferzava quei luoghi come per punirli della colpa di cui si erano macchiati. Ormai erano passati più di duemila anni dal termine della Grande Guerra, eppure gli eredi di quella Stirpe venivano ancora additati come rinnegati. Nessuno si fidava di loro. Non ancora. Nikolas era il primo erede di quella gloriosa Stirpe a varcare i confini delle terre di Hoen dai tempi della fine della Guerra. Quando gli fu affidato l'incarico di andare a presidiare la capitale di quel regno da sempre considerato nemico, per un attimo si sentì mancare. Non era paura la sua, anzi, era fiero di quel compito. No, la sua era rabbia. La rabbia frustrata degli sconfitti. Una rabbia non sua, ma della sua gente, che tutta insieme si riversò nelle sue vene e nella sua anima lasciandolo sbigottito. Perché lui? Il Maestro sapeva delle sue origini. Era l'unico a saperlo. Nonostante ciò aveva deciso di mandare lui per quell'incarico. Non riusciva ad apprezzare la sottile ironia di un discendente dei Mana sul trono di Elengar.

Avevano avvistato la montagna sulla cui vetta si ergeva maestosa la capitale fin dal giorno del loro sbarco ad Yrida, la città frontiera. Il porto dal quale tutte le navi da e per il continente dovevano passare. L'unica città portuale sulla riva nord dello stretto. Il primo fronte di difesa delle terre di Hoen.
Avevano perso due giorni tra controlli e perquisizioni. Non si facevano sconti, neanche di fronte al sigillo regale. Il sigillo che Nikolas portava al collo. Un medaglione d'oro massiccio recante impresso lo stemma della Stirpe alla quale un tempo i suoi antenati avevano dichiarato guerra. Il peso di quell'ornamento era aggravato dal peso dell'ipocrisia che sentiva addosso mentre lo indossava. Eppure non l'aveva mai tolto, faceva parte del compito assegnatogli.
Il Maestro aveva una sola parola, e non era molto incline ad accettare obiezioni. Ma a Nikolas stava bene. Si trovava a suo agio ad eseguire gli ordini, di qualunque natura fossero. Aveva bisogno di una guida, di qualcuno che gli indicasse il cammino. Il Maestro aveva preso quel povero ragazzino mendicante che passava la sua esistenza ai margini della vita e lo aveva trasformato in un vero uomo. Un soldato eccellente. Il Capitano della guardia. Ora era stimato e temuto dai suoi uomini. Aveva un posto che poteva chiamare casa. Aveva trovato una ragione per vivere, per sopportare quel senso di inadeguatezza che il gelo delle sue terre aveva instillato fin dentro la sua anima.

Una volta oltrepassate le mura di Yrida, l'avevano vista. Alta e magnifica. Quasi irraggiungibile. La città di Elengar con le sue torri infinite era l'unica cosa che osasse interrompere la linea dell'orizzonte. Ogni giorno di cammino diventava sempre più imponente. Man mano che il drappello guidato da Nikolas si avvicinava alla montagna Hoen, la capitale diventava più nitida. Le sue torri perdevano quell'aspetto mistico di una mano ungulata che ghermisce il cielo. Iniziarono a distinguere le fattorie sul versante della montagna. Videro le piccole torrette di guardia che puntellavano le mura a ritmo regolare. Impararono a riconoscere gli ugelli che in tempo di guerra venivano usati per versare la pece e l'olio bollente sugli assedianti. Ci volle più di una settimana a cavallo perché potessero raggiungere le pendici di quella montagna solitaria.
Quella sarebbe stata la loro ultima notte all'addiaccio. All'alba Nikolas avrebbe svegliato i suoi uomini e avrebbero iniziato la scalata del versante meridionale. Se fossero riusciti a mantenere un buon passo avrebbero raggiunto la città nel primo pomeriggio. Finalmente un po' di riposo.
