venerdì 29 ottobre 2010

A proposito di Elliot

Elliot è stato uno dei primi personaggi di cui ho scritto, non il primissimo, quanto meno il primo degno di nota.
All'età di quindici anni mi ero messo in testa di scrivere un racconto in cui non si venisse a conoscere il nome della protagonista fino alla fine della storia ma, non essendo io Chuck Palaniuck, fallii miseramente nell'impresa.
Più in la con gli anni, ne avevo già 18, mi venne in mente una storia, molto carina, molto fantasy, i cui protagonisti erano gli stessi della storia precedente: Elliot in primis, ma anche Lara, Peter e Mallory. Iniziai a scrivere di loro nella speranza che ne uscisse qualcosa di carino ma, per prima cosa, mi fissai sull'idea che il tutto doveva essere narrato in prima persona da Elliot, pessima idea: i racconti in prima persona sono divertenti se inseriti qua e la nella storia, fungono da approfondimento del personaggio, ma usarla per tutto il libro era un po' pesante. Soprattutto mi trovai in difficoltà quando dovevo parlare delle vicende degli altri personaggi in assenza di Elliot.
In secondo luogo non funzionava perchè ero un principiante che, a parte qualche idea carina, non aveva gran dimestichezza con l'italiano ne con i tempi comici.
Però quella storia è sempre rimasta nella mia testa a vagare e a formarsi. Sostanzialmente era la storia di questi quattro personaggi che per buffe vicende legate ad un portale finivano in una sorta di dimensione parallela molto fantasy.... vi dice niente?
Quale storia migliore di questa poteva essere riadattata all'universo creato da Jonah?
D'altra parte non sarà il massimo dell'originalità, a tutti gli scrittori fa gola l'idea di un personaggio ordinario in un contesto straordinario. Dalle Cronache di Narnia alla saga di Harry Potter direi che questo sentiero è stato battuto in lungo e in largo.
Alla fine il fantasy è semplice, ci sono degli elementi, delle regole da seguire, c'è un buono, un cattivo, una battaglia e tutti vissero e felici e contenti (o quasi)
Quello che fa veramente la differenza alla fine sono i personaggi, le loro storie e le loro relazioni interpersonali.
Ci tengo a precisare che effettivamente in questa storia avverrà il passaggio tra un mondo e l'altro come preventivato da Jonah, ma non è l'unica soluzione che questo universo ci pone davanti. Tante storie potranno essere ambientate in uno solo dei due mondi, e intendo farlo.
Come dice anche Jonah, tutti i sigilli in qualche modo "perdono" e magari a volte un po' di magia può arrivare nel mondo puramente razionale della scienza. E beh, per quanto riguarda il mondo fantasy c'è sempre qualcosa da raccontare di interessante.
Detto questo, buona lettura per i prossimi capitoli.


Elliot

L'orologio da tavolo lampeggiava furiosamente sulle 04:21. Gridava a più non posso che da più di quattro ore la luce era saltata, ma nessuno sembrava darle ascolto, così, infastidito e stanco di essere trascurato, si spense. Di nuovo. Era successo di nuovo. E come ogni volta, dopo i soliti tre minuti, scattò l'allarme anti-incendio.

Elliot quasi cadde dal letto per lo spavento. Doveva esserci abituato ormai, succedeva anche due o tre volte a settimana, ma non era certo il miglior modo di iniziare la giornata quello di essere svegliato da una sirena strampalata che, col suo motivetto allegro comunicava al mondo intero l'incapacità del padre o quantomeno la sua totale mancanza di rispetto per il sonno altrui.
Dopo alcuni secondi di sbandamento nei quali cercò disperatamente di aggrapparsi a quell'ultimo barlume di sonno che gli stava scivolando via dagli occhi, decise di alzarsi.
Solitamente quando scatta un allarme anti-incendio, la gente corre in strada, arrabattando più cose possibili lungo la via nella speranza di salvare qualche cimelio di famiglia dalle fiamme che si presume stiano divampando da qualche parte in casa. In un certo senso la tradizione era rispettata anche in casa di Elliot. Sua madre infatti, ogni volta che sentiva scattare l'allarme, come un automa scattava in piedi, arrabattava i primi vestiti che riusciva a trovare nell'armadio tenendo ancora gli occhi chiusi, li indossava sopra il pigiama e scattava fuori di casa come un fulmine, pronta per accogliere il vicinato che, per l'ennesima volta, era stato buttato giù dal letto ad orari improbabili e veniva a proporre le proprie rimostranze.
Questa mattina non fu diversa dalle altre, con l'unica differenza che Anna, la madre di Elliot, indossava un tailleur marrone, uno di quelli belli, con la camicia giallo canarino che aveva comprato la scorsa stagione durante il periodo dei saldi. Aveva la borsa a tracolla. Non c'era mai tempo per prendere la borsa, figuriamoci se poteva correre fuori casa con i tacchi.
Elliot cercò sul comodino gli occhiali. Qualcosa lo agitava e non aveva ancora afferrato cosa. Nonostante si svegliasse in quella maniera da sempre, non riusciva mai ad abituarsi. Trovò gli occhiali tra un portapenne e la lampada da tavolo che, evidentemente, stava tenendo una discussione molto accesa con le sue lenti e non sembrava assolutamente intenzionata a lasciarle andare perché, nel momento in cui riuscì ad inforcare gli occhiali, la prima cosa che il ragazzo riuscì a distinguere fu la lampada che si schiantava a terra trasformando il pavimento in un insieme di luccicanti vetri. Luccicanti. C'era qualcosa che non tornava e non riusciva ad identificare cosa.
Si strofinò la faccia per svegliarsi meglio e si avvicinò di nuovo alla finestra giusto in tempo per vedere la madre salire sulla sua berlina giallo canarino, accendere il motore ed andarsene.
Non c'erano vicini da accogliere, non c'erano scuse da porgere, non c'era il benché minimo interesse per la sirena scattata per l'ennesima volta. La gente camminava lungo il viale semplicemente ignorando quello che accadeva in casa sua.
Il perché di tutta quella gente in strada sembrava un mistero incomprensibile. E sua madre, dove se ne andava in giro a quell'ora del mattino? E da dove veniva tutta quella luce?

