venerdì 29 ottobre 2010

Elliot

L'orologio da tavolo lampeggiava furiosamente sulle 04:21. Gridava a più non posso che da più di quattro ore la luce era saltata, ma nessuno sembrava darle ascolto, così, infastidito e stanco di essere trascurato, si spense. Di nuovo. Era successo di nuovo. E come ogni volta, dopo i soliti tre minuti, scattò l'allarme anti-incendio.

Elliot quasi cadde dal letto per lo spavento. Doveva esserci abituato ormai, succedeva anche due o tre volte a settimana, ma non era certo il miglior modo di iniziare la giornata quello di essere svegliato da una sirena strampalata che, col suo motivetto allegro comunicava al mondo intero l'incapacità del padre o quantomeno la sua totale mancanza di rispetto per il sonno altrui.
Dopo alcuni secondi di sbandamento nei quali cercò disperatamente di aggrapparsi a quell'ultimo barlume di sonno che gli stava scivolando via dagli occhi, decise di alzarsi.
Solitamente quando scatta un allarme anti-incendio, la gente corre in strada, arrabattando più cose possibili lungo la via nella speranza di salvare qualche cimelio di famiglia dalle fiamme che si presume stiano divampando da qualche parte in casa. In un certo senso la tradizione era rispettata anche in casa di Elliot. Sua madre infatti, ogni volta che sentiva scattare l'allarme, come un automa scattava in piedi, arrabattava i primi vestiti che riusciva a trovare nell'armadio tenendo ancora gli occhi chiusi, li indossava sopra il pigiama e scattava fuori di casa come un fulmine, pronta per accogliere il vicinato che, per l'ennesima volta, era stato buttato giù dal letto ad orari improbabili e veniva a proporre le proprie rimostranze.
Questa mattina non fu diversa dalle altre, con l'unica differenza che Anna, la madre di Elliot, indossava un tailleur marrone, uno di quelli belli, con la camicia giallo canarino che aveva comprato la scorsa stagione durante il periodo dei saldi. Aveva la borsa a tracolla. Non c'era mai tempo per prendere la borsa, figuriamoci se poteva correre fuori casa con i tacchi.
Elliot cercò sul comodino gli occhiali. Qualcosa lo agitava e non aveva ancora afferrato cosa. Nonostante si svegliasse in quella maniera da sempre, non riusciva mai ad abituarsi. Trovò gli occhiali tra un portapenne e la lampada da tavolo che, evidentemente, stava tenendo una discussione molto accesa con le sue lenti e non sembrava assolutamente intenzionata a lasciarle andare perché, nel momento in cui riuscì ad inforcare gli occhiali, la prima cosa che il ragazzo riuscì a distinguere fu la lampada che si schiantava a terra trasformando il pavimento in un insieme di luccicanti vetri. Luccicanti. C'era qualcosa che non tornava e non riusciva ad identificare cosa.
Si strofinò la faccia per svegliarsi meglio e si avvicinò di nuovo alla finestra giusto in tempo per vedere la madre salire sulla sua berlina giallo canarino, accendere il motore ed andarsene.
Non c'erano vicini da accogliere, non c'erano scuse da porgere, non c'era il benché minimo interesse per la sirena scattata per l'ennesima volta. La gente camminava lungo il viale semplicemente ignorando quello che accadeva in casa sua.
Il perché di tutta quella gente in strada sembrava un mistero incomprensibile. E sua madre, dove se ne andava in giro a quell'ora del mattino? E da dove veniva tutta quella luce?

L' intuizione fu come una doccia gelata, una di quelle che ti fanno penetrare il freddo fin dentro le ossa. Corse giù per le scale evitando per poco uno dei giocattoli del fratellino, non si fermò neanche quando andò ad impattare contro il divano in mezzo al soggiorno. Fece una capriola degna di un campione olimpico sui morbidi cuscini color giallo canarino che la madre aveva da poco spiumacciato e continuò la sua folle corsa fino ad arrivare alla porta del garage. Entrò, o meglio, irruppe nel garage col fiato corto e, con quel poco di aria rimastagli nei polmoni, gridò "Che ore sono?".
"Buon giorno anche a te, tesoro" gli rispose il padre, anche lui vestito di tutto punto. Si stava sistemando la cravatta sotto il gilet giallo canarino che gli aveva regalato la madre lo scorso natale. Anna aveva una sorta di ossessione per il giallo canarino, tutto in casa o era di quel colore o era bianco. Orribile, ma dopo 15 anni ci si faceva l'abitudine, e Elliot i quindici anni li aveva compiuti da poco, pertanto si era ufficialmente abituato. "Scusami per il trambusto di poco fa, stavo finendo di sistemare questo maledetto circuito, quando una scarica di corrente ha fatto scattare l'allarme".
"Che ore sono?" ripeté Elliot che finalmente aveva recuperato l'uso della trachea iniziando però a perdere quello della pazienza. Il padre si guardò l'orologio da polso. Aveva avuto il tempo di mettersi anche quello. Di solito era un evento straordinario vederlo con qualcosa di diverso dalla sua tuta, e ora invece indossava gli abiti 'seri', quelli che si mettono solo per andare in ufficio o a cena fuori. Aveva persino l'orologio da polso, doveva essere proprio tardi.
"Sono le 9:32", batté due colpi sul quadrante e lo portò all'orecchio, lo agitò un po' e poi confermò "Si, sono le 9:32, ma tu non dovresti essere già a scuola?"
Elliot sapeva benissimo dove sarebbe dovuto essere a quell'ora, quindi non perse tempo ad aspettare la fine del discorso e scattò su per le scale, indossò le prime due cose che trovò nell'armadio e scappò via. Edward, il suo adorato fratellino, uscì dalla sua stanza giusto in tempo per vedere Elliot che saltellava per le scale cercando con una mano di infilarsi una scarpa e con l'altra di passarsi lo spazzolino da denti in bocca. Cadde.
Edward andò a recuperare il modellino di autotreno sul quale era inciampato il fratello ridendo come non mai per il buffo spettacolo al quale aveva appena assistito, molto più divertente di quello che di solito metteva in scena la madre. Ripreso il giocattolo se ne tornò a dormire in camera giusto in tempo per evitare la carica di Elliot che ritornava nella sua stanza tutto trafelato. Aveva dimenticato lo zaino.

Mentre sfrecciava per le strade del quartiere verso la scuola sulla sua bicicletta, pensava tra sé e sé che prima o poi avrebbe dovuto ammazzarlo il padre, non del tutto, quel tanto che bastava per impedirgli di stravolgergli la vita. Se lo appuntò a mente, magari lo avrebbe affrontato quella sera stessa, o magari l'indomani, o forse non lo avrebbe fatto per nulla. Dopotutto era divertente correre in bicicletta con ancora il toast al formaggio stretto fra i denti. Dopotutto non c'era mai da annoiarsi in casa sua. Dopotutto aveva una scusa plausibile per saltare l'interrogazione di storia.
Forse quel pomeriggio sarebbe uscito a comprare un regalo al padre per ringraziarlo.
La scuola iniziò a materializzarsi che Elliot ancora non aveva finito di fare la sua eccentrica colazione. Dapprima vide i piani alti, con le finestre piccole incastonate in un assurdo muro di colore rosa, spuntava da sopra il dosso che stava risalendo, poi iniziò a intravvedere gli alberi di castagno che circondavano il giardino, infine vide il cancello, di metallo verde, con le sbarre che si contorcevano sinuosamente per disegnare un leone con le ali, simbolo della loro scuola. L'istituto McFrancis.
Il custode stava chiudendo il cancello. Succedeva ogni giorno alle dieci in punto, ovvero quando non era più possibile entrare, dopodiché chiunque non si fosse presentato accompagnato da un genitore sarebbe stato rispedito a casa. Non oggi, non proprio quando doveva presentare il suo progetto di scienze, non dopo tutto il lavoro che aveva fatto. Accelerò più che poté, pigiò sui pedali con tutta la foga che aveva in corpo, si sollevò anche dalla sella per darsi una spinta maggiore. Si infilò nel cancello proprio mentre si stava per chiudere, mandando a gambe all'aria quel pover'uomo del custode che gli lanciò dietro tutte le maledizioni che gli vennero in mente, qualcuna la inventò lì sul momento, una più pittoresca dell'altra.
Avrebbe dovuto subirsi una bella predica dalla preside per il ritardo, ma ce l'aveva fatta, era arrivato in tempo, avrebbe avuto il suo foglio di ritardo firmato e si sarebbe andato a preparare per l'esposizione nell'aula di scienze.

"Di nuovo in ritardo, Summer?" la voce investì Elliot come un autotreno, ma uno di quelli reali, non come i modellini di Edward. Il sorriso scomparve dalle sue labbra, era Mallory, il bulletto della scuola. Tutte le scuole ne avevano uno, anzi, di solito ne avevano più d'uno. Loro avevano solo Mallory, ma valeva per dieci. Capitano della squadra di basket e cintura marrone di Karate. Amava ripeterglielo ogni volta che voleva rubargli i soldi per il pranzo o lo rinchiudeva in bagno per 'rifargli il capello'. Elliot aveva seri dubbi sulle competenze da acconciatore che si attribuiva l'altro, ma ogni volta che si ritrovava a testa in giù sul water si guardava bene dall'esporgli tali perplessità. Questa non ci voleva, poteva essere una giornata perfetta, invece c'era Mallory. C'era sempre Mallory. Il moscerino caduto nella zuppa di fagioli che altrimenti sarebbe squisita, ecco cos'era Mallory. La gramigna che infestava uno splendido giardino di rose. Tu provi ad evitarla, strapparla, soffocarla, ma quella rispunta fuori sempre più forte e ti distrugge il tuo bel giardino. Maledetto.
Elliot si voltò a guardare, magari era qualcuno che per fargli uno scherzo ne aveva imitato la voce. Già perché ogni bullo deve avere la sua vittima prediletta, e lui era quella di Mallory. Non certo un motivo di vanto, e per questo i suoi compagni lo prendevano in giro. Aveva un padre idiota, portava gli occhiali, era il classico secchione, e per cosa lo prendevano in giro? Per via del suo rapporto con il più simpatico e amichevole bulletto di quartiere.
Mallory era come al solito con i suoi due scagnozzi, Coso e Cosetto, così li chiamava. Elliot era sicuro che avessero un nome proprio, ma dubitava avessero un intelletto talmente evoluto da saperlo pronunciare. Dopotutto erano arrivati in seconda classe solo perché, dopo tre anni di militanza in prima, la professoressa era talmente disperata che pur di levarseli di torno decise di promuoverli.
"Non ho tempo ora, devo andare in classe" provò a dire, ma se ne pentì subito. Non si può negare ad un bullo l'immenso piacere di punzecchiare un po' le sue vittime. Per un lungo istante pensò se fosse il caso di chiedere scusa per la sua insolenza, ma poi suonò la campanella. L'amica campanella. Non come quella che lo aveva svegliato la mattina, no, l'amorevole e compassionevole campanella che segnava la fine della seconda ora e che avrebbe portato centinaia di studenti a riversarsi nei corridoi fornendo ad Elliot il diversivo necessario per liberarsi da quella fastidiosa situazione. L'ultima cosa che vide mentre si infilava nell'aula di scienze erano i volti sperduti di Coso e Cosetto che si guardavano in giro per cercare di capire da dove venisse quel suono. Due veri geni, non c'è che dire.

Il professor Stevens era già in aula, era appoggiato alla cattedra intento a leggere dei fogli. Il suo compito, la sua relazione. "Ottimo lavoro, come sempre, non vedo l'ora di assistere alla tua presentazione". Elliot aveva preparato un modellino di una casa alimentata con energie alternative e ne avrebbe elogiato davanti alla classe il risparmio economico che si sarebbe potuto avere con una casa del genere e l'impatto positivo che questa avrebbe avuto sull'ambiente. In realtà si era limitato a copiare quella che era casa sua. Suo padre era quello fissato con l'ecologia, o meglio, era fissato con le invenzioni elettroniche, se poi questo portava un vantaggio per la natura, tanto di guadagnato. Aveva passato le ultime due settimane a cercare di decifrare gli appunti del padre, si era anche fatto dare le planimetrie di casa dal catasto, ma quando aveva visto che ormai non corrispondevano a quella che era realmente casa sua, le restituì facendo finta di non averle mai prese. Aveva infine realizzato un plastico che riproduceva perfettamente quella serie di accrocchi meccanici ed elettrici che il suo papà si ostinava a chiamare invenzioni. Ora lo avrebbe presentato davanti ai suoi compagni che lo avrebbero guardato ammirati e acclamato come l'eroe dei nostri tempi. Le manie di grandezza doveva averle ereditate dal nonno. Forse ai suoi tempi la gente acclamava i compagni di classe, al giorno d'oggi però era ormai una pratica in disuso, ma a Elliot piaceva vagare con la fantasia e illudersi di essere speciale.

La sua esposizione alla classe durò circa venti minuti, elogiò le proprietà del fotovoltaico, decantò le magnificenze del riciclaggio e si entusiasmò parlando delle fosse biologiche. In cambio ne ricevette solo sbadigli e sguardi noncuranti. Un paio di ragazze dal fondo della classe parlottavano e sghignazzavano tra di loro sfogliando una rivista, un altro compagno batteva febbrilmente i tasti del suo cellulare per scrivere un messaggio, solo una persona aveva lo sguardo fisso nei suoi occhi, attenta e vigile, pronta a cogliere il più piccolo errore o imprecisione. Era Lara, coi suo occhialetti un po' larghi che le scendevano sul naso e che puntualmente prima di parlare si aggiustava col dito. Si sistemò in una coda la sua folta chioma di ricci castani, era pronta a parlare, era pronta ad attaccare, era pronta a stroncarlo.
Alzò una mano per chiedere parola nell'istante stesso in cui Elliot stava rimettendo via i suoi appunti. Una vera e propria dichiarazione di guerra non c'era mai stata tra di loro, ma da sempre si contendevano il ruolo del più secchione e sfigato della scuola. Elliot era in vantaggio per via dei pestaggi che subiva regolarmente, ma anche Lara si difendeva bene grazie agli scherzi che le facevano le altre ragazze. I due non si potevano vedere, e la soddisfazione dell'una era screditare l'intelligenza dell'altro. Due amici modello.
Non appena il professore le diede parola si alzò in piedi ed iniziò a sciorinare numeri, studi e pubblicazioni che integravano, quando non demolivano, quello che Elliot aveva faticosamente raccolto nel suo lavoro. La classe era un coro di risolini sommessi e ghigni malcelati, perché se è vero che le scienze non destano mai l'attenzione di nessuno, l'umiliazione pubblica di un compagno di classe è roba da prima pagina.
Alla fine della sua esposizione Lara sorrise dolcemente al professore e lo ringraziò per il tempo concessole, si sedette, alzò il suo sguardo verso Elliot, e tutto il suo trionfo e il suo odio si riversarono nella mente del ragazzo, che non poté fare altro se non massaggiarsi le tempie e avviarsi mestamente verso il suo posto. Sconfitto per l'ennesima volta.

Riuscì ad evitare Mallory per tutto il giorno, ma non le parole di scherno per la sua recente figuraccia, che lo accompagnarono ad ogni cambio dell'ora. A volte girava un angolo e vedeva un paio di compagni di classe che improvvisamente smettevano di parlare con altri ragazzi, oppure sentiva inconfondibili le risatine del gruppetto di ragazze che avevano finalmente trovato qualcosa di interessante da raccontare su una lezione di scienze. Ad ogni passo si sentiva sempre più ridicolo, e poi c'era lei, lei con cui divideva ogni corso, che frequentava tutte le sue classi e che non mancava di esibire il suo ghigno trionfante ogni volta che si incontravano. Lei lo salatuva. Lui le augurava una paralisi. Poi però puntualmente abbassava lo sguardo e rispondeva al saluto con un cenno della testa. Prima o poi doveva sbagliare, e lui sarebbe stato lì, magari con tanto di videocamera per riprenderla. La sua vendetta l'avrebbe gustata fredda, e di quel passo sarebbe stata di certo gelida. In due anni che frequentava quella scuola non era mai riuscito a coglierla in fallo. Lei, bella e trionfante, non aveva mai sbagliato. Maledetta.
Elliot accolse con sollievo il suono dell'ultima campanella. Finalmente era finita. In silenzio si diresse verso la classe di storia ad aspettare il suo amico Peter, con lui avrebbe fatto la strada per tornare a casa, e lui come sempre l'avrebbe consolato, come sempre l'avrebbe incoraggiato, come sempre l'avrebbe stracciato ai videogiochi. Peter, l'amico insostituibile, quello che c'era sempre, tranne ovviamente quando compariva Mallory, allora si dileguava. A volte Elliot si ritrovò a chiedersi se Peter e Mallory non fossero la stessa persona. Due facce della stessa medaglia. Dr. Jekill e Mr. Hide o, per essere più precisi, Bruce Banner e Hulk il verdastro. Quando c'era uno non c'era l'altro e viceversa. Maledetto.
Andarono a riprendere le biciclette ma, quando Elliot fece per togliere la catena che la legava alla rastrelliera, notò che la ruota posteriore era completamente squarciata. Evidentemente Mallory non aveva mandato giù la sua fuga mattutina, o forse il custode aveva deciso di passare dalle maledizioni ai fatti. Cos'altro poteva andare storto in quella giornata perfetta. Passò Lara che lo salutò "Bella esposizione oggi a scienze, peccato fosse così lacunosa". La stilettata finale. Bofonchiò qualcosa e si girò verso Peter.
Si caricò la bicicletta in spalla e si diresse verso casa dell'amico, doveva riparare la ruota prima di tornare a casa, altrimenti si sarebbe trovato a dover dare più spiegazioni del necessario. Tra sé e sé maledisse quella stramaledetta sirena ad ogni passo, se non avesse suonato sarebbe rimasto a casa tutto il giorno a fare nulla. Decisamente non sarebbe passato a comprare un regalo per il padre.


3 commenti:

  1. Bello! Sarà xkè prendo sempre in simpatia gli sfigati o i secchioni nelle storie....
    Nadia =)
    P.S.: Marco, grazie x aver commentato con una faccina, la stirpe delle smile deve continuare!!!! ;)
    ah, e Maya, quanto segue è per te!!! =) =) =) =)

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  2. E gli occhialuti, soprattutto gli occhialuti!
    W gli occhiali!!!!!!!!!!!!
    Nadia =)

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  3. w gli occhialuti, con le lentiggini e l'apparecchio, con 1 malloppo di libri sulla spalla...sono i migliori! Ma questo qua maledice tutto??? Nadia, ti faccio fuori il 1° giorno di scuola se non la pianti con le faccine...troverò l'arma contraria: le stelline. *******
    Cmnq è bellissimo. Dimmi un po'...Coso e Cosetto non saranno mica OGMM e OGMM Junior??? *********************************
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    * Maya *

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