Stando a quanto gli era stato detto, la città imprendibile era stata presa. In realtà non era successo niente di grave: un ladruncolo si era introdotto all'interno della reggia e aveva sottratto alcuni oggetti di poco conto. Tra l'altro sembrava che il tizio per evitare la cattura si fosse suicidato. Caso chiuso. Il problema stava proprio nel fatto che qualcuno avesse trovato il modo di violare il ventre di quella che per il mondo intero era diventato il simbolo dell'impenetrabilità. Nella storia i figli del monte Hoen avevano radicato nel loro animo il senso della sicurezza. Da qui i controlli maniacali, le mura invalicabili intorno ad ogni città, le navi che pattugliavano le coste. Eppure qualcuno aveva trafitto quella sicurezza direttamente al cuore. Vista in quest'ottica quella che in principio sembrava una sciocchezza - quale reggia al mondo non è mai stata preda di furti - finì per diventare un caso politico. Il Maestro aveva giocato bene le sue carte e aveva convinto il re della Stirpe di Hoen a inviare un gruppo dei suoi fidati soldati per verificare le norme di sicurezza della città e, qualora ce ne fosse bisogno, rinforzarle.

Nikolas si sentiva come alla vigilia di un assalto. Il ché non era del tutto sbagliato visto chi era lui e dove si stava recando. Questa volta però non ci sarebbero state vittime. Ciononostante non riusciva a prendere sonno, erano giorni che non chiudeva occhio. Iniziò a sellare il cavallo per tenersi occupato. I suoi uomini erano rannicchiati nei loro giacigli di piume d'oca. Profondamente addormentati ma sempre con una mano sull'elsa della spada. Li conosceva bene ormai. Sarebbero scattati in piedi alla sua prima parola. Anni e anni di addestramenti serrati li avevano uniti. Ormai si intendevano alla perfezione. Era sufficiente uno sguardo per comunicare un ordine. Non potevano definirsi amici, no, il loro legame andava oltre, ognuno di loro avrebbe dato la vita per proteggere la squadra. Nessuno veniva mai lasciato indietro. O si avanzava uniti e compatti, o si moriva insieme nel tentativo.
Pilsk era il più giovane del gruppo. Lo avevano beccato a rubare nell'armeria dell'esercito pochi anni prima e per penitenza lo avevano arruolato. Il Maestro era scaltro: uno che riusciva ad aggirarsi indisturbato per i corridoi della caserma era sicuramente un valido elemento. Si beccò novecento frustate per quella bravata, poi però fu affidato alle 'amorevoli' cure del Capitano. Adesso se ne stava lì, accovacciato come un bambino vicino ai resti del fuoco e abbracciato ad una freccia. Ne teneva sempre una nel fodero della spada. Quel fodero avrebbe tenuto tranquillamente uno spadone a due mani, invece ospitava una freccia e uno stiletto. Quest'ultimo era completamente arrugginito, non era mai stato usato. Anche nel corpo a corpo Pilsk brandiva le sue frecce come fossero spade. Aveva una mira infallibile. Era in grado di colpire una noce da 500 iarde di distanza con vento a sfavore. Si diceva in giro che avesse discendenze elfiche, ma per il Capitano non era un problema. Nessuno meglio di lui conosceva l'amaro sapore della discriminazione.
Hector era il muro di difesa del gruppo. Aveva l'imponenza del tronco di una quercia secolare e tante cicatrici sulla pelle da farla sembrare la corteccia di un albero. Era alto più di due metri e combatteva con la grossa ascia che portava legata sulla schiena. Malgrado l'apparenza era di un'agilità incredibile. Entrò nell'Esercito Unificato ancor prima del Capitano. Nessuno conosceva la sua età ne la sua voce. Da quando fu affidato al comando di Nikolas non aveva mai proferito verbo. Le sue origini erano avvolte dal mistero come anche il perché si fosse unito spontaneamente all'esercito - di solito si veniva convocati, e nessuno era mai felice di questo onore.
Ariel era l'unico a non avere una spada. Non ne aveva bisogno. Il suo ruolo era quello del cerusico. Curava le ferite degli altri e si occupava di sfamarli. Un ottimo cuoco. Era riuscito a preparare un pasto decente anche mentre erano dispersi nelle paludi di Terahd. Sapeva produrre ogni tipo di antidoto e medicina. Lui ad Elengar c'era già stato. E si era diplomato a pieni voti alla scuola di magia. Il Maestro aveva voluto che ogni squadra fosse accompagnata da un mago. In battaglia Ariel sapeva attaccare bene quanto i suoi colleghi pur mantenendosi a debita distanza dal fronte. Era la retroguardia del gruppo. L'arma più preziosa nelle mani del Capitano.
Tak era Tak. Nikolas conosceva il suo segreto, ma una donna nell'esercito era qualcosa di anomalo. Il suo nome reale era Takalia. Nessuno però, fatta eccezione del Maestro e del Capitano, ne era a conoscenza. Tak era l'esperta di veleni e di mimetismo. Era stata per anni la spia personale del Maestro. Era riuscita ad ottenere tutte quelle informazioni che avevano permesso al loro capo di raggiungere le vette del potere. Ora che la posizione del Maestro era consolidata, era stata assegnata al Capitano. Da anni viveva come un uomo. Camuffava le sue forme grazie alla sua arte del travestimento. Prendeva ogni sera una mistura di sua invenzione che le abbassava il tono di voce. Portava i capelli sempre rasati, solo lo sguardo tradiva una femminilità dimenticata.
Quello era il suo gruppo. Il gruppo del Capitano Nikolas. Il più temuto di tutto l'Esercito Unificato. L'unico al quale il Maestro avrebbe affidato la sua stessa vita. L'unico che poteva accollarsi una missione tanto delicata.

Dalla vetta della montagna iniziò a scendere lenta una leggera nebbia che andò ad annegare la vallata. Il cielo iniziò a schiarirsi sotto una fitta coltre di nubi. L'ora del risveglio era arrivato. Il Capitano chiamò a raccolta i suoi uomini che, dopo pochi preparativi, erano pronti a partire. Montarono a cavallo e si incamminarono verso la loro meta. Verso il loro ultimo giorno di viaggio.
Si unirono alla lenta processione di fattori che portavano la loro merce in città. Raggiunsero il Grande Portone nel primo pomeriggio. Furono subito bloccati dalle guardie che mal tolleravano i forestieri. Solo il sigillo regale gli permise di avere accesso alla città. "Avrò bisogno di incontrare il vostro capitano. Ditegli che lo attendo tra un ora nella Sala del Trono." Nikolas si rivolse ad uno degli armigeri più giovani che subito scattò tra le vie del borgo per consegnare il messaggio.
Vagarono un po' senza meta tra i vicoli dell'alveare. A vederli sembravano sperduti, in realtà stavano studiando la città. Conoscere ogni via di fuga e ogni punto debole di una città era alla base di ogni strategia militare. Alla fine si fermarono alla stalla comunale dove smontarono i cavalli. Si separarono. Il Capitano si diresse verso la reggia mentre lasciò detto ai suoi di continuare l'ispezione della città a piedi.
La Sala del Trono era chiusa da diverse generazioni. Il paggio incaricato di accompagnare Nikolas fece fatica ad aprire le imponenti porte in rovere i cui cardini erano ormai profondamente arrugginiti. Era un luogo insolito per tenere una riunione militare. La scelta del Capitano era però studiata a fondo. Ricevendo qualcuno nella Sala del Trono indossando lo stemma regale avrebbe aiutato a definire facilmente il rapporto che si intende instaurare. Nikolas voleva imporsi sull'esercito locale facendo valere la sua autorità e oscurando quella del capitano di Elengar rendendolo un suo subalterno. Nessuno aveva ostacolato il suo cammino fin lì, addirittura alcuni cortigiani si erano inchinati al suo passaggio. Tutto quello spettacolo visto dagli occhi di un rinnegato aveva un ché di surreale. Andava contro l'ordine naturale delle cose. Eppure era lì, a farsi benedire dalle damigelle e omaggiare dai cavalieri. Un vinto sul trono dei vincitori.

Eric, il Capitano della Guardia di Elengar si presentò al cospetto di Nikolas senza farsi annunciare. Puntò dritto sull'avversario con una mano stretta a pugno su un fianco e l'altra saldamente aggrappata all'elsa della spada. Nikolas non si scompose. Si era comodamente adagiato sul trono e non azzardò nessuna reazione all'arrivo dell'altro. "Che ci fate voi qui? Nella mia città? Sul trono del mio sire?" Eric sembrava sul punto di esplodere.
"Ah, questa sediola è un trono? Non l'avrei mai detto! Sono qui per ordine del vostro sire" Nikolas fece segno al suo paggio che consegnò una pergamena al capitano Eric "Come potete leggere mi conferisce pieni poteri! I vostri poteri, per essere precisi. Da oggi sarete al mio servizio" concluse. "Cosa? E' uno scherzo!" Eric cercò di leggere la pergamena più in fretta possibile trattenendo a stento la nausea "Temo di no, mio caro amico! C'è stata garantita la vostra massima collaborazione! Siamo qui per il bene di Elengar!" Eric era furibondo, ma Nikolas intravvide nei suoi occhi un cenno di resa. Il suo furore doveva lasciare il posto al senso del dovere. Gli ordini del re andavano sempre onorati. "Non sono vostro amico, e nemmeno un vostro sottoposto..." Eric fissò intensamente il pavimento meditando su come terminare la frase, poi alzò gli occhi furenti e semplicemente se ne andò. Calcava su ogni passo come un elefante in una radura. Ora la città apparteneva al Capitano. Nikolas si prese un attimo per assaporare la sensazione.
Dopo aver oziato un po' nei suoi pensieri, raggiunse la sua squadra nell'alveare. Si incontrarono di fronte ad una taverna locale che il sole stava iniziando a tramontare. "Ehi Capo, come la vedi una bella mangiata? Ora qui ce la comandiamo, un po' di riposo ce lo siamo meritato". L'insolenza di Pilsk ormai faceva parte della quotidianità. Non avrebbe mai permesso a nessuno di rivolgerglisi in quella maniera. Ma Pilsk faceva parte della compagnia ed aveva dimostrato la sua lealtà in più di un'occasione, quindi Nikolas lasciava correre quelle sue esplosioni di gioventù. Abbozzò un sorriso e fece a tutti cenno di entrare.
Si diresse direttamente al bancone mentre gli altri prendevano posto intorno ad un tavolo. Voleva approfittarne per chiedere qualche informazione all'oste, ma fu preso in contropiede. Se c'era una cosa che a Nikolas proprio non riusciva, era di rivolgersi con disinvoltura alle donne. Ci riusciva con Tak solo perché l'aveva sempre vista prima come un compagno di squadra che come una vera donna. Inoltre lei faceva di tutto per nascondere la sua identità. Ma quella che gli si parò davanti era tutta un'altra cosa. Una ragazza bellissima. Folti capelli neri e ricci racchiudevano come un caschetto quei lineamenti delicati e quegli occhi del colore dell'ambra. Lei lo fissò con quel suo sguardo penetrante e per un attimo Nikolas perse il senso del tempo. Doveva essere molto giovane, decisamente più piccola di lui. Forse aveva quindici o sedici anni, ma aveva le fattezze di una donna. Il naso piccolo e le guance morbide, le labbra carnose e di un rosso vivo. Se ne stava lì a pulire in maniera eccessiva un unico boccale vuoto. Sembrava intimorita. Capitava spesso quando la gente lo guardava. Cercò di intavolare una discussione, ma capì subito di aver sbagliato tono, perché la ragazza si mise sulla difensiva e scappò alla prima occasione.
Era rimasto abbagliato da quella visione. Non gli era mai capitata una cosa del genere. Tutto sommato quella missione poteva avere qualche risvolto positivo. Andò a sedersi coi suoi commilitoni e finalmente si rilassò. Tra il vociare dei suoi uomini e gli sguardi rubati alla ragazza della birreria finalmente iniziò a sentirsi sciogliere un po' di quel gelo che lo attanagliava dentro.
Nikolas aveva ritrovato il sorriso.