L' intuizione fu come una doccia gelata, una di quelle che ti fanno penetrare il freddo fin dentro le ossa. Corse giù per le scale evitando per poco uno dei giocattoli del fratellino, non si fermò neanche quando andò ad impattare contro il divano in mezzo al soggiorno. Fece una capriola degna di un campione olimpico sui morbidi cuscini color giallo canarino che la madre aveva da poco spiumacciato e continuò la sua folle corsa fino ad arrivare alla porta del garage. Entrò, o meglio, irruppe nel garage col fiato corto e, con quel poco di aria rimastagli nei polmoni, gridò "Che ore sono?".
"Buon giorno anche a te, tesoro" gli rispose il padre, anche lui vestito di tutto punto. Si stava sistemando la cravatta sotto il gilet giallo canarino che gli aveva regalato la madre lo scorso natale. Anna aveva una sorta di ossessione per il giallo canarino, tutto in casa o era di quel colore o era bianco. Orribile, ma dopo 15 anni ci si faceva l'abitudine, e Elliot i quindici anni li aveva compiuti da poco, pertanto si era ufficialmente abituato. "Scusami per il trambusto di poco fa, stavo finendo di sistemare questo maledetto circuito, quando una scarica di corrente ha fatto scattare l'allarme".
"Che ore sono?" ripeté Elliot che finalmente aveva recuperato l'uso della trachea iniziando però a perdere quello della pazienza. Il padre si guardò l'orologio da polso. Aveva avuto il tempo di mettersi anche quello. Di solito era un evento straordinario vederlo con qualcosa di diverso dalla sua tuta, e ora invece indossava gli abiti 'seri', quelli che si mettono solo per andare in ufficio o a cena fuori. Aveva persino l'orologio da polso, doveva essere proprio tardi.
"Sono le 9:32", batté due colpi sul quadrante e lo portò all'orecchio, lo agitò un po' e poi confermò "Si, sono le 9:32, ma tu non dovresti essere già a scuola?"
Elliot sapeva benissimo dove sarebbe dovuto essere a quell'ora, quindi non perse tempo ad aspettare la fine del discorso e scattò su per le scale, indossò le prime due cose che trovò nell'armadio e scappò via. Edward, il suo adorato fratellino, uscì dalla sua stanza giusto in tempo per vedere Elliot che saltellava per le scale cercando con una mano di infilarsi una scarpa e con l'altra di passarsi lo spazzolino da denti in bocca. Cadde.
Edward andò a recuperare il modellino di autotreno sul quale era inciampato il fratello ridendo come non mai per il buffo spettacolo al quale aveva appena assistito, molto più divertente di quello che di solito metteva in scena la madre. Ripreso il giocattolo se ne tornò a dormire in camera giusto in tempo per evitare la carica di Elliot che ritornava nella sua stanza tutto trafelato. Aveva dimenticato lo zaino.

Mentre sfrecciava per le strade del quartiere verso la scuola sulla sua bicicletta, pensava tra sé e sé che prima o poi avrebbe dovuto ammazzarlo il padre, non del tutto, quel tanto che bastava per impedirgli di stravolgergli la vita. Se lo appuntò a mente, magari lo avrebbe affrontato quella sera stessa, o magari l'indomani, o forse non lo avrebbe fatto per nulla. Dopotutto era divertente correre in bicicletta con ancora il toast al formaggio stretto fra i denti. Dopotutto non c'era mai da annoiarsi in casa sua. Dopotutto aveva una scusa plausibile per saltare l'interrogazione di storia.
Forse quel pomeriggio sarebbe uscito a comprare un regalo al padre per ringraziarlo.
La scuola iniziò a materializzarsi che Elliot ancora non aveva finito di fare la sua eccentrica colazione. Dapprima vide i piani alti, con le finestre piccole incastonate in un assurdo muro di colore rosa, spuntava da sopra il dosso che stava risalendo, poi iniziò a intravvedere gli alberi di castagno che circondavano il giardino, infine vide il cancello, di metallo verde, con le sbarre che si contorcevano sinuosamente per disegnare un leone con le ali, simbolo della loro scuola. L'istituto McFrancis.
Il custode stava chiudendo il cancello. Succedeva ogni giorno alle dieci in punto, ovvero quando non era più possibile entrare, dopodiché chiunque non si fosse presentato accompagnato da un genitore sarebbe stato rispedito a casa. Non oggi, non proprio quando doveva presentare il suo progetto di scienze, non dopo tutto il lavoro che aveva fatto. Accelerò più che poté, pigiò sui pedali con tutta la foga che aveva in corpo, si sollevò anche dalla sella per darsi una spinta maggiore. Si infilò nel cancello proprio mentre si stava per chiudere, mandando a gambe all'aria quel pover'uomo del custode che gli lanciò dietro tutte le maledizioni che gli vennero in mente, qualcuna la inventò lì sul momento, una più pittoresca dell'altra.
Avrebbe dovuto subirsi una bella predica dalla preside per il ritardo, ma ce l'aveva fatta, era arrivato in tempo, avrebbe avuto il suo foglio di ritardo firmato e si sarebbe andato a preparare per l'esposizione nell'aula di scienze.

"Di nuovo in ritardo, Summer?" la voce investì Elliot come un autotreno, ma uno di quelli reali, non come i modellini di Edward. Il sorriso scomparve dalle sue labbra, era Mallory, il bulletto della scuola. Tutte le scuole ne avevano uno, anzi, di solito ne avevano più d'uno. Loro avevano solo Mallory, ma valeva per dieci. Capitano della squadra di basket e cintura marrone di Karate. Amava ripeterglielo ogni volta che voleva rubargli i soldi per il pranzo o lo rinchiudeva in bagno per 'rifargli il capello'. Elliot aveva seri dubbi sulle competenze da acconciatore che si attribuiva l'altro, ma ogni volta che si ritrovava a testa in giù sul water si guardava bene dall'esporgli tali perplessità. Questa non ci voleva, poteva essere una giornata perfetta, invece c'era Mallory. C'era sempre Mallory. Il moscerino caduto nella zuppa di fagioli che altrimenti sarebbe squisita, ecco cos'era Mallory. La gramigna che infestava uno splendido giardino di rose. Tu provi ad evitarla, strapparla, soffocarla, ma quella rispunta fuori sempre più forte e ti distrugge il tuo bel giardino. Maledetto.
Elliot si voltò a guardare, magari era qualcuno che per fargli uno scherzo ne aveva imitato la voce. Già perché ogni bullo deve avere la sua vittima prediletta, e lui era quella di Mallory. Non certo un motivo di vanto, e per questo i suoi compagni lo prendevano in giro. Aveva un padre idiota, portava gli occhiali, era il classico secchione, e per cosa lo prendevano in giro? Per via del suo rapporto con il più simpatico e amichevole bulletto di quartiere.
Mallory era come al solito con i suoi due scagnozzi, Coso e Cosetto, così li chiamava. Elliot era sicuro che avessero un nome proprio, ma dubitava avessero un intelletto talmente evoluto da saperlo pronunciare. Dopotutto erano arrivati in seconda classe solo perché, dopo tre anni di militanza in prima, la professoressa era talmente disperata che pur di levarseli di torno decise di promuoverli.
"Non ho tempo ora, devo andare in classe" provò a dire, ma se ne pentì subito. Non si può negare ad un bullo l'immenso piacere di punzecchiare un po' le sue vittime. Per un lungo istante pensò se fosse il caso di chiedere scusa per la sua insolenza, ma poi suonò la campanella. L'amica campanella. Non come quella che lo aveva svegliato la mattina, no, l'amorevole e compassionevole campanella che segnava la fine della seconda ora e che avrebbe portato centinaia di studenti a riversarsi nei corridoi fornendo ad Elliot il diversivo necessario per liberarsi da quella fastidiosa situazione. L'ultima cosa che vide mentre si infilava nell'aula di scienze erano i volti sperduti di Coso e Cosetto che si guardavano in giro per cercare di capire da dove venisse quel suono. Due veri geni, non c'è che dire.

Il professor Stevens era già in aula, era appoggiato alla cattedra intento a leggere dei fogli. Il suo compito, la sua relazione. "Ottimo lavoro, come sempre, non vedo l'ora di assistere alla tua presentazione". Elliot aveva preparato un modellino di una casa alimentata con energie alternative e ne avrebbe elogiato davanti alla classe il risparmio economico che si sarebbe potuto avere con una casa del genere e l'impatto positivo che questa avrebbe avuto sull'ambiente. In realtà si era limitato a copiare quella che era casa sua. Suo padre era quello fissato con l'ecologia, o meglio, era fissato con le invenzioni elettroniche, se poi questo portava un vantaggio per la natura, tanto di guadagnato. Aveva passato le ultime due settimane a cercare di decifrare gli appunti del padre, si era anche fatto dare le planimetrie di casa dal catasto, ma quando aveva visto che ormai non corrispondevano a quella che era realmente casa sua, le restituì facendo finta di non averle mai prese. Aveva infine realizzato un plastico che riproduceva perfettamente quella serie di accrocchi meccanici ed elettrici che il suo papà si ostinava a chiamare invenzioni. Ora lo avrebbe presentato davanti ai suoi compagni che lo avrebbero guardato ammirati e acclamato come l'eroe dei nostri tempi. Le manie di grandezza doveva averle ereditate dal nonno. Forse ai suoi tempi la gente acclamava i compagni di classe, al giorno d'oggi però era ormai una pratica in disuso, ma a Elliot piaceva vagare con la fantasia e illudersi di essere speciale.

La sua esposizione alla classe durò circa venti minuti, elogiò le proprietà del fotovoltaico, decantò le magnificenze del riciclaggio e si entusiasmò parlando delle fosse biologiche. In cambio ne ricevette solo sbadigli e sguardi noncuranti. Un paio di ragazze dal fondo della classe parlottavano e sghignazzavano tra di loro sfogliando una rivista, un altro compagno batteva febbrilmente i tasti del suo cellulare per scrivere un messaggio, solo una persona aveva lo sguardo fisso nei suoi occhi, attenta e vigile, pronta a cogliere il più piccolo errore o imprecisione. Era Lara, coi suo occhialetti un po' larghi che le scendevano sul naso e che puntualmente prima di parlare si aggiustava col dito. Si sistemò in una coda la sua folta chioma di ricci castani, era pronta a parlare, era pronta ad attaccare, era pronta a stroncarlo.
Alzò una mano per chiedere parola nell'istante stesso in cui Elliot stava rimettendo via i suoi appunti. Una vera e propria dichiarazione di guerra non c'era mai stata tra di loro, ma da sempre si contendevano il ruolo del più secchione e sfigato della scuola. Elliot era in vantaggio per via dei pestaggi che subiva regolarmente, ma anche Lara si difendeva bene grazie agli scherzi che le facevano le altre ragazze. I due non si potevano vedere, e la soddisfazione dell'una era screditare l'intelligenza dell'altro. Due amici modello.
Non appena il professore le diede parola si alzò in piedi ed iniziò a sciorinare numeri, studi e pubblicazioni che integravano, quando non demolivano, quello che Elliot aveva faticosamente raccolto nel suo lavoro. La classe era un coro di risolini sommessi e ghigni malcelati, perché se è vero che le scienze non destano mai l'attenzione di nessuno, l'umiliazione pubblica di un compagno di classe è roba da prima pagina.
Alla fine della sua esposizione Lara sorrise dolcemente al professore e lo ringraziò per il tempo concessole, si sedette, alzò il suo sguardo verso Elliot, e tutto il suo trionfo e il suo odio si riversarono nella mente del ragazzo, che non poté fare altro se non massaggiarsi le tempie e avviarsi mestamente verso il suo posto. Sconfitto per l'ennesima volta.

Riuscì ad evitare Mallory per tutto il giorno, ma non le parole di scherno per la sua recente figuraccia, che lo accompagnarono ad ogni cambio dell'ora. A volte girava un angolo e vedeva un paio di compagni di classe che improvvisamente smettevano di parlare con altri ragazzi, oppure sentiva inconfondibili le risatine del gruppetto di ragazze che avevano finalmente trovato qualcosa di interessante da raccontare su una lezione di scienze. Ad ogni passo si sentiva sempre più ridicolo, e poi c'era lei, lei con cui divideva ogni corso, che frequentava tutte le sue classi e che non mancava di esibire il suo ghigno trionfante ogni volta che si incontravano. Lei lo salatuva. Lui le augurava una paralisi. Poi però puntualmente abbassava lo sguardo e rispondeva al saluto con un cenno della testa. Prima o poi doveva sbagliare, e lui sarebbe stato lì, magari con tanto di videocamera per riprenderla. La sua vendetta l'avrebbe gustata fredda, e di quel passo sarebbe stata di certo gelida. In due anni che frequentava quella scuola non era mai riuscito a coglierla in fallo. Lei, bella e trionfante, non aveva mai sbagliato. Maledetta.
Elliot accolse con sollievo il suono dell'ultima campanella. Finalmente era finita. In silenzio si diresse verso la classe di storia ad aspettare il suo amico Peter, con lui avrebbe fatto la strada per tornare a casa, e lui come sempre l'avrebbe consolato, come sempre l'avrebbe incoraggiato, come sempre l'avrebbe stracciato ai videogiochi. Peter, l'amico insostituibile, quello che c'era sempre, tranne ovviamente quando compariva Mallory, allora si dileguava. A volte Elliot si ritrovò a chiedersi se Peter e Mallory non fossero la stessa persona. Due facce della stessa medaglia. Dr. Jekill e Mr. Hide o, per essere più precisi, Bruce Banner e Hulk il verdastro. Quando c'era uno non c'era l'altro e viceversa. Maledetto.
Andarono a riprendere le biciclette ma, quando Elliot fece per togliere la catena che la legava alla rastrelliera, notò che la ruota posteriore era completamente squarciata. Evidentemente Mallory non aveva mandato giù la sua fuga mattutina, o forse il custode aveva deciso di passare dalle maledizioni ai fatti. Cos'altro poteva andare storto in quella giornata perfetta. Passò Lara che lo salutò "Bella esposizione oggi a scienze, peccato fosse così lacunosa". La stilettata finale. Bofonchiò qualcosa e si girò verso Peter.
Si caricò la bicicletta in spalla e si diresse verso casa dell'amico, doveva riparare la ruota prima di tornare a casa, altrimenti si sarebbe trovato a dover dare più spiegazioni del necessario. Tra sé e sé maledisse quella stramaledetta sirena ad ogni passo, se non avesse suonato sarebbe rimasto a casa tutto il giorno a fare nulla. Decisamente non sarebbe passato a comprare un regalo per il padre.


martedì 26 ottobre 2010

Precisazione

I due post intitolati Il Sigillo sono pensati non per raccontare una storia, bensì per fare da prologo a qualcosa di più grande, una sorta di introduzione all'universo all'interno del quale ambienterò le mie narrazioni.
Quindi se ho liquidato l'argomento abbastanza in fretta, non è perché non avessi nulla da dire, ma perché vorrei riservarmelo per il futuro.
Le prossime storie saranno ambientate in un futuro molto remoto rispetto alle vicende di Jonah, ma non escludo un giorno di ritornare a ritroso e scrivere un 'prequel', magari riprendendo la vicenda della Guerra delle Stirpi e dei suoi protagonisti, Jonah compreso.


lunedì 25 ottobre 2010

Il Sigillo - Parte 2

I primi raggi di sole iniziarono a filtrare attraverso gli innumerevoli fori che le tarme avevano gentilmente ricamato sulle pesanti tende di velluto viola che coprivano le finestre. La luce disegnava un complesso arabesco di punti sulle varie superfici della stanza la quale un tempo aveva ospitato re e regine provenienti da tutto il mondo, ma che ormai era diventata poco più di un ripostiglio per pergamene, quelle meno importanti, gli almanacchi del vecchio mondo che nessuno ormai consultava più.
Il pesante tavolo di mogano che copriva la maggior parte del suolo calpestabile della Sala degli Almanacchi era un vero campo di battaglia, dove la polvere teneva sotto assedio le popolazioni indigene composte da libri, rotoli e lettere ammassate qua e la in ordine sparso. Torri di volumi rilegati in pelle si ergevano autoritarie all'interno di roccaforti di raccoglitori ormai svuotati, diventati la tana di qualche esule scarafaggio o di qualche scolopendra rinnegata.
L'assedio della polvere andava avanti da circa vent'anni, ovvero da quando si era deciso di epurare la Biblioteca del Consiglio da tutti quei libri che non fossero considerati utili, provvedendo a sostituirli con i ben più richiesti volumi di magia e di meccanica. Questi ultimi erano sicuramente più adatti alla formazione delle prossime generazioni di stregoni e cavalieri che avrebbero difeso il regno della Stirpe di Hoen. In guerra non era considerato molto importante saper cucinare un polpettone perfetto o sferruzzare i merletti all'uncinetto. Bisognava conoscere magie oscure, costruire marchingegni potenti da usare come armi. Non era poi così grave se a sera la minestra di legumi era troppo asciutta e poco speziata, l'importante era avere le nozioni utili ad arrivarci tutti interi all'ora di cena.
Così si era fatta una cernita e si era deciso di suddividere i libri considerati superflui in diverse categorie. Categorie senza nomi, ma con diversi gradi di inutilità. Quelli più inutili come le ballate e le filastrocche erano finite diritte al macero, così da poter essere riciclate per poter stampare nuovi libri 'utili', gli altri erano stati o regalati o inviati ad altre biblioteche del regno, dove sarebbero stati dimenticati su qualche scaffale troppo in alto per poter destare l'interesse di un qualsiasi visitatore di passaggio.
Solo gli almanacchi di storia, pur essendo considerati inadatti alla formazione di un guerriero, erano riusciti a salvarsi. Non tanto perché si ritenesse potessero in qualche modo tornare utili in futuro, ma perché ai grandi capi, che fossero consiglieri o generali, piaceva l'idea di poter ritrovare le proprie gesta archiviate da qualche parte, di poterle rileggere un giorno ai nipotini davanti al fuoco e ad una bella scodella fumante di zuppa di fagioli e ortiche.
La storia si era salvata per soddisfare il capriccio dei potenti.
Si era scelto di sacrificare la grande Sala dei Convegni perché in tempo di guerra non si aveva molto tempo per organizzare feste e riunioni, o meglio, il tempo lo si poteva anche trovare, il problema è che c'era veramente poco da festeggiare o peggio ancora da riunire. E così la Sala dei Convegni era stata ribattezzata in Sala degli Almanacchi, vi erano stati riposti i libri badando con molta attenzione a non rispettare alcun ordine logico di archiviazione e infine si era chiusa la porta a chiave nella consapevolezza che nessuno avrebbe più varcato quella soglia.
Pile e pile di carta erano state sottratte al macero per essere poi abbandonate a sé stesse in un'eterna battaglia contro l'usura del tempo.
Le ostilità si erano aperte immediatamente. Già perché, se nella Biblioteca del Consiglio c'erano maghi di alto rango preposti alla difesa delle preziose reliquie di carta dagli effetti dell'umidità, della polvere e delle tarme, nella prestigiosa Sala degli Almanacchi i libri erano costretti a imbracciare le armi per difendersi dagli invasori che giorno dopo giorno minavano la sopravvivenza delle memorie storiche di tutto il regno.

Un raggio di sole, dopo lungo vagare alla ricerca di qualcosa di interessante da leggere, decise di impegnare il suo tempo in maniera più costruttiva andandosi ad insinuare tra i lembi della tunica dell'unica persona che avesse mai osato disturbare la quiete di quella stanza dal momento in cui fu ribattezzata in Sala degli Almanacchi. Da sei mesi a questa parte Jonah passava tutte le sue giornate chino su quei testi dimenticati alla ricerca di una risposta. Ogni volta che credeva di averla trovata, nascevano nuove domande e pertanto nuovi cumuli di carta logorata e infestata dovevano essere smossi per poter risalire alla 'Risposta', quella vera, quella con la 'R' maiuscola, che non avrebbe dato adito ad altre domande, che sarebbe stata la causa di qualcosa ma non la conseguenza di qualcos'altro. Jonah da sei mesi cercava di scoprire l'origine della Guerra delle Stirpi. Non l'inizio, quello lo conoscono tutti, una guerra inizia quando uno stato sovrano muove battaglia ad un altro, e la Guerra delle Stirpi non era diversa da tutte le altre. Quando il re della Stirpe di Mana varcò il confine delle terre di Hoen ebbero inizio le ostilità che vanno avanti da più di un secolo. Quello però fu solo l'inizio, l'origine, quella è tutta un'altra cosa. L'origine è quell'evento che innesca una serie di altri eventi che a loro volta portano ad altri eventi che infine porteranno all'inizio della guerra.
Jonah era convinto che, se avesse trovato l'origine della Guerra delle Stirpi e questa fosse stata un'idea, un concetto o comunque qualcosa di abbastanza astratto da poter essere sigillato, forse avrebbe potuto porre termine alla carneficina che quotidianamente si compiva sui confini ormai risicati della sua terra.

Era un piano ambizioso il suo, e anche abbastanza stupido. Se il suo mentore aveva fatto in modo di ottenere per lui il permesso di accedere alla Sala degli Almanacchi era solo per poterlo tenere lontano dal fronte adducendo la scusa di un importante progetto segreto che richiedeva la completa attenzione e devozione del suo discepolo. Non tanto per mantenere Jonah al sicuro dalla prospettiva di una morte orribile sul fronte di guerra, quanto per tenere il fronte al sicuro da lui. L'unica cosa in cui il ragazzo eccelleva era la creazione e l'imposizione di sigilli, per il resto era un disastro, a tratti imbarazzante. Per non parlare delle sue notevoli capacità da armigero, che all'età di 14 anni quasi decapitavano la figlia di un signorotto locale. No, per la sua sicurezza e per quella di chi gli stava intorno, era meglio trovargli un'attività più adatta alle sue capacità, o incapacità, che dir si voglia.
Così iniziò la sua avventura, armato di pazienza e di barattoli di conserva di ciliege, scartabellando ogni foglio presente nella stanza, creando schemi, cercando collegamenti e avvicinandosi sempre di più all'origine di tutto quell'orrore. Man mano che le trame della storia si dipanavano sotto al suo naso, la consapevolezza di essere sulla strada giusta gli dava forza e coraggio. Leggere di tutte quelle battaglie concluse e di quella gente ammazzata non era per lui meno importante di combattere la guerra in prima linea.
Ormai conosceva a menadito ogni singola causa che aveva portato alla dichiarazione di guerra, ma non era sufficiente, doveva andare ancora più indietro, risalire il fiume della storia come un salmone fino ad arrivare alla sorgente del tutto. Il momento, l'evento, la situazione da cui tutto era partito.

Jonah si svegliò quasi di soprassalto, si era nuovamente addormentato su quella sedia nonostante il suo mentore glielo avesse vietato, e nonostante fosse così terribilmente scomoda. E aveva sbavato. Nessuno potrà più conoscere le gesta di Jorge il Conquistatore la cui impresa di liberare la torre di Elegar dai rinnegati si era dissolta in un piccolo lago di saliva. Cercò di asciugarsi la guancia e di sistemare gli occhiali su quel viso rubicondo dovuto alle troppe ciliege sotto zucchero. Si sistemò come meglio poteva quella folta selva di ricci così scuri che si ostinava a chiamare capelli. Doveva decisamente smetterla di passare le sue notti lì dentro, su quella sedia che stava lentamente distruggendo la sua schiena. Quella sedia così mal progettata aveva un tempo sicuramente ospitato un qualche regale che, insieme ad altri, in quella che fu la Sala dei Convegni, avevano deciso le sorti del mondo conosciuto. Jonah cominciò a chiedersi se non fosse quella sedia la causa della Guerra delle Stirpi.
No, senza dubbio non era quella, anzi, poteva tranquillamente stracciare i sui appunti. Ormai aveva capito.
La pulce gli era saltata all'orecchio pochi giorni prima, mentre passeggiava per i lunghi corridoi della reggia di Hoen. Ovviamente era una pulce figurata, ma comunque impiegò un po' di tempo prima di riuscirla a distinguere da tutte le pulci reali che infestavano quotidianamente la sua tunica da mago. Aveva carpito frammenti di una discussione tra un armigero e un nano non proprio contenti degli ultimi sviluppi provenienti dal fronte. "Stramaledettissimi bastardi, loro e la loro nuova arma bastarda" aveva detto il nano, non molto avvezzo all'etichetta che di solito si cerca di rispettare in quei luoghi. Quella frase continuò a riecheggiare nella sua testa per ore senza che riuscisse a spiegarsene il perché.
La folgorazione arrivò mentre leggeva le Cronache della Valle dei Lupi, un frammento di storia palesemente romanzato e di scarsa attinenza con la guerra in corso. Ormai aveva imparato ad escludere a priori le vicende nelle quali non si ricorreva alle armi. Armi. Le armi bastarde. Quella era la guerra delle armi bastarde. Non nel senso che facevano un male porco, ma nel senso che erano ibride. Complessi ingranaggi meccanici alimentati da diversi tipi di energia magica. La meccanica e la magia che si fondevano in unico strumento di morte.
Era quella la soluzione, l'origine, la causa di ogni male. Ci volle un po' a verificarlo, e fu difficile recuperare tutti i testi necessari, ma l'origine era proprio lì sotto i suoi occhi.
Era infatti da meno di due secoli che l'uomo aveva iniziato a ricorrere alla magia per attivare i macchinari più svariati. Si narra di un uomo che, per evitare la povertà in periodo di siccità, si rivolse ad un elfo che, con un incantesimo di vento, fece muovere le pale del proprio mulino. Ora neanche si usavano più le pale per far girare la macina dei granai, tutto si basava sulla magia. Giorno dopo giorno materia ed energia si amalgamavano per dare vita a nuovi congegni che, in tempo di pace, avevano portato all'età dell'oro delle varie Stirpi degli Uomini. Poi venne la guerra, cruda e selvaggia, e come ogni guerra ci fu la corsa agli armamenti. Tutti ritenevano che possedere armi sempre più potenti avrebbe portato ad una vittoria sicura. Niente di più sbagliato. Le grandi armi continuarono a fronteggiarsi quasi solitarie da una parte e dall'altra dei vari fronti senza mai portare ad un vincitore e ad un vinto. La Stirpe degli Edori, viste le sue terre sul punto di essere invase, decise di spostarle altrove. Tutte le terre. Da un giorno all'altro si sollevarono in aria e semplicemente se ne andarono. Un isola nel cielo che vagava libera con i suoi monti, i suoi pascoli, i suoi fiumi e i suoi laghi. Avevano persino un vulcano. Jonah non era sicuro di riuscire a capire cosa se ne sarebbero fatti gli Edori di un vulcano su un isola nel cielo, ma di sicuro non sarebbe stato quell'estremo gesto a porre fine alla guerra. La guerra poteva finire solo se qualcuno avesse avuto il coraggio di dire basta, e quel qualcuno poteva essere soltanto lui. Avrebbe portato la sua idea quello stesso giorno di fronte al Gran Consiglio dei Maghi, e non si sarebbe arreso finché non gli avessero dato retta.
Aveva già calcolato ogni sfumatura: ovviamente avrebbe risolto tutto con un sigillo, dopotutto era l'unica cosa che gli riuscisse bene, o quello, o facendo il cantastorie, ma ancora non aveva compreso bene come coniugare il suo amore per la narrativa con le tattiche di guerra. Decise di procedere con un sigillo. Avrebbe richiesto la forza di una decina di maghi, forse quindici se il Consiglio decideva di mandare i novizi. Da sempre i maghi più potenti, o venivano mandati al fronte, o messi a fare i bibliotecari, di certo non potevano essere sacrificati per la sua idea. No, sarebbero stati quindici novizi, non uno di meno, non uno di più. Si appuntò sulla manica di ricordare al proprio mentore che era ora di dargli una promozione, altrimenti il Consiglio avrebbe sacrificato anche lui, e Jonah preferiva l'idea di passare i suoi giorni a fare il bibliotecario.
Ad ogni buon conto aveva bisogno di capire come separare la magia dalla meccanica, e soprattutto come fornire al suo sigillo la via di fuga necessaria per renderlo indistruttibile. Le risposte furono entrambe semplici.
La magia di per sé era innocua, se ne sta per i fatti suoi, era l'uomo che la domava e la assoggettava al suo volere. La materia inanimata per definizione è inanimata, non gli capita spesso di avere grandi iniziative, è sempre l'uomo che la plasma per renderla utile al suo scopo. Erano gli uomini che andavano separati. Tutti gli uomini. Quelli con la propensione per le scienze da una parte, i maghi dall'altra, quelli che non capivano ne l'una ne l'altra materia potevano saltare fuori dove gli pareva. Ma non andavano semplicemente separati gli uni dagli altri, doveva essere assolutamente impossibile per loro coesistere, come se fossero intrappolati in due mondi paralleli, vicini ma irraggiungibili, uniti solo da un Portale che avrebbe reso possibile la comunicazione tra i due mondi solo una volta ogni, chessò, cento anni. E anche quando aperto, il Portale avrebbe permesso un solo attraversamento, per poi richiudersi per altri cento anni. Era perfetto, c'era tutto, era fattibile, il sigillo non era complesso e la condizione d'uscita era impeccabile. Doveva funzionare!

Passò la giornata a prepararsi il discorso. Il Consiglio aveva accettato di riceverlo. Ogni tanto farsi una risata fa bene all'umore e alla salute, e in quella sede i maghi più potenti del mondo non si aspettavano altro dal giovane Jonah. Alle prime ore del pomeriggio l'ombra era già calata sul cortile interno della reggia. La porta d'ingresso alla sala del consiglio era lì davanti. Due pesanti battenti di legno istoriato separavano il giovane novizio dal suo destino. Avrebbe dovuto dare il meglio di sé una volta varcata quella soglia, perché già era assurdo che uno come lui si presentasse al Consiglio, ma sarebbe stato un vero affronto se non si fosse dimostrato degno di quell'onore. La porta si aprì ed un giovane paggio fece segno a Jonah di entrare. Al centro della sala circolare si trovava un leggio, accanto al qualo lo attendeva il suo mentore, tutto serio e preoccupato. Di fronte a loro si ergeva una gradinata molto alta con diversi scranni in oro, su ognuno dei quali sedeva uno degli anziani del Consiglio.
Jonah passò in rassegna uno ad uno tutti i consiglieri: chi parlottava col vicino, chi era visibilmente appisolato, altri se ne stavano sbragati sul loro scranno a leggere un libro. Nessuno sembrava essersi accorto del suo ingresso. La sguardo di Jonah volò verso l'alto, verso l'enorme cupola in vetro che sovrastava la sala, e per un attimo pensò quanto sarebbe stato bello essere un fringuello e potersene volare via tra quelle nuvole lasciando tutta l'ansia che lo stava divorando lì davanti a quel leggio a cavarsela da sola. Ormai con quell'ansia ci conviveva da un po', e ci si era anche affezionato, non gli sembrava carino di abbandonarla da sola. Guardò il suo mentore negli occhi che, con un colpetto di tosse ridestò l'attenzione del Consiglio. Era il momento di fare l'eroe, o il cantastorie, a seconda delle circostanze.
Furono ascoltati entrambi per ore ed ore. La luce che filtrava dall'immensa cupola andava via via scemando. