domenica 28 agosto 2011

Mal di Denti

Il titolo non c'entra nulla con quello che voglio dirvi, ma è l'unica cosa alla quale riesco a pensare... ho come la sensazione che una stella si stia trasformando in una gigante rossa direttamente all'interno della radice di uno dei miei molari e la cosa non è affatto piacevole.

Anyway, vi scrivo per aggiungere due righe al post precedente. Come vi avevo annunciato, L'Angelo della Morte è un racconto breve che avevo scritto per il concorso di scrittura indetto da Arte Scritta, un gruppo di deviantArt al quale sono iscritto e che ogni 2 mesi propone un tema con il quale gli scrittori alle prime armi come me possono dilettarsi. Il tema del concorso era "Dura Lex Sed Lex" il quale, come dissero gli stessi organizzatori, si presta a mille interpretazioni. La mia è stata un po' sui generis e al limite del fuori tema, ma a quanto pare è piaciuta e mi hanno votato come il migliore (non smetterò mai di ringraziarli). Tra l'altro per me è stato un grosso esperimento perché andava decisamente al di fuori dei miei canoni e per una volta ho tirato fuori qualcosa di abbastanza deviato (cosa che con i racconti per ragazzi non si può certo fare). Mi sono molto ispirato ad uno dei miei scrittori preferiti: Chuck Palahniuk autore tra l'altro di best seller come Fight Club e Survivor (quest'ultimo è forse quello che mi ha ispirato di più). L'esperimento è andato bene ed è stato molto apprezzato dalla comunità di deviantArt e spero tanto che piaccia anche a voi.
Il concorso si è svolto più di 3 mesi fa e la premiazione risale a circa 2 mesi fa... come mai ci ho messo tanto a postarlo anche qui? Beh, all'inizio volevo che per la durata del concorso fosse un esclusiva di deviantArt, forse in maniera un po' infantile ho temuto che le persone che mi seguono qui sarebbero venute a votarmi su devianArt, ma questo avrebbe falsato il giudizio finale del gruppo e volevo vincere in maniera onesta senza aiuti esterni (non ho permesso neanche alla mia ragazza di esprimere il suo voto in mio favore). Dopo la vittoria volevo postarlo subito, ma parte del premio consisteva in un'illustrazione dedicata al pezzo e mi sarebbe piaciuto postarla insieme al racconto, ma ad oggi ancora non mi è stata consegnata, e quindi ho deciso di lasciar perdere e di postare lo stesso il racconto. D seguito vi riporto lo schizzo preparatorio dell'illustrazione che ho vinto, ho lasciato all'autore carta bianca chiedendogli di rappresentare il racconto o semplicemente ciò che gli aveva suscitato, fatemi sapere cosa ne pensate e riporterò le vostre opinioni a SerJ-o (l'illustratore).




L'Angelo della Morte


La penombra domina su quel lungo corridoio. solo una esile lampada al neon sul soffitto cerca di portare avanti la sua epica battaglia contro il buio. Il rumore ritmico e, diciamocelo, anche un po' fastidioso delle continue scariche di corrente rompono il silenzio perfetto della notte. Provano ad eccitare quel poco gas ancora rimasto nel tubo della lampada, ma è una battaglia persa. Un po' una metafora dell'uomo moderno che vive in una costante guerra contro l'impotenza. Niente eccitazione, niente luce e la battaglia continua estenuante, snervante, inutile.
Di quei cento metri di cemento e piastrelle e porte e sedie e quadri rimane solo l'immagine impressa nella retina che subito dopo l'ennesima scarica sfuma nello scuro abisso della notte. Ombre e riflessi come fantasmi abbandonati si agitano sul fondo dei miei occhi come echi di tutte le persone che sono state qui, che qui hanno trascorso i loro ultimi giorni e che infine sono scomparse. Scomparse come nebbia al mattino e che adesso riappaiono tra gli sprazzi di vita di una lampada moribonda.
Sarebbe ora di cambiare quella lampada, e forse anche le altre due che si sono arrese al buio esalando il loro ultimo sbuffo di gas. Il problema è che dovrei farlo io, dovrei essere io a sostituirle. Ho qui sotto la scrivania le lampade nuove ancora dentro i loro imballaggi originali, mi basterebbe prendere la scala dallo sgabuzzino, svitare i vecchi tubi di neon e installare quelli nuovi. Un lavoretto da cinque minuti appena, ma questo significherebbe dire addio ai miei fantasmi, ai miei echi, alla mia vita. Quindi me ne rimango qui sdraiato sulla mia poltrona in poliestere e metallo, coi piedi appoggiati sul bancone a godermi lo spettacolo delle anime danzanti.

Qui di anime ormai ce ne sono davvero troppe. Se mi fossi preso la briga di raccogliere in una bottiglia, ampolla o barattolo le ultime esalazioni di tutti i pazienti che sono morti in queste camere, probabilmente adesso avrei una cisterna piena di anime. Una sorta di salvadanaio della vita umana, una raccolta degli ultimi istanti terreni delle migliaia di persone che qui sono venute a morire.
Il reparto Hemerton del Memorial Hospital non è un posto dove si cura la gente. Oddio, dipende da cosa voi intendiate per 'curare'. Qui vengono ricoverate tutte quelle persone per le quali non è più possibile fare nulla. Malati terminali di cancro, pazienti con malformazioni cardiache gravi che non sono risultati idonee al trapianto e così via, la lista è lunga. Dite una malattia grave e io l'ho vista. Abbiamo anche la sezione riservata alle malattie infettive gravi. Nel momento in cui varchi la soglia di questo corridoio hai già il cartellino bianco attaccato all'alluce del piede con sopra il tuo nome, la tua data di nascita e il mese e l'anno della tua morte. Manca solo il giorno, quello è variabile, ma di solito, se arrivi qui, non ti restano più di cinque o sei giorni di vita. Anche meno se io sono di turno.

E' la vita, l'intollerabile legge della vita: si nasce, si vive, si muore, cambiano solo le modalità. Nessuno può sottrarsene, si può solo sperare di vivere in maniera decente e morire senza troppo dolore, cose che qui di solito non si vedono, e quindi i fantasmi si accumulano e le anime si mischiano e si conpenetrano con l'aria appesantita e dolciastra che ogni notte continuo a respirare.
Odore pungente di pelle rancida che si mischia alle essenze di mughetto. Odore acre di vomito che si annulla nel profumo di pino selvatico. Odore metallico di sangue che si dissolve nell'aroma di violette. L'unica cosa che è rimasta da curare qui sono gli odori, e anche quello lo si fa più per i familiari che per i pazienti, per creare l'illusione che il caro estinto stia bene. Col pannolone pieno di merda fumante, con i polmoni pieni di liquido ormai viscoso, con lo stomaco pieno di ulcere e sangue, ma almeno non puzza, e tanto basta alla gente per rasserenarsi, per avere la forza di sorridere. La forza di sostenere il senso di colpa per quel distaccato disinteresse che progressivamente prende forma nei confronti di chi un tempo si è amato, odiato, sopportato e che ora è poco più di un impegno trascurabile su una agenda dimenticata chissà dove.

E' una reazione normale, un po' come andare a portare i fiori sulla tomba di uno che da questo reparto è già uscito. Poco più di un rito per sentirsi la coscienza a posto, per darsi l'illusione di non aver dimenticato. La sofferenza, quella vera, quella con le lacrime e i songhiozzi, con la disperazione che ti osplode dagli occhi e dal naso, quella la gente l'ha già vissuta. Un giorno arriva un dottore, uno vero, non come quelli che si aggirano per questi luoghi. Arriva e ti comunica che tua madre, tua nonna, tuo fratello o tuo figlio verranno spostati qui da noi al quinto piano. Ti dice che lo fanno per metterlo più a suo agio, per dargli conforto in questi ultimi momenti e tu all'inizio non capisci, pensi quasi di aver vinto alla lotteria. Gli daranno una stanza più grande che non dovrà condividere con altri pazienti. Avrà grandi finestre che daranno sul cortile interno e sul roseto. Avrà la TV e il bagno privato. Avrà tre pasti al giorno e su ordinazione. Quello che non ti dice ma che dopo poco capisci da te è che potrà godere di questo paradiso solo per pochi giorni, poi il letto verrà rifatto, le lenzuola verranno lavate, la composizione floreale sul davanzale verrà cambiata e un altro paziente occuperà la camera.

Nel momento in cui questo pensiero si fa strada nella tua testa, la consapevolezza di aver perso il tuo caro diventa una certezza. Quei pochi chili di carne e ossa sono solo il ricordo della persona che era un tempo e che ormai ti ha abbandonato. Da lì alla disperazione il passo è breve. Abbiamo uno psicologo interno che si guadagna lo stipendio semplicemente cercando di dare conforto ai vivi, mentre noialtri del reparto Hemerton cercheremo di dare conforto ai morti. E io questa missione l'ho presa sul serio. L'ho sposata e amata da quel lontano giorno di quattro anni fa.

La prima volta è sempre un incidente, mi avevano avvisato, ma pensavo fosse la solita solfa che si dice per spaventare i novellini. Sbagli a dosare la morfina, dimentichi di controllare che non ci siano bolle d'aria nella siringa, agganci male la sacca nuovo con la fisiologica. Capita a tutti, è un po' un iniziazione il tuo primo omicidio. Beh, non è proprio questo che viene scritto sul certificato di morte. Cause naturali. E' questo che diciamo ai parenti e loro di solito non fanno storie, non piangono nemmeno, erano già preparati. Dopotutto non è un grave errore, al massimo hai rubato un paio di giorni di vita ad una persona che non li avrebbe vissuti. Come rubare i broccoli dal piatto di un bambino, difficilmente nessuno se ne lamenterà, soprattutto non il bambino.

Nel mio caso dimenticai di aprire la bombola dell'ossigeno. Il respiratore si bloccò e madre natura fece il resto. Quando me lo dissero rimasi agghiacciato. Ero lì da pochi mesi e mi aspettavo una lavata di testa epocale e invece ricevetti solo una pacca sulle spalle e alcune parole di conforto. Cose che capitano. Rimasi ore a fissare quel corpo esanime che non voleva saperne di ricominciare a respirare. Mi aspettavo odio e ricevetti gratitudine. La nipote arrivò nel pomeriggio, cercai di spiegarle cosa era successo, mi sentivo in colpa ed ero pronto a costituirmi. Lei mi guardò con i suoi profondi occhi blu, si scostò una ciocca di capelli biondi da davanti alla bocca e con quelle labbra carnose pronunciò una parola che mi rimase scolpita per sempre nell'anima: "Grazie".
Non una lacrima, non un singhiozzo, neanche un insulto, solo un profondo e sincero ringraziamento. Avevo dato la pace ad una persona che se lo meritava. Cos'avesse fatto per meritarlo non l'ho mai saputo, ma io l'avevo salvata. Sono cose che ti segnano e che ti cambiano. I sensi di colpa erano spariti, come lavati via dal vento. Rimorsi, rimpianti, paure, tutto scomparso, come l'anima imprigionata in quell'ammasso di pelle e tumori. La mia prima anima. Mi sentivo onnipotente, mi sentivo realizzato. Avevo trovato il modo di adempiere alla mia missione, il mio modo di aiutare la gente.

Per definizione un serial killer è uno che ammazza la gente, ma quelli che arrivano qui sono già morti, quindi non è un vero e proprio omicidio, è più un modo per accorciare i tempi. Come quando si trova una soluzione per evitarsi di riempire montagne di scartoffie. Come quando si cerca di preparare un esame difficile studiando solo le dispense e i riassunti fatti da altri. La gente muore, è un dato di fatto, l'unica vera legge alla quale non si può sfuggire. Il vero assassino si macchia della colpa di aver sottratto l'esistenza o parte di essa a persone che avevano ancora qualcosa da dare al mondo o alla gente che li circonda e che li ama, li odia, li sopporta. Io qui non sottraggo niente a questi pazienti, non hanno più niente da dare al mondo se non escrementi e vomito. Anche i parenti delle mie vittime non si sentono privati di nulla, quello che avevano da perdere lo avevo già perso. Hanno solo bisogno di poter voltare pagina e io do loro il modo di farlo, di ricominciare a vivere la loro vita e di risparmiarsi altri giorni di affanno e di depressione. Sono loro i miei pazienti, quelli che a conti fatti posso davvero curare. Dopo il mio speciale trattamento ritornano a respirare, a sorridere, a vivere. Io do loro una nuova esistenza, e ogni tanto ci rimedio anche qualcosa. Il più delle volte una scatola di cioccolatini, un mazzo di fiori o un maglione, ma a volte anche qualche soldo e persino una scopata di straforo nello sgabuzzino. Negli ultimi quattro anni ho imparato ad amare questo lavoro.

***

Il quadro di segnalazione prende vita all'improvviso. Sotto il numero 14 inizia a lampeggiare furiosamente una luce bianca. Devo essere sincero, so a cosa serve quel quadro, ma mai lo avevo visto attivo, non ero neanche tanto sicuro che funzionasse. Di sicuro di giorno servirà a qualcosa, le infermiere vengono chiamate di continuo dai parenti dei cadaveri qui ricoverati per qualsiasi tipo di inezia, dal cambio del pannolone all'acqua per i fiori. Ma mai era capitato durante il turno di notte di vedere quel quadro illuminarsi.
Prendo la cartella con la lista dei degenti. La mia personale lista delle cose da fare, o meglio, delle persone da 'aiutare'. Scorro lentamente tra i nomi sul foglio e sul quale ancora non ho scritto il giorno e l'ora del decesso. Casualmente muoiono tutti durante il mio turno. La signora Perez ha ricevuto ieri la sua dose di varecchina. Il signor Joden ci ha lasciato col sapone per i pavimenti. Hellen della numero 6 ha scoperto che la CocaCola è meglio berla piuttosto che averla in circolo nel sangue. Il povero signor Rupert della stanza 9 credo abbia avuto qualche problema con delle bollicine d'aria nelle vene. La stanza numero 13 è il mio fiore all'occhiello, la signora Jensen si è ritrovata un grammo sano sano di acido lisergico nella sua fisiologica. Prima di morire si deve essere fatta uno di quei trip che neanche posso sognarmi.
La maggior parte dei nomi neanche me li ricordo. Sono solo numeri su una lista di cose da fare. C'è chi va a fare la spesa e chi dispensa morte, ad ognuno la sua specialità. Eppure il 14 proprio non me lo ricordo, la signora Madison ancora non ha avuto il piacere di incontrarmi e adesso sembra che abbia fretta di conoscermi.

La luce del quadro continua a lampeggiare insistentemente. I miei occhi ormai abituati ad una vita in penombra iniziano a fare male abbagliati da quella misera lampadina. Vediamo cosa vuole. Camminare per questi corridoi fa un certo effetto, nel silenzio quasi totale i miei passi sembrano quelli di un elefante nella savana. Il rumore da al cervello e sembra di camminare nel braccio della morte di un penitenziario nel giorno dell'esecuzione, sensazione che, per inciso, prima o poi temo dovrò provare. L'iniezione letale sarebbe l'ideale, quasi poetico, il classico cerchio che si chiude. Devo ricordarmi di proporlo al giudice che dovrà emettere la mia condanna, nel frattempo sarò io a decidere di che morte dovrà morire la signora Madison.
La stanza all'interno è buia e silenziosa. La porta si apre lentamente con un leggero cigolio. Mi aspetto da un momento all'altro le luci che si accendano e un nutrito gruppo di persone mi urla: "Sorpresa!" Poi però mi accorgo che sono tutti in divisa e con le pistole puntate verso di me. Devo decisamente rivedere il mio concetto di senso di colpa, non sono più tanto sicuro di non averne.
Con un filo di voce sussurro "Signora Madison?"
"Finalmente!" l'urlo arriva dall'altro lato della stanza e mi trapassa il cranio. Sento distintamente il mio cuore perdere diversi colpi, la testa gira mentre i brividi percorrono i miei muscoli improvvisamente tesi. Le vertigini sono la naturale risposta dell'organismo a qualcosa di imprevisto, inatteso e, soprattutto, indesiderato. Che sia un virus o qualcuno che ti fa prendere un colpo, la prima reazione è quella di sentire il pavimento girare mentre si perde l'equilibrio. Maledetta signora Madison.

Cerco con la mano l'interruttore e accendo la luce. La signora Madison è dall'altra parte della stanza nel suo letto che si copre gli occhi con un braccio.
"Che bisogno c'era di accendere la luce?" mi chiede con quel tono perentorio che non vedo l'ora di soffocare.
"Come potrei assisterla se non riesco a vederla?" rispondo io col tono più pacato che mi riesce.
"Non ho bisogno della sua assistenza" questo lo dice lei, a breve cambierà opinione.
"Allora come mai mi ha chiamato?" un po' di inutile conversazione non fa mai male, di solito i miei 'pazienti' sono tutti in coma o addormentati o ridotti a qualcosa di estremamente simile ad un vegetale.
Afferro la cartella clinica agganciata ai piedi del letto e scorro velocemente tra le varie note. La signora ha un tumore al pancreas con metastasi estese. Soffre di itterizia e arteriosclerosi. Perfetto, abbiamo nonna Simpson qui. Direi che la mia cura prevederà una soluzione di perossido di idrogeno al 30%. Nelle sue vene ci saranno dei veri e propri fuochi d'artificio. Una bella emolisi e tanti saluti alla signora Madison. Dovrebbero farmi impiegato del mese.

"Non voglio sapere di cosa sto per morire, lo so già" non mi piace ripetermi, ma questo lo dice lei, a breve cambierà opinione. 
"Voglio solo sapere se Jonathan è passato a trovarmi" e qui la sua voce si affievolisce, lo sguardo si abbassa, le guance si increspano come se fossero leggermente risucchiate all'interno della bocca, sulla fronte una fittissima ragnatela di rughe si contrae. Se al corso d'arte, uno dei tanti che ho abbandonato a metà, mi avessero chiesto di dipingere la tristezza, l'avrei rappresentata così.
Per queste cose paghiamo uno psicologo, non sono certamente io la persona più adatta a consolare un paziente, al massimo potrei dare una ripassatina alla nipote, ammesso che ce l'abbia e ammesso che sia carina, mah, in realtà non è così necessario che sia carina, mi basta sia disponibile. Devo ricordarmi di chiederle se ha una nipote, o forse potrei scoprirlo dalla cartella clinica.
"Adesso controllo" le dico e intanto mi faccio un po' di affari suoi, ma delle tante informazioni inutili riportate, nella cartella non trovo niente su parenti o visite. Niente nipotina ne informazioni su questo Jonathan.
"Jonathan sarebbe..." lascio morire la voce con la classica intonazione che nel linguaggio universale significa: completa la frase stupida vecchia. Alzo lo sguardo dalla cartella per sollecitare una risposta, ma lei non se ne accorge, con gli occhi rossi e lividi ormai è persa nei suoi ricordi, o almeno quei pochi che le restano.
"Jonathan è mio figlio" risponde lei con un filo di voce increspata dal pianto.

Appoggio la cartella al suo posto e mi avvicino al letto. Le chiedo "Ha per caso il suo numero di telefono? Posso provare a rintracciarlo" ma non ricevo risposta. Un rivolo di bava scende lentamente lungo la sua guancia e il suo respiro lento e regolare indica che si è addormentata. Adoro gli arteriosclerotici.
Beh, questa donna non si ammazzerà di certo da sola, qualcuno dovrà pur farlo, quindi vado in bagno a prendere l'acqua ossigenata. Mentre armeggio nel mobiletto dietro lo specchio alla ricerca del barattolo giusto, una confezione di pillole mi cade e si rovescia a terra. Tante piccole pastiglie si sparpagliano ovunque sul pavimento del bagno.
"Jonathan, sei tu?" la voce della signora Madison arriva un po' a singhiozzi. Mi affaccio dal bagno per tranquillizzarla e nonappena mi vede le pupille le si dilatano quasi nascondendo le sue iridi argentate, la fronte le si distende per quanto le rughe riescano a permetterle, le guance si tirano indietro creando due piccole fossette, le labbra le si tendono fino quasi a creparsi. Se al corso d'arte mi avessero chiesto di dipingere la felicità, l'avrei rappresentata così.

"A dire il vero io..." provai a dire lasciando morire la voce e accennando a voltarmi verso il bagno. Gesto che nel linguaggio universale significa: e adesso che mi invento?
"Accidenti, mi hai fatto proprio sospirare, avevo così voglia di rivederti prima di tirare le cuoia" neanche raccogliendo tutto il cinismo e l'astio nei confronti della vita che mi scorre nelle vene riesco a disilludere tutta quell'aspettativa. Per la prima volta ho l'occasione di curare almeno l'anima di uno dei miei pazienti, dei miei fantasmi. Certo magari eviterò di scriverlo nel curriculum, ma potrebbe essere un modo interessante per ammazzare almeno la noia.
"Scusami... mamma... c'era traffico" non sono mai stato bravo ad inventare balle.
"Oh, non ti preoccupare, l'importante è che tu sia qui adesso. Vieni a sederti" e con la mano indica la sedia accanto al letto. Lentamente esco dal bagno e con il barattolo di acqua ossigenata ancora in mano mi dirigo verso la sedia. Accanto a me, sul comodino, alcuni effetti personali della signora ed una foto incorniciata. La prendo e la guardo distrattamente, è la foto di un bell'uomo giovane in giacca e cravatta, probabilmente Jonathan. Jonathan, Jonathan, Jonathan. Perché mi ricordo questa faccia? Se ne ho memoria io non è buon segno. Difficilmente mi capita di incontrare gente al di fuori dell'ospedale. Coi turni che faccio, durante il giorno dormo e le notti le passo sempre qui dentro. Vita alienante ma tranquilla. Non mi piace la confusione del mondo esterno, preferisco la pacata calma dei miei fantasmi. Jonathan, dov'è che ti ho già visto?
"Ancora trovi il coraggio di prendere la macchina dopo quel brutto incidente? Te l'ho detto un sacco di volte che devi andare in giro con i mezzi pubblici" questo spiega tante cose. Buffo, il parente che stavo per curare in realtà è già stato mio paziente. Jonathan l'ho ammazzato io.

La luce rende lucido il vetro della cornice e il riflesso del mio volto si sostituisce all'immagine di Jonathan. Il mio sguardo è vitreo, quasi inespressivo, la barba incolta, le mascelle serrate e le orecchie arrossate. Se al corso d'arte mi avessero chiesto di dipingere i sensi di colpa è così che li avrei rappresentati. Il peso delle mie azioni, delle mie certezze e delle mie convinzioni è improvvisamente troppo grande da sorreggere. Le vertigini sono la naturale risposta dell'organismo a qualcosa di imprevisto, inatteso e, soprattutto, indesiderato. Faccio per posare la foto sul comodino ma manco l'obiettivo e la cornice si infrange per terra. Jonathan continua a sorridermi attraverso i frammenti del vetro.
"M-mi dispiace, non volevo... mi è scivolata".
"Oh, non ti preoccupare, adesso che sei qui non mi serve una stupida foto" dice lei. Io non riesco a fissarla negli occhi e non riesco neanche a balbettare nulla. Non riesco a vederlo, ma percepisco il suo sorriso benevolo, il sorriso ignaro del male che le ho fatto. Cerco di farmi forza e recuperare la lucidità. In mano ho ancora la boccetta di perossido di idrogeno. La morte è un vincolo universale, prima o poi tutti gli andiamo incontro e nessuno vi si può sottrarre. Non credo in un aldilà ne nella reincarnazione, ma il cerchio si deve chiudere e volente o nolente è mio dovere far ricongiungere la madre al figlio perduto. Almeno è quello che mi ripeto come un mantra per convincermi che quello che sto per fare è giusto e corretto. Allora perché le mani mi tremano mentre prelevo il liquido trasparente con la siringa? Una goccia mi bagna il dorso della mano e mi chiedo come abbia fatto a versare il contenuto della boccetta senza accorgermene, alla fine mi rendo conto che non è acqua ossigenata ma una lacrima, una mia lacrima.

"Perché piangi piccolo mio?" mi chiede la signora Madison.
"Perché devo fare una cosa, ma non sono sicuro di volerla più fare" le parole mi escono da sole dalla bocca. Piango come un ragazzino che si è appena sbucciato un ginocchio e abbasso la testa fino ad appoggiarla sul materasso. Sento frotissimo l'odore acre di bile e pelle morta, mi chiedo dove sia l'essenza di mughetto. La mano della signora accarezza i miei capelli radi e riesco a sentire il suo tepore che mi scalda fin dentro l'anima.
"Quando avrai fatto questa cosa potremo finalmente stare insieme per sempre, giusto? Allora che aspetti?" Mi alzo a guardarla negli occhi. Vivi e vispi come non ne avevo mai visti in questi letti. Lei non è un mio paziente, non deve essere un mio paziente, non voglio che sia un mio paziente, ma non ci si può sottrarre alla legge della vita e della morte. Nessuno è immune dal decadimento, non ci sono sensi di colpa che tengano. Il respiro si fa lento, la forza abbandona il corpo e poi c'è soltanto l'oblio. Potrei scappare da tutto questo, voltarmi, cambiare lavoro, tapparmi in casa per il resto dei miei giorni, eppure è più forte di me. Quando ti spingi oltre un limite ormai non puoi più tirarti indietro e ripensarci. Sono un drogato in cerca della sua dose di morte. La sensazione di onnipotenza e superiorità che ti si scarica nel cervello quando sai di essere il responsabile della vita e della morte altrui, questa è la mia droga, questa è la mia vita. Una vita che non voglio più, che non riconosco più, che devo combattere. Ma cosa cambia poi? Questa donna morirà comunque tra qualche giorno perdendo ogni barlume di dignità.
Ci risiamo. Prima avevo gli altri a giustificare le mia azioni e ora mi giustifico da solo. Sono un caso disperato. E mentre lo stantuffo della siringa spinge la soluzione letale nella flebo, la signora mi sorride e mi dice "Grazie".


domenica 10 luglio 2011

Di nuovo tra voi!

Eccomi qui, finalmente sono tornato, grazie all'aiuto della mia ragazza sono riuscito a ritrovare l'ispirazione e ad iniziare a scrivere di nuovo.
Andalia continua e chissà che non veda presto la sua "prima" conclusione. Nel frattempo mi sono dilettato a scrivere un racconto breve per un concorso (che tra l'altro ho vinto) che penso di pubblicare in settimana su queste pagine. La storia è decisamente di versa al genere al quale vi ho abituato ed ha tratti molto forti e cupi, spero comunque vi piaccia. Nel frattempo vi auguro una buona lettura col nuovo capitolo del libro!


La Via di Fuga

Holtz era da sempre considerato una giovane promessa, padroneggiò la tecnica di trasformazione ancora prima che qualcuno avesse il tempo di insegnargliela, primeggiava in ogni disciplina ed era il migliore del suo corso in accademia. Entrato nell' esercito, impiego pochi anni per diventare capo squadriglia, prendendo il posto di suo fratello maggiore Karl al comando del suo branco. Tutti si aspettavano grandi cose da lui e sapevano che prima o poi (più prima che poi) sarebbe persino entrato nel Consiglio Supremo.
Eppure c'era qualcosa in lui che non andava, sentiva di essere fuori luogo di vivere una vita che non gli calzava. Fuori dai confini di Hangwick c'era un mondo intero da vedere e da scoprire pieno di meraviglie e di magie che lui poteva solo immaginare. La mattina di fronte allo specchio, fissando la sua folta barba fulva, simbolo di maturità e di rispetto, pensava a come era la sua vita e a come sarebbe dovuta essere. Fantasticava sul mondo in superfice e viaggiamo con la mente verso paesi lontani e meravigliosi. La realtà però era diversa e quando alla fine si decideva a tornare coi piedi per terra, la sua barba era ancora lì a ricordargli chi era e cosa rappresentava per la gente che lo stimava e lo rispettava.
Lui faceva parte della guardia del Consiglio e il suo compito era di proteggerne i membri, da cosa di preciso non lo sapeva, visto che in 27 anni, il massimo dell'azione era stato scacciare via una mandria di bufali pontifici che avevano deciso di costruire il loro villaggio proprio davanti l'ingresso della grotta che conduceva alla città dei Nani.

Solo in un'altra occasione si rese utile alla sua gente. Dovette fare da scorta ad una delegazione del Consiglio in visita ad Asper, un viaggio breve, giusto un paio di giorni in superficie prima di raggiungere un'altra città sotterranea, ma per Holtz fu un esperienza unica, per la prima volta aveva abbandonato i morbidi pendii di Hangwick e aveva camminato su quelle strade baciate dal sole, un sole vero, non un cristallo appesa in cima ad una grotta. I raggi di luce caldi gli attraversavano la pelle e gli scaldavano il cuore. Profumi e colori mai visti lo inebriarono e lo fecero sentire come un bambino.
Al suo ritorno ad Hangwick era carico di emozioni e di sensazioni, ma ben presto tutto affogò nella routine quotidiana lasciandolo di nuovo solo e svuotato. Ogni mattina vide riflessi nello specchio i suoi occhi che si spegnevano lentamente lasciando il posto ad uno sguardo vitreo ed inespressivo. Quella mattina in particolare notò che dalla sua lunga chioma faceva capolino un capello bianco. Lungo e rigido si faceva strada tra la moltitudine di ricci bruni. Holtz cercò di isolarlo dagli altri prendendolo in mano e avvicinandolo allo specchio. Cercò di immaginarsi completamente canuto come il fratello e l'immagine lo terrorizzò. Si vide vecchio e scavato nel volte come se il suo corpo si fosse rassegnato e vivere per sempre e morire in quella grotta sconosciuta al mondo in superficie.
La rabbia gli montò dentro, afferrò l'intera ciocca di capelli e se la strappò via con forza. Sentì dolore alla cute ma la ignorò, continuò a fissare quella manciata di capelli che gli erano rimasti in mano. Alzò di nuovo lo sguardo quasi trionfante per quel gesto così rivoluzionario, ma un altro capello bianco saltò agli occhi, e un altro, e un altro ancora. Più scavava nella sua chioma, più capelli bianchi trovava. Il peso della sua morte interiore lo stava annientando e il suo corpo si era indebolito. Non aveva perso la forza, ma la voglia di vivere.
Con le lacrime agli occhi Holtz diede un pugno allo specchio rompendolo. La sua immagine spezzata continuò a fissarlo con cento occhi tutti uguali e tutti vuoti. Un rigolo di sangue scese lentamente dal suo pugno lungo le incrinature del vetro fino a gocciare nel lavandino sottostante. Portò la mano al petto quasi di istinto, fissò la ferita per qualche istante, poi quella iniziò a richiudersi lentamente lasciando una nuova cicatrice candida sul dorso della sua mano.

Holtz continuò a coccolare quasi meccanicamente il punto dove la ferita si era appena richiusa e sentiva che quel processo di rigenerazione aveva riportato a galla un po' del suo vero io. Quella strisca candida di pelle nuova era giovane e piena di vita. Per un attimo si chiese se scorticandosi completamente la pelle sarebbe stato ingrado di ritrovare se stesso, ma fortunatamente gli rimaneva ancora un barlume di ragione per impedirgli di fare una tale stupidagine. No, la sua doveva essere una metamorfosi simbolica che gli avrebbe dovuto restituire la luce negli occhi, la giovinezza sul volto, quindi prese il coltello che aveva attaccato alla cintola e, afferrando grosse ciocche di capelli se li tagliò corti. Non era un taglio preciso, ma avendo i capelli ricci non si notava molto la differenza, si sentiva come una pecora appena tosata.
Poi fu la volta della barba, questa volta si inumidì la pelle con degli oli da bagno per permettere alla lama di scorrere a filo sulla sua pelle e lentamente ridiede ossigeno al suo volto. Ad ogni passata della lama una nuova cicacrite veniva scoperta e un ricordo di vita vissuta gli tornava alla mente. Con calma minuziosa tagliò via ogni pelo ispido dal suo volto, ogni tanto si portava via per errore anche un po' di pelle, ma il suo volto si rigenerava in fretta. Alla fine si guardò di nuovo nello specchio e vide un centinaio di riflessi diversi nel vetro infranto, ma avavano tutti l'aria di essere dei ragazzi giovani e pieni di vita. Holtz sorrise finalmente di gusto e con una mano si accarezzò il volto liscio e rinato.

I dormitori della GradiaHangwick in poco tempo. Inoltre era situato sull'unico rialzamento presente all'interno della grotta, così da permettere una visuale dall'alto delle case sottostanti. I dormitori si estendevano in circolo intorno ad una seppur misera reggia che fungeva da sede del Consiglio.
Le stanze erano tutte uguali, composte da una sola stanza e da un piccolo tinello, tutte davano su lunghi corridoi che correvano all'interno della circonferenza e che davano sui giardini della reggia. Lì ogni mattina alle 5 in punto avvenivano le esercitazioni, alle 7 veniva servita la colazione nella mensa e poi si iniziava la giornata lavorativa dell'armigero medio. L'esercito, essendo in tempo di pace, si occupava principalmente della vicilanza della città, ma occasionalmente svolgeva lavori di manutenzione e di rinnovamento delle strutture interne alla grotta.
Avevano il compito di estinguere gli incendi e svolgere opera di assistenza presso l'ospedale locale. Insomma, erano un po' i tuttofare del regno.
Come ogni mattina, all'interno dei dormitori veniva suonata la sveglia e puntualmente tutti si presentavano sull'attenti di fronte al proprio alloggio avendo cura di aver rassettato la stanza e rifatto il letto. I capi squadriglia facevano l'appello e ispezionavano le dimore per accertarsi che tutto sia stato fatto secondo il regolamento. Come se tutta quella disciplina servisse davvero a qualcosa.
Quella fatidica mattina la sveglia suonò, tutti si presentarono all'appello, ma i commilitoni di Holtz si trovarono in una situazione quantomai imbazzante. Già, perché in passato era capitato che qualche soldato non si fosse presentato all'appello o si fosse presentato in “disordine”, il povero figliolo veniva punito con 10 frustate (pena simbolica per un Nano Lupo, visto che hanno una naturale resistenza al dolore e una grandissima capacità rigenerativa) e la cosa finiva lì, ma mai nella storia di Hangwick era successo che fosse proprio il capo squadriglia a non presentarsi.
Tutti rimasero lì immobili ad aspettare, ogni tanto osarono anche scambiarsi sguardi imbarazzati e perplessi, ma nessuno emise il benché minimo suono. Ogni tanto tutti, a turno, facevano cadere l'occhio sulla porta della stanza di Holtz chiedendosi cosa stesse accadendo. Una musica, forse una nenia, insomma, qualcosa di strano veniva da dentro quella stanza; ammettendo che una cosa tanto assurda fosse possibile, sembrava quasi che Holtz stesse canticchiando un motivetto allegro.

Dopo diversi minuti la porta dell'appartamento si spalancò e ne usci... beh, ne uscì un ragazzo che nessuno conosceva e nessuno aveva mai visto. Da bravi soldati, la squadriglia di Holtz saltò addosso al ragazzo e lo immobilizzò. Senza accorgersene si erano tutti trasformati in lupi e rischiavano di sbranarlo se non fosse per l'urlo che terrorizzò tutto l'esercito.
“FERMI!” urlò Karl, aggiustandosi la divisa prese un paio di lupi dal mucchio, li sollevò di peso e li scaraventò in giardino. “Non vedete che questo è il nostro comandante? E' Holtz!”
Poi rivolgendosi con sguardo severo al fratello intimò sotto voce “Che diamine ti sei messo in tenta brutto deficente!”
“Buongiorno anche a te Karl, ho pensato di curare un po' il mio aspetto fisico, come mi trovi?” disse Holtz.
“Oh benissimo, sembri un principino” rispose Karl con aria canzonatoria e poi aggiunse “Ti sei bevuto il cervello? Rischiavi di farti ammazzare da questi deficenti che non sanno ancora usare l'olfatto”. Non credo ci sia bisogno di precisarlo, ma queste ultime parole non furono pronunciate in tono particolarmente amichevole.
“Stai tranquillo fratello, so difendermi, ma ti ringrazio per essere intervenuto” riprese Holtz con il sorriso sulle labbra.
“Hai deciso di farti cacciare? Sai che la barba e i capelli lunghi sono un simbolo di potere all'interno dell'esercito?”
“Certo che lo so, ma lo sapevano anche pulci e zecche che non la finivano più di tormentarmi. Adesso mi sento molto più leggero.”
I due si guardano intensamente per alcuni minuti. Karl era visibilmente arrabbiato, mentre Holtz era visibilmente divertito. Alla fine Karl decise di rompere il silenzio sbuffando e allontanandosi: “Fai come ti pare, se ti cacciano tanto meglio per me”.

Il nuovo taglio di Holtz fu l'argomento principale di conversazione della colazione e ben presto la voce arrivò anche alle orecchie di Aperon, Capitano della Guardia nonché mentore di Holtz.
Al termine della colazione il Capitano si avvicinò ad Holtz e lo trasse in disparte: “Cos'è questa buffonata? Ti sei forse bevuto il cervello?” gli ringhiò contro, ma Holtz non si scompose e replicò sempre col sorriso sulle labbra: “L'ultima volta che ho letto il regolamento della caserma non mi sembrava di averci trovato nulla contro i capelli corti e la barba rasata.”
“Sai benissimo che le usanze sono importanti più dei regolamenti” replicò acido Aperon.
Holtz iniziava ad annoiarsi di tutte quelle critiche inutili. Stava vivendo un chiaro e semplice rifiuto dell'autorità, delle regole e delle abitudine. Una sorta di neo-adolescenza. Sostenne lo sguardo del Capitano e semplicemente rispose facendo spallucce.
Il sangue iniziò ad irrorare di furia gli occhi del Capitano che si limitò ad alzare lo sguardo e a voltarsi, mentre si allontanva aggiunse: “Oggi ci sono le fogne dell'ospedale da pulire, pare che quella Mya le abbia intasate con i rami del bosco. Te ne occuperai tu, tuo fratello Karl amministrerà la tua squadriglia in tua assenza”.
Holtz non poteva vederlo dalla sua posizione, ma era abbastanza sicuro che il Capitano stesse ghignando, al che si limitò a mettersi sugli attenti e, sempre con il sorriso sulle labbra e con un tono canzonatorio che non sapeva di saper usare rispose: “Agli ordini mio capitano!”
Aperon non si voltò, ma il suo ringhio sordo riecheggiò in tutta la mensa e Holtz poté andarsene con aria di trionfo nonostante fosse appena stato punito e degradato.

***

Il pomeriggio proseguì lento. Il lavoro era pesante perché nessuno era accorso ad aiutarlo e la piccola Mya si era data molto da fare per mettere su una splendida e resistentissima diga. Holtz non poté fare a meno di apprezzare il talento della cucciola, un po' perché la diga era costruita molto bene, con ottimi materiali reperiti chissà dove e persino in una posizione strategica molto efficace che rendeva quasi impossibile rimuoverla senza dover nuotare nel letame.
Si trovava da diverse ore nella galleria di scarico al di sotto dell'ospedale, ma era soltanto ruscito a rimuovere un quarto di tutti i rami. Mya continuava a trotterellargli intorno guardandosi bene dal non cadere nell'acqua fetida e sghignazzando alle spalle del povero Holtz. Ogni tanto, quando il soldato riusciva a buttare giù qualche ramo particolarmente grosso, la ragazzina scappava guaendo e, una volta giunta ad una abbondante distanza di sicurezza, iniziava ad abbaiara all'indirizzo di Holtz.
I due continuarono così fino a sera, quando Mya sparì per quasi un'ora. Holtz era esausto e puzzava di vomito e letame fin dentro alle ossa, non era sicuro che sarebbe mai riuscito a recuperare il suo odore, ma alla fine era contento di essersi allontanato dalla vita militare anche solo per un giorno e anche solo per un lavoro tanto schifoso.
Mya tornò che la luce del cristallo si era quasi del tutto affievolita. Stringeva in bocca un cestino con del pane, un po' di frutta e una bottiglia piena di acqua fresca e pulita. Holtz cercò di abbracciarla per ringraziarla ma lei si ritirò schifata e si mise in un angolo a lisciarsi il pelo. In questi casi sembrava quasi più un felino che un mezzo lupo, ciononostante Holtz le fu molto grato e mangiò con gusto quella cena improvvisata.
“Sai piccola Mya” disse ad un certo punto. “Sono giunto alla conclusione che questo non è il posto per me, è ora di andarsene” Mya scattò sull'attenti e imitando quello che sembrava un sorriso abbaiò soddisfatta. “Anche tu te ne vuoi andare, vero?” Mya non rispose, beh, non sapeva parlare, quindi per lei era difficile rispondere, ma il suo sguardo si velò di malinconia e iniziò a fissare l'uscita della galleria. “Sai cosa ti dico? Appena riuscirò ad andarmene, ti verrò a prendere e ti porterò via con me”. Mya iniziò a saltare sul posto agitata, sorrideva a si rotolava e alla fine saltò in braccio ad Holtz e iniziò a leccargli la faccia “Buona buona che sono tutto sporco” provò ad obiettare, ma con scarso successo. “Sai cosa ti dico? Per oggi abbiamo lavorato abbastanza e ho decisamente bisogno di un bagno, alla prossima piccola Mya” e dicendo ciò si alzò e iniziò ad incamminarsi verso casa. Mya continuò a trotterellargli dietro per un po' ma poi iniziò a ringhiare contro il nulla “Cosa ti succede?” provò a chiedere Holtz, ma prima che potesse accorgersene, Mya era già scomparsa tra i vicoli della città.

Era ancora sotto la doccia quando per l'intera grotta si spanse l'allarme. Contemporaneamente suonarono le sirene anti intruso e anti incendio. Doveva essere qualcosa di grosso e finalmente ci sarebbe stato un po' di movimento, indossò i primi stracci che trovò e iniziò a correre verso la grotta di ingresso. Senza quasi rendersene conto aveva assunto l'aspetto di un lupo, si chiese se il fatto di essersi tagliato barba e capelli si sarebbe riflesso nel suo manto e si preoccupò di avere da qualche parte delle chiazze vuote sul pelo.
La corsa era inebriante, sentiva tutti i muscoli tonici e guizzanti che scattavano al suo comando. L'aria passava attraverso il suo manto accarezzandolo. Si sentiva rinascere e non vedeva l'ora di catapultarsi in un'avventura.
Durante il tragitto incontrò altri soldati che lo informarono dell'accaduto. Pareva che la collina di Hangwick fosse stata aggredita e che un gruppo di ragazzi erano sulle tracce della città. Probabilmente era una bravata di un gruppo di maghi novizi, ma sempre meglio controllare. Mentre correva nel bosco l'odore acre del fumo quasi lo stordì e gli fece perdere i sensi, cambiò sentiero per evitare le fiamme ed arrivò nella radura dove suo fratello Karl con la sua squadriglia stavano braccando un gruppetto di ragazzi umani. Una di loro era su una barella in chiaro stato di incoscienza e gli altri sembravano terrorizzati, gli occhi di Holtz però si posarono sul volto di una splendida fanciulla dai capelli corvini, stringeva in mano un ciondolo a forma di chiave che brillava al buio.

Nell'addestramento militare, una delle prime cose che ti vengono insegnate è l'individuare le vie di fuga. Ora, sia ben chiaro che Holtz stava ragionando in maniera puramente filosofica, ma aveva trovato finalmente la sua via di fuga. Per qualche ragione sapeva che quella ragazza sarebbe stata il suo lasciapassare per il mondo esterno.
Una ragazza con un medaglione a forma di chiave splendente accompagnata da dei ragazzi con abiti surreali, proprio come nella Leggenda, quella con la 'L' maiuscola che i cantastorie narravano ad ogni festa tra i saltimbanco e le bancarelle. La conosceva a memoria da quando era un cucciolo e sognava ogni notte di poter combattere al fianco della principessa perduta e trasformare in realtà la Leggenda di Andalia.
Holtz si convinse che quella ragazza era la prescelta ancora prima di aver riportato alla memoria tutta la Leggenda e decise che l'avrebbe salvata. Per farlo non esitò ad avventarsi contro il fratello che le stava per saltare al collo e in poco tempo iniziò una scazzottata con ne faceva da anni. Il gusto del combattimento quasi gli fece dimenticare che stava affrontando suo fratello, sangue del suo sangue, ci volle l'intervento dei suoi uomini per riportare sia lui che Karl alla ragione, ma almeno aveva raggiunto il suo scopo, si era posto a difesa della fragile principessa e l'aveva salvata, ora non gli restava che trovare il modo di aiutarla a scappare e a farle da scorta.

Kaila, così si chiamava, e non era propriamente una principessa, ma faceva la birraia. Niente da ridire della birra e, se non aveva capito male, la birra prodotta dalla sua famiglia era famosa in tutte le terre di Hoen, ma questo non la rendeva più regale di lui. Però c'era il ciondolo, e c'erano i ragazzi strani al suo seguito, e definirli strani era decisamente riduttivo. Ingegnosi per essere degli umani, avevano costruito una perfetta lettiga e avevano curato la gamba rotta di una loro amica senza dover ricorrere alla magia. Piuttosto insolito per dei ragazzi, in special modo della loro razza, ma anche questo faceva parte della Leggenda. Pare infatti che anche gli uomini un tempo sapessero usare la tecnica e la meccanica prima di friggersi il cervello a causa di un mago visionario.
Si, dovevano essere loro i ragazzi di cui narravano le antiche scritture e avrebbe convinto l'intero Consiglio della sua idea, dopodiché si sarebbe fatto affidare la missione di proteggerli... Una perfetta via di fuga.


lunedì 28 febbraio 2011

Piccolo periodo di assenza...

Chiedo umilmente scusa per quest'ultimo periodo di silenzio!
Le cause sono molteplici: in primo luogo sto affrontando un periodo di lavoro pressante e, se ricordate bene, la maggior parte dei capitoli l'ho scritta proprio in ufficio nei momenti di "buco", venendo a mancare tali momenti, non ho avuto molte occasioni per dedicarmi ad Elliot & co.
In secondo luogo ci sono capitati parecchi impegni nell'ultimo periodo che mi hanno portato a stare a casa veramente poco persino nei fine settimana (non ultimo il nostro splendido viaggio a Londra per partecipare alla Doctor Who Experience).
Infine, ma non meno importante, sto portando avanti la stesura di un capitolo che proprio non mi piace... Dopo l'incontro tra Stevens e Nikolas ho bisogno di approfondire gli intenti di quest'ultimo. Il punto è che al momento non riesco a trovarmi in sintonia con questo personaggio, il che mi porta a rimandare continuamente la stesura del capitolo (tecnicamente l'ho iniziato, ma credo di non essere nemmeno a metà).

Con calma cercherò di superare questi tre ostacoli così da poter iniziare la volata finale che ci porterà alla conclusione di questo primo libro (per la cronaca, il capitolo finale è GIA' scritto ^_^). Spero di superare questo momentaccio nel più breve tempo possibile, comunque, male che vada, il ponte del 17 marzo lo passerò a casa e, cascasse il mondo, troverò il tempo di scrivere!!!


venerdì 4 febbraio 2011

Prigionia

 I rumori si ovattavano, le immagini si offuscavano, la luce diventava a tratti intensa e abbagliante per poi ridiscendere nell'oscurità. Suoni, voci, passi. Tutto era confuso e distorto. La ferita alla gamba si era infettata e, di conseguenza, Eric aveva la febbre alta. Sentiva il battito del suo cuore accelerato rimbombargli nelle orecchie. Era confuso e la nausea lo opprimeva. Gocce di sudore gelide scendevano lungo il collo fin giù per la schiena.
 Era sdraiato. Questo riusciva a capirlo. Doveva essere steso su qualcosa di estremamente rigido e scomodo, probabilmente una tavola di legno a giudicare dai dolori e gli spasmi che gli facevano contorcere la spina dorsale. Non sapeva esattamente dove fosse, ne come ci fosse arrivato. Aveva la mente affollata da immagini sbiadite e da ricordi sconclusionati. La gamba. Questo era un ricordo preciso. La gamba gli faceva male, molto male, o per lo meno così era fino a qualche ora prima. Progressivamente l'aveva sentita addormentarsi. Un leggero formicolio aveva sostituito il dolore lancinante. Cercò di alzare la testa. Giusto un poco, per osservarsi la gamba, ma l'impresa fu eccessiva. Sentì il collo stirarsi e la testa come perforata da centinaia di aghi roventi. Riuscì giusto a vedere una lunga cinghia di cuoio saldamente legata intorno alla sua gamba.

 Eric passava rapidamente dallo stato di veglia a quello di totale incoscienza. La febbre doveva essere molto alta perché la luce sembrava trapanargli gli occhi. Da quel che riusciva a capire, doveva trovarsi in una stanza squadrata e molto piccola, con mura di pietre e nessun tipo di arredamento. La luce arrivava da una serie di aperture strette in alto sul muro di fronte a lui e c'era una sola porta in legno sulla sua destra con una feritoia a metà altezza. La sua branda, letto, tavola, o come diavolo la si voglia chiamare, era appesa al muro con due pesanti catene in ferro battuto. 
 Dopo lungo meditare decise che quella sorta di prigione era solo frutto di un'allucinazione causata dalla febbre. Chiuse gli occhi per richiamare a sé il ricordo delle calde coperte e del morbido materasso sul suo letto. Si concentrò per riuscire a sentire gli odori della sua casa, quel misto tra carta di giornale, naftalina e incenso -non troppo, quel tanto che bastava per rilassare la mente. Cercò di ascoltare i rumori della lavatrice in bagno e delle macchine che veloci sfrecciavano davanti al vialetto della sua casa. Sul retro delle sue palpebre si formò l'immagine di un soffitto bianco con al centro un lampadario con le pale al quale non aveva ancora montato i diffusorio, lasciando quindi le tre lampadine nude.
 Si lasciò cullare per un attimo nel piacere infantile della sua camera, ma quando aprì gli occhi tutto sparì e fu di nuovo sostituito dall'inquietante visione di una cella umida e maleodorante.

 Non era un sogno ne un illusione. Era la pura realtà, era rinchiuso in una cella. Ma -c'è sempre un ma- come c'era finito? Ogni volta che cercava di catturare un ricordo, una sensazione o un indizio che lo aiutasse a capire, quello gli sfuggiva di mente, si perdeva tra la nebbia che offuscava i suoi pensieri. Più si sforzava, meno ricordava. Non era quello il modo di procedere, di ricostruire, di ricordare. Eric era uno scienziato, un Dottore con tanto di lode, doveva seguire un metodo, un sistema preciso per trovare il bandolo della matassa. Per arrivare a delle conclusioni valide bisogna concentrarsi sui fatti evidenti e il dolore alla gamba era senza ombra di dubbio la cosa più evidente. La gamba. Ricordava ancora la sensazione tremenda della punta metallica della freccia che veniva estratta dalla carne del suo polpaccio. La freccia. Un nuovo tassello del puzzle. Non l'aveva neanche sentita arrivare. Un dolore lancinante gli aveva fatto perdere l'equilibrio. Persino negli occhi di quel soldato si era dipinta la sorpresa. Il soldato col quale si stava battendo, quello che aveva messo a terra...
 "Peter!"
 Eric si alzò di scatto a sedere ignorando i dolori che attanagliavano tutto il suo corpo. Come un fulmine tutti i ricordi e le sensazioni avevano ripreso forma e si erano concretizzati nell'immagine di Peter. Il suo allievo. Quello che lui aveva inseguito nel bosco. Quello che si era lanciato contro i soldati per permettere al gruppo di scappare. Elliot, Mallory, Lara. Li ricordava tutti. Li ricordava in pericolo. Panico e ansia si avvinghiarono alle sue viscere con rabbia. Doveva alzarsi, doveva raggiungerli.
 Provò ad accennare un movimento con la gamba, ma il dolore tornò più vivo di prima. Fu sul punto di perdere di nuovo conoscenza, ma si aggrappò al ricordo di Peter per mantenere il controllo. Una goccia di sudore cadde dalla sua fronte. Abbassò lo sguardo in preda allo sconforto. Fisso le mani lerce e graffiate con le quali aveva combattuto per salvare il ragazzo. Era riuscito a metterlo in fuga, ma in un bosco, di notte, un ragazzino da solo quante possibilità aveva di cavarsela?

 La luce diffusa nella stanza perse via via di intensità. I colori sfumarono verso l'arancio per poi spegnersi nelle ombre della notte. Il sole stava calando rapidamente ed Eric non riusciva a riprendersi dal colpo. Rimase immobile a fissarsi le mani come nella speranza che l'immagine del ragazzo si materializzasse e riuscisse a tranquillizzarlo, ma il miracolo non avvenne. Si sentiva disperato e perduto. Come un ossessione ripeteva la stessa parola a bassa voce: "Peter"
 "Non ti preoccupare per lui, sta bene. Beh, comunque sta meglio di te."
 La voce veniva dall'angolo sotto la finestra, il punto più in ombra della stanza. Eric impiegò un po' a realizzare, credeva che la voce facesse parte delle tante allucinazioni che lo tormentavano. Si sforzò di vedere cosa si nascondeva in quell'angolo della cella, ma c'era solo il buio più assoluto.
 "Chi sei?" provò a chiedere con un filo di incertezza nella voce.
 "Un amico" rispose la voce.
 "Non mi basta, voglio sapere chi sei!" riprese Eric quasi infastidito da tutto quel mistero.
 "Uhm, questa scena l'ho già vissuta! Cos'è, avete un copione prestampato?" fece la voce ironica.
 "Che diavolo stai dicendo" Eric iniziò a convincersi di stare parlando con un'allucinazione.
 "Niente, lascia stare. Ho bisogno di parlarti, ma adesso non sei in condizione di ascoltarmi."
 Dal buio una sagoma iniziò a delinearsi illuminata dalla luce della luna che lentamente aveva guadagnato il suo posto nel cielo. Un enorme mantello scuro avvolgeva una figura umana con un grosso cappuccio che gli copriva quasi per intero il volto. Eric non riusciva a distinguere i lineamenti del suo viso, ma a giudicare dall'altezza e dalle proporzioni del corpo doveva essere un ragazzino.
 Si avvicinò alla branda dove Eric era ancora seduto "Sdraiati" disse e accompagnò con la mano il movimento dell'uomo che, ubbidiente, si stese sulla rigida tavola di legno. Il ragazzo si avvicinò alla gamba ferita e vi appoggiò una mano sopra. Eric vedeva la scena come attraverso un caleidoscopio rotto. Colori e immagini distorte si alternavano a causa della febbre, ma era abbastanza sicuro di aver visto della luce provenire dal palmo della mano del ragazzo. Una flebile filastrocca, nenia o chissà che strana canzoncina, si stava spandendo nella stanza. Lentamente un leggero torpore invase il corpo di Eric e una sensazione di sollievo fece sprofondare l'uomo in un sonno profondo.

 Quando riprese conoscenza, il ragazzo era accucciato in un angolo. Sembrava appisolato, ma appena Eric fece per alzarsi lui gli sorrise e si alzò in piedi.
 "Come va?"
 Per la prima volta Eric notò che il ragazzo non muoveva le labbra per parlare, come se la voce gli arrivasse dritta nella testa. Testa che tra l'altro non faceva più male. Gli occhi, le orecchie, la schiena, tutto in perfetto ordine. Le immagini che vedeva erano nitide e non distorte, i suoni che ascoltava erano puliti e non rimbombavano più nella sua mente. Stava bene. Persino la gamba non faceva più male, si soffermò ad accarezzare il foro sui suoi pantaloni di velluto ormai impregnati del suo sangue. L'odore acre della carne era ancora forte, ma probabilmente era dovuto ai suoi indumenti sporchi, perché sotto al foro non c'era più nessuna ferita. Niente, neanche una puntura di spillo. Si slegò la cinghia legata intorno alla gamba e un forte formicolio invase tutto il suo corpo. Una sensazione estremamente fastidiosa, ma di certo non dolorosa.
 "Direi che sto bene, ma credo tu lo sapessi già" disse, e il ragazzo si limitò a sorridere.
 "Ho bisogno che tu faccia qualcosa per me" riprese il ragazzo facendosi improvvisamente serio.
 "Mi stavo giusto chiedendo quando saresti arrivato al punto" rispose Eric mettendosi seduto sulla tavola con le spalle al muro e con i piedi scalzi appoggiati sul freddo pavimento lastricato di pietre.
 "Elliot sta arrivando..." iniziò il ragazzo, ma fu subito interrotto "Cosa? Perché sta venendo qui?" il volto di Eric si era deformato in un'espressione di estrema preoccupazione.
 "Elliot sta arrivando" riprese il ragazzo senza dare peso alla reazione di Eric "verrà qui per salvare te, e verrà qui anche per salvare Peter".
 "Avevi detto che Peter è al sicuro" commentò Eric.
 "E te lo confermo, attualmente gli ho affidato una piccola missione. Il punto è che Elliot non deve interferire in nessuna maniera con il compito di Peter."
 "In che modo potrebbe interferire?" chiese dubbioso Eric.
 "Beh, ad esempio andandolo a cercare" ironizzò il ragazzo, ma allo sguardo perplesso di Eric, si appoggiò una mano alla fronte e andò avanti con la sua spiegazione. "Elliot è un ragazzo con un grande cuore ma soprattutto con un grande coraggio. Niente e nessuno potrebbe impedire a lui e ai suoi amici di andare a salvare Peter. Continuerebbero a cercarlo per il mondo intero e poi ancora oltre".
 "Come fai a conoscerlo così bene? E come fai a sapere tante cose di noi?" chiese Eric.
 "E' una lunga, lunghissima storia e adesso non ho il tempo di raccontartela, devi solo sapere che tra me ed Elliot esiste un legame che va oltre la normale comprensione umana" rispose l'altro.
 "Cosa dovrei fare?" chiese quasi rassegnato Eric.
 "Qui viene la parte difficile: dovrai dirgli che Peter è morto! E' l'unico modo per impedirgli di seguirlo"
 "Cosa? Hai voglia di scherzare? Il dolore lo ucciderebbe!" protestò Eric.
 "Ce la farà! Comunque il tuo compito non si ferma qui. Dovrai assicurarti che rimanga al fianco di Kaila, la ragazza che vi ha trovato nel buco."
 "Hai suggerimenti particolari in merito?" rispose sarcastico Eric squadrando il ragazzo da capo a piedi.
 "Lascio tutto alla tua fervida fantasia" concluse il ragazzo.
 "Quindi parli sul serio, dovrei andare da Elliot e dirgli: 'Ehi, il tuo amico è morto, fatti una passeggiata con questa ragazza sconosciuta così ti tiri su di morale'" Eric era completamente incredulo.
 "E in tutto questo dovresti anche evitare di menzionare la mia esistenza" concluse il ragazzo.
 "Non dicevi di avere un legame speciale con Elliot?" la discussione stava decisamente assumendo dei toni surreali.
 "Il fatto che il legame esista non significa che lui ne sia a conoscenza. Presto vi sarà tutto più chiaro, ma per ora la cosa importante è che Elliot e Peter proseguano su due strade separate."


 Il silenzio calò tra i due rotto solo dal tintinnio metallico di una chiave in lontananza. Eric continuò a fissare torvo il ragazzo anche se i suoi occhi rimanevano costantemente coperti dal grande cappuccio.
 "Stanno arrivando" disse all'improvviso il ragazzo.
 "Chi?" chiese Eric.
 "I tuoi carcerieri, saranno qui tra breve."
 "Cosa vogliono da me?"
 "Sapere chi sei, come sei arrivato qui, che legame hai con Kaila... inventati una balla e restaci fedele, loro non hanno la più pallida idea dell'esistenza del luogo dal quale venite".
 "E da dov'è che veniamo... esattamente?" Eric ormai aveva completamente perso il filo logico del discorso.
 "Dal mondo della scienza e della tecnologia e, per rispondere alla tua prossima domanda, questo è il mondo della magia -si, ho detto magia- dovresti aver notato tutte le cose strane che ti stanno accadendo intorno, non dovrebbe essere così difficile per te credere ad una cosa così assurda come la magia" spiegò il ragazzo.
 "Cosa mi faranno?" chiese Eric scoraggiato. Nei suoi occhi lo sconforto era evidente come lo era la sua infinita stanchezza.
 "Non lo so, ma devi resistere, Elliot e gli altri stanno arrivando".
 "Che fortuna! Un gruppo di ragazzini sta per intrufolarsi in una prigione in stile medievale, con chissà quanti guardiani pericolosi. In che modo questo dovrebbe aiutarmi?" la stanchezza si stava rapidamente trasformando in collera. Eric era scattato in piedi e aveva afferrato il ragazzo per il bavero del mantello. Il cappuccio scivolò delicatamente all'indietro scoprendo gli occhi del ragazzo, gonfi di lacrime e di tristezza. Eric lasciò la presa e si rimise a sedere, si prese la testa fra le mani e sospirò. La stanchezza era tornata con la stessa rapidità con la quale era stata scacciata dalla rabbia.
 "Dove mi trovo?" chiese come per cercare di scacciare un pensiero.
 "Sei nella città fortificata di Elengar" rispose la voce nella sua testa. Eric continuò a fissarsi i piedi scalzi. Un topolino squittì in un angolo della stanza e scattò verso la porta.
 "Come facciamo a scappare?" chiese con la stessa naturalezza di una persona che chiede informazioni sul clima.
 "Devi avere fiducia nei tuoi ragazzi, sapranno tirarti fuori da qui" rispose la voce. 
 Eric alzò lo sguardo e un briciolo di collera lampeggiò di nuovo nei suoi occhi "Quindi mi stai dicendo che sai già che sopravviveremo!" chiese rabbioso.
 Il ragazzo rimase immobile. Fu ora il suo turno di abbassare lo sguardo. Non rispose, ma non ce ne fu bisogno. Eric si limitò a sbuffare con aria ironica e a scuotere la testa in segno di disapprovazione.


 Il tintinnio delle chiavi si fece sempre più vicino. Adesso insieme al rumore metallico si potevano udire anche i passi di un uomo che avanzava verso di loro. Nella cella il silenzio era totale ed Eric era in grado di sentire ogni palpitazione del suo cuore. L'ansia lo stava progressivamente divorando. Per la prima volta iniziò a provare paura. Paura per l'ignoto, paura per i suoi allievi, paura della morte.
 "Ora devo andare, da qui in avanti dovrai cavartela da solo" disse la voce nella sua testa. Eric non si sprecò nemmeno ad alzare lo sguardo. Non un cenno di saluto ne una parola. Continuò a fissare il pavimento con ostinazione e rabbia. Paura e collera.
 Il ragazzo era sparito esattamente come era comparso. Eric continuò a tenere lo sguardo basso ma sapeva di essere di nuovo solo nella stanza. Il pesante rimbombo dei passi si arrestò in corrispondenza della sua porta e il rumore della chiave che cercava la sua strada all'interno della toppa gli fece gelare il sangue.
 La porta si spalancò ed un uomo enorme con una casacca nera con una croce bianca al centro fece il suo ingresso nella stanza. Eric ricordò di aver già visto quel simbolo. Era impresso sulle divise dei due soldati che lo avevano catturato. Ricordò finalmente il percorso che lo aveva portato in quella prigione. La cattura. Il viaggio a cavallo con le mani legate. Le continue cadute e le conseguenti perdite di conoscenza. L'interminabile salita costantemente in curva che li aveva condotti fino alla cima di una montagna come mai ne aveva viste. Le mura. Il castello. La cella.
 L'uomo enorme si fece da parte e lasciò il passo ad un suo commilitone. Decisamente più piccolo. Non troppo, aveva una corporatura molto simile a quella di Eric, forse solo un po' più magro, però accanto a quella montagna umana dava l'idea di essere infinitamente piccolo.
 Aveva dei lunghi capelli neri e si fece avanti sorpassando il gigante che lo aveva accompagnato. Si avvicinò ad Eric che continuava a starsene seduto sulla tavola di legno con lo sguardo perso nel vuoto, accecato dalla poca luce che filtrava dalla porta alle loro spalle.
 "Il mio nome è Nikolas" disse e rimase in silenzio come per attendere una risposta, ma vistosi ignorato riprese "Di solito quando qualcuno si presenta, è buona educazione rispondere presentandosi a propria volta".


 Eric sorrise. Fissò Nikolas negli occhi e ne sostenne lo sguardo, infine disse "Abbiamo un concetto di educazione differente. Dalle mie parti è considerato alquanto scortese prendere uno sconosciuto, tirargli una freccia nel polpaccio, arrestarlo e sbatterlo in prigione senza motivo".
 Nikolas sembrò divertito da quello scambio di parole "Hai ragione, ma da quel che mi risulta tu hai aggredito uno dei miei uomini. Anche questa è una cosa che non andrebbe fatta. Diciamo che siamo pari" disse il soldato sorridendo e tendendo la mano in segno di pace. 
  Eric ignorò la mano e continuò a fissare Nikolas negli occhi. Si alzò in piedi e si accorse di essere di poco più alto del suo interlocutore. Questo doveva infastidire non poco il soldato che in risposta distolse finalmente lo sguardo. "Quindi posso andarmene tranquillamente per la mia strada" esclamò ironico Eric.
 "Oh, ma certo che puoi. E' sufficiente che tu risponda ad alcune domande e poi te ne potrai andare" concluse Nikolas facendo segno con la mano all'energumeno di spostarsi e indicando la via libera.
 "Non so nulla di quella ragazza che stavate inseguendo, l'abbiamo incontrata per caso e non ho neanche avuto modo di scambiarci due parole."
 "Mi hai frainteso. Non mi importa nulla di quella ragazza. L'ho fatta seguire dai miei uomini con una scusa solo perché non mi era permesso di dire loro la verità. La verità è che io sapevo che sareste arrivati -si, proprio così! Sto parlando di te e di quei ragazzini- e sapevo che quella ragazza ci avrebbe condotti da voi".
 Eric rimase spiazzato, il ragazzo che gli aveva fatto visita pochi istanti prima gli aveva detto un sacco di cose inutili, ma doveva aver tralasciato di avvertirlo che lo scopo della retata nel bosco era proprio catturare loro, o perlomeno uno di loro. Lui.
 Si chiese quante possibilità ci fossero che il ragazzo non ne fosse a conoscenza, ma non seppe darsi risposta.
 Nikolas si aggiustò la divisa e ricominciò a parlare "Vedi, qui comando io ma, come tutti, anche io rispondo agli ordini di qualcuno. Questo qualcuno mi ha avvertito che dei forestieri sarebbero giunti in queste terre e che io avrei dovuto catturarli. Questa è la mia missione, il mio scomodo incarico. Non è nostra intenzione farvi del male, vogliamo solo scoprire come avete fatto ad arrivare 'qui'. Perciò ora ci sediamo e tu mi racconti tutto."
 "Lo farei molto volentieri" rispose Eric sedendosi di nuovo sulla branda di legno "ma non ho la più pallida idea di cosa tu stia parlando".
 Nikolas si sedette al suo fianco e attese qualche istante, si voltò verso di lui e sorrise. "Ne sono certo. Amnesia immagino. Ma non ti preoccupare, abbiamo i nostri metodi per far recuperare la memoria ai prigionieri" detto questo si alzò nuovamente ed uscì dalla cella. Il gigante lo seguì silenziosamente.
 Rumore di chiavi. Rumore di passi. Silenzio. Eric era di nuovo solo.


mercoledì 26 gennaio 2011

Incontri

 Il fatto che uno si trovi a dover affrontare una situazione straordinaria -e per straordinaria si intende solo qualcosa che esca dall'ordinario, niente di più- non significa che automaticamente quel qualcuno sia in grado di sopportarne lo stress.
 Ragioniamo un attimo sulla cosa. Siamo finiti in chissà quale modo su chissà quale mondo che per una qualche strana ragione assomiglia ad una versione riveduta e corretta del nostro periodo medievale. Dove creature mitologiche e credenze popolari antiche sono la normale realtà. Dove la gente va in giro con arco e freccia e prende di mira i primi sprovveduti che hanno l'ardire di teletrasportarsi qui. Sì, ho detto 'teletrasportarsi'. Già perché pare sia questo il sistema con il quale siamo arrivati qui -ammesso che questo 'qui' esista realmente- perché assomiglierà in tutto e per tutto al medioevo, ma qui la gente si teletrasporta -oltre ovviamente a girare con i suddetti archi e con le suddette frecce. Lasciate che lo ripeta: la gente si teletrasporta. Ehi Enterprise, qui ce ne sono 5 da teletrasportare... una cosa del genere, solo senza l'astronave strafighissima e senza i pigiamini colorati imbarazzantissimi. Alla fine è così che uno si immagina il teletrasporto. Una pedana, una console, lo sfigato di turno che preme un pulsante, la nebbiolina dorata a forma di tubo -et voilat- ti trovi a mille miglia dalla superficie terreste. E invece no, siamo ancora sulla superficie, ma non la nostra cara, vecchia e inquinata superficie. No, siamo 'qui' dove la gente ti tira le frecce, si trasforma in lupi o appicca il fuoco con la sola imposizione delle mani.
 Uno potrebbe chiedersi quale sia la connessione tra queste cose -ed è quello che sto cercando di fare- ma al massimo riuscireste a cavarne un mal di testa colossale. La cosa assurda è che il fuoco non lo appicca uno stregone canuto col cappello a punta e il bastone di legno in mano, bensì il mocciosetto che fino all'altro ieri tenevo con la testa infilata nello scarico del cesso.

 Che poi su questo punto bisogna spenderci un paio di parole. Elliot è un ragazzino fortunato di quelli che hanno una famigliola perfetta con una casetta perfetta con sul vialetto parcheggiata una macchina perfetta. Niente di più diverso da me e da quella che è la mia vita domestica. Me ne rendo conto solo ora che alla fine la cosa che più mi dava urto in quel ragazzino era la sua totale e inconsapevole tranquillità. Quella felicità semplice e quasi indesiderata che a me non è stata concessa. Una famiglia come la sua la si trova di solito con la faccia stampata sulle cartoline di benvenuto nelle città o sulle brochure delle agenzie immobiliari -e guarda caso sua madre fa l'agente immobiliare.
 Alla fine Elliot non è tanto diverso da me, solo che la vita non l'ha messo nelle condizioni di essere in grado di gestire una situazione del genere. E qui torniamo all'incipit del capitolo: come fa una persona normale a gestire una situazione anormale? La risposta è semplice: non lo fa! Il più delle volte esplode, e non nel senso che da fuoco al primo bosco che gli capita sottomano. No, quello diciamo è più un effetto collaterale. Uno esplode coi nervi. Cede. Si dispera in maniera insensata. E già che c'è fa esplodere altra roba. Ecco, crisi di nervi e super-poteri sono cose che non possono andare a braccetto. Ve lo immaginate Superman che perde il senno perché imbottigliato in mezzo al traffico? Ci avevano anche fatto un film su una super-eroina che veniva scaricata dal fidanzato e dava di matto... Ecco, diciamo che è il caso di evitare una situazione del genere.
 Ok ok, lo ammetto, un minimo mi sento in colpa. Non che sia del tutto colpa mia se siamo finiti qui, ma tutto sommato esiste la remota possibilità che la mia irresponsabile avventatezza possa averci condotti qui. In un certo senso mi sento responsabile della vita di questi miei compagni improvvisati. E' per questo che mi sono dato tanta pena per salvare Lara e perché farò di tutto per andare a salvare quell'idiota di Peter che si è fatto rapire insieme al professore -idioti.

 Elliot ha bisogno di qualcuno che lo sorregga in questo momento. Un po' per evitare che diventi un pericolo per se e per chi gli sta intorno -ad esempio per me- un po' perché a conti fatti queste sue nuove abilità ci possono fare estremamente comodo durante la missione che stiamo per intraprendere. C'è bisogno di qualcuno che lo guidi e lo aiuti a scoprire e controllare il suo potenziale e quel qualcuno non può essere nessun altro se non io.
 Vivere in una situazione di costante allerta mi ha dato la capacità di comprendere le persone e le loro intenzione semplicemente guardandole. Nel mio zaino porto sempre l'occorrente per il pronto soccorso e per la 'sopravvivenza spicciola', ovvero quelle piccole cose che ti permettono di cavartela in qualsiasi situazione imprevista. Eredità di quella triste parentesi della mia vita in cui fui costretto a fare lo scout... ma su questo argomento stendiamo un velo pietoso.
 Questo è solo per dire che dalla vita mi aspetto sempre il peggio e cerco di farmi trovare preparato. Una dote di cui adesso abbiamo molto bisogno e che, insieme ai poteri di Elliot potrebbero tirarci fuori da questo impiccio -ammesso che esista un modo per cavarsela.
 Va bene, va bene. Non è questo l'unico motivo per cui ieri sera sono andato a trovare Elliot. E' che un po' lo sto rivalutando. Una volta superata la naturale repulsione per gli sfigati come lui, scopri che non è poi così malaccio. In realtà riesce anche ad essere simpatico. Certo, a modo suo, però potrei anche considerare l'idea di stringerci amicizia.
 Non sarebbe male per una volta avere al fianco una persona che stia con te per sua scelta e non per paura delle eventuali ritorsioni. Diciamo che potrebbe essere un piacevole diversivo.

 Ora, lasciando da parte tutti questi vaneggiamenti su Elliot e sui miei immeritati sensi di colpa, resta il fatto che c'è una missione da portare a termine e, non per ripetermi, ma qui la gente ti tira addosso le frecce. Quanto meno dalla nostra abbiamo i lupi che, a quanto mi dicono, sono temuti anche da queste parti. Inoltre con questi particolari lupi ci si può anche parlare, basta solo cercare di non ridere sulla loro statura, ma per il resto sono amabilissimi.
 Si sono costruiti questa città-fortezza al riparo dal mondo esterno per non dover convivere con la repulsione e l'odio che gli umani gli tributavano. In un certo senso mi sento anche troppo vicino a loro. Sarà forse per questo che mi trovo così a mio agio in mezzo a loro. Girando per il mercato, parlando con la gente, vagando per le vie del borgo... per la prima volta in vita mia mi sono sentito veramente a casa. Loro ci aiuteranno e di sicuro non ci abbandoneranno e, qualora non riuscissimo a trovare un modo per tornare a casa, penso che non mi dispiacerebbe rimanere a vivere qui. No! Ho promesso ad Elliot che lo avrei aiutato e ci avrei riportati tutti nel nostro mondo e, anche se fatte ad un idiota, le promesse vanno onorate.
 E poi c'è Kaila. Ok, non c'entra nulla col discorso, però da quando l'abbiamo incontrata ogni tanto mi ritrovo a pensare a lei senza alcun motivo apparente. In pratica si potrebbe dire che se siamo in mezzo ai guai sia colpa sua -a riprova del fatto che non dovrei assolutamente sentirmi in colpa- però ogni volta che la vedo mi si forma un nodo in gola. La stessa sensazione che si prova quando si mangia troppo di fretta e qualcosa ti si blocca a metà via tra la gola e lo stomaco. Tu di dai una serie di colpi furiosi sul petto, ma quel boccone non va né su né giù! Non ti stai strozzando, però senti quel fastidioso senso di oppressione dietro lo sterno che ti fa impazzire.
 Ti prende all'improvviso, senza che te lo aspetti. Tu sei lì che cerchi di spiccicare due parole e quelle ti muoiono in gola, ti si confondono, si perdono. Probabilmente quella ragazza penserà che sono un idiota, o peggio ancora, un timidone. Vorrei prenderla a pugni solo per il gusto di cancellare quel sorrisino imbarazzato che le si stampa sulla faccia ogni volta che rimaniamo in silenzio. Di occasioni ce ne sono state, ma puntualmente me ne sono rimasto lì impalato a fare il deficiente.

 Prendiamo ad esempio stamattina. Stavo cercando Holtz, il tipo che ci ha salvato dal novello Robin Hood che ci inseguiva, per chiedergli informazioni sul conto della magia. Ho promesso ad Elliot che lo avrei aiutato, ma sinceramente non avevo proprio idea di dove iniziare. Non avendo a disposizione un computer, e dubitando fortemente che comunque avrei trovato informazioni utili su Wikipedia, ho pensato di rivolgermi a qualcuno del posto che sapesse indirizzarmi. Insomma, chiedo in giro di questo Holtz e vengo indirizzato da un simpatico mercante verso l'ospedale -a proposito, se passate da queste parti e vi fermate a mangiare, lo Shurap è ottimo, ricorda molto il cous-cous, ma evitate come la peste il Rabilh... mai mangiato nulla di più orribile! Sa di pesce marcio infilato in un calzino usato da più di una settimana da qualcuno affetto da una grossa disfunzione alle ghiandole sudoripare. Non mi sono fermato ad indagare sulla ricetta.
 Arrivai all'ospedale in tarda mattinata. Rispetto alla sera prima c'era un via vai di gente incredibile e all'interno era possibile vedere lo stesso tipo di frenesia tipica di un pronto soccorso nostrano. Mi recai al banco dell'accettazione per chiedere di Holtz quando la porta che dava sui locali di ricovero si spalancò con una furia incredibile e una ragazza ne schizzò fuori. Ci misi un po' a riconoscerla per via del suo strano abbigliamento. Oddio, non che fosse strano, solo un po' inusuale. Evidentemente anche a lei i Nani avevano fornito degli abiti puliti, e lei li aveva persino indossati. Quasi d'istinto mi venne da chiamarla: "Ehi Kaila, dove corri?"
 Lei si bloccò all'istante e si voltò verso di me. In quel momento ho avuto come l'impressione che il mondo si spegnesse. Non del tutto, solo il volume. Come quando ricevi una telefonata e togli l'audio al film che stanno dando in TV per poter rispondere. Neanche mi accorsi che si stava avvicinando. O meglio, me ne accorsi, ma non credevo fosse reale. Era come se un faro illuminasse solo lei che camminava al rallentatore verso di me. Niente suoni, niente rumori, niente voci. Solo quegli splendidi occhi verdi e quel sorriso luminoso in una splendida cornice di capelli ricci e neri come la notte. Ok, sto decisamente male. Anche solo a ripensarla mi viene il magone. Mi si attiva il gene della poesia che di solito faccio di tutto per mantenere accuratamente spento. Ammettiamolo, Kaila è una bella ragazza. Forse a scuola ce ne sono di più carine, ma nessuna ha quel sorriso, quegli occhi e quello splendido incedere delicato... AAAAAHHHH! Stupido gene della poesia! Spegniti!
 Sta di fatto che una volta arrivata di fronte a me, il cervello mi è letteralmente andato in pappa! Ho cercato di parlare, ma credo mi siano uscite dalla bocca solo delle sillabe sconnesse e probabilmente sono anche arrossito. Che figuraccia!

 Alla fine riuscii ad articolare qualcosa del tipo 'hai per caso visto Holtz?' ma con in mezzo molte ma molte più consonanti e vocali buttate lì a casaccio. Quando nominai Holtz il suo sguardo si velò di tristezza e accennò a chinare il capo. Per un attimo pensai che la tremenda onta di averle arrecato tristezza andasse lavato col sangue -il mio sangue- ma per fortuna durò soltanto un attimo. Lei si riprese quasi subito e mi mostrò nuovamente il suo raggiante sorriso. Iniziò a parlarmi con quella sua voce melodica, i capelli corti che danzavano dolcemente sulla sua testa, le sue labbra carnose e vermiglie che si muovevano sinuosamente, i suoi occhi ambrati che mi fissavano con quel meraviglioso sguardo penetrante -ok, mi sono completamente arreso al gene della poesia, tanto non riesco a controllarlo. Ero completamente annientato da tutta quella bellezza che quando finì di parlare mi resi conto di non aver ascoltato neanche una parola di quello che aveva detto.
 Mi guardò intensamente come per chiedermi se avevo capito e l'unica cosa che riuscii a pensare era che se non le davo subito un bacio avrei rischiato di esplodere. Non la baciai -non sono ancora così perduto- né tantomeno esplosi. Biascicai qualcosa di incomprensibile che nella mia mente doveva suonare come un 'Ok, grazie!' così lei si sentì soddisfatta, mi salutò e se ne andò per la sua strada.
 Rimasi a fissare per qualche minuto il punto della porta dalla quale era uscita e alla fine riuscii a riprendermi. Tutte le funzioni neuronali tornarono a pieno regime e riuscii nuovamente a connettere i pensieri. Quello che ne uscì fuori fu: 'Cavolo, ancora non so dove trovare Holtz!'
 Mi voltai verso il tizio seduto dietro il banco dell'accettazione e gli chiesi: "Ehi amico, hai per caso sentito quello che mi ha detto la ragazza mora?" quello fermò la mano che scriveva freneticamente sul registro e lentamente alzò lo sguardo verso di me. Non che fosse possibile fare un paragone, ma se lo sguardo di Kaila era il Paradiso, quello del nano era l'Inferno. Mi fissò con un'aria imbronciata, seccata e annoiata allo stesso tempo. Il suo naso adunco sembrava indicarmi con fase accusatorio e alla fine, quando parlò, ogni lama sembrò un rasoio tagliente e arroventato: "Di un po', ti sembro forse una segretaria?"
 "Ehi, scusa. E' solo che... Ok, fai finta di niente"
 "Vedrò cosa posso fare"
 E con lo stesso identico movimento -solo in direzione contraria- abbassò di nuovo lo sguardo e riprese a scrivere.

 Passai quasi tutto il giorno a vagare per la città, ogni volta che abbassavo lo sguardo e cercavo di non pensare a nulla, il bel visino di Kaila mi si formava in mente. Ma si può? Mi sentivo -e mi sento- veramente ridicolo.
 Comunque, tornando ad Holtz, alla fine lo trovai, beh, più che trovarlo gli sono letteralmente inciampato addosso. Ero come al solito perso nei miei pensieri -e quindi sistematicamente pensavo a Kaila- quando da un angolo mi sbuca davanti guardando dall'altra parte e mi arriva diritto addosso. Anche lui stava cercando me, voleva informarmi della riunione che si terrà stasera e mi chiese di avvisare anche Elliot. Elliot... uhm, mi dice qualcosa questo nome... Non è una battuta, li sul momento mi ero proprio dimenticato del perché stessi cercando Holtz. Continuavo a vagare per il borgo cercandolo solo perché quello era l'unico pensiero al di fuori di Kaila che riuscissi a focalizzare.
 "Senti, a proposito di Elliot, ti volevo chiedere alcune cose."
 "Dimmi pure" fece lui "cosa gli è successo?"
 "Beh, non è che gli sia proprio successo qualcosa, anzi, sarebbe più corretto dire che è lui che fa succedere delle cose."
 Il cervello non mi era ancora tornato del tutto in funzione, e quindi vedevo la faccia perplessa di Holtz mentre io cercavo di raccapezzarmi tra i miei pensieri confusi.
 "In che senso fa succedere delle cose?" mi chiese. Aveva uno sguardo molto paziente. Sembrava una persona estremamente matura, nonostante mi arrivasse a stento all'altezza delle spalle.
 "Beh, cose... cose magiche... tipo accende il fuoco" e qui penso di essermi giocato ogni parvenza di serietà perché Holtz iniziò a guardarmi come io di solito guardo la mia bisnonna. Non è che abbia nulla contro nonna Becka, solo che ormai si è completamente rimbambita.
 "Capisco, accende il fuoco, questa è una dote decisamente notevole, ma in che modo potrei esserti utile?"
 "No no, non mi hai capito, non è che accende il fuoco come fanno gli scout -Non sai cosa siano gli scout? Sei una persona estremamente fortunata- comunque lo accende col pensiero... per magia" ecco la parola che che proprio non mi veniva in mente... Magia. "Si insomma, da quando siamo arrivati Elliot sa usare la magia."
 Questa mia ultima affermazione deve avermi fatto riguadagnare qualche punto, perché Holtz tornò ad essere serio.

 "Beh, questo è abbastanza insolito. Vi verrà spiegato meglio stasera, ma voi in teoria non dovreste essere in grado di utilizzare la magia. Cos'ha fatto di preciso?"
 "Beh, ieri ha fatto esplodere un vaso nella sua stanza e ieri notte ha appiccato l'incendio oltre il quale ci siamo incontrati, ah, e credo sia stato sempre lui a teletrasportarci qui" Holtz iniziò a sembrarmi decisamente preoccupato così mi sentii in dovere di rassicurarlo "Però adesso lo controlla, o meglio. Lo controllicchia. Adesso riesce ad accendere le candele solo avvicinando la mano allo stoppino. Abbiamo fatto pratica per tutta la notte."
 Si grattava il mento. Classica posa di chi sta riflettendo. Alla fine sembrò giungere ad una semplice conclusione. "Beh, tralasciando la parola 'impossibile' che con voi sembra essere quantomai inappropriata, devi sapere che la magia è una sorta di energia che fa parte della natura. A volte, alcune persone particolarmente dotate, sono in grado di domarla quasi istintivamente. Mettiamo che questo sia il caso di Elliot, allora sarà in grado di gestire una piccola quantità di incantesimi elementali" prese un attimo fiato per vedere se il concetto aveva un qualche significato per me e, no, non ce lo aveva, quindi continuò con la spiegazione "per elementali intendo quegli incantesimi basilari che partecipano delle energie degli elementi -acqua, aria, fuoco e terra- quindi si, potra accendere fuocherelli, congelare pozzanghere o cose simili, ma dovrà imparare a controllarsi..."
 "Oh, a questo ci penso io..." risposi tutto entusiasta, ma poi mi resi conto che non mi aveva fatto nessuna domanda e che io mi ero limitato ad interromperlo "...scusa, continua".
 "Dicevo, che dovrà imparare a controllarsi, ma se vorrà progredire, dovrà imparare anche le formule magiche. Qui in città ci sono diversi stregoni a cui..."
 "Non ce ne sarà bisogno" lo interruppi di nuovo. E' che la mia soglia di attenzione per i discorsi troppo lunghi scema dopo pochi secondi. "Le formule ce le ha già".
 "In che senso 'le formule ce le ha già'?" mi chiese incuriosito
 "Beh, non so come spiegarlo, ma ogni tanto, quando siamo in situazioni particolari, è come se perdesse il controllo, inizia a parlare in una lingua strana e poi succedono delle cose... cose magiche ovviamente".
 "Ragazzo mio, se già il fatto che il tuo amico sappia usare la magia è strano, quello che mi dici ora rasenta l'assurdo. Sarà bene parlarne con il consiglio stasera, loro sapranno aiutarlo meglio di quanto possa fare io".

 Detto questo semplicemente se ne andò senza voltarsi. A pensarci adesso mi pento fortemente di avergli raccontato quelle cose. Non vorrei aver condannato Elliot ad essere un fenomeno da baraccone o, peggio ancora, una cavia da laboratorio.
 Finora ci sono stati tutti molto vicini, sono stati amichevoli e ci hanno aiutato in tutti i modi, quindi esiste la possibilità che Elliot non sia in pericolo e che, anzi, sia capitato nel posto giusto, ma credo che lo scopriremo solo stasera. Una riunione con tutti gli anziani del villaggio. Suona molto serio come avvenimento. Sarà un problema perché dubito fortemente di riuscire a mantenere la serietà e l'obiettività di cui avrò bisogno. Non che abbia problemi a parlare in pubblico, di solito quando parlo la gente mi ascolta attenta e in silenzio, ma di solito non c'è Kaila al mio fianco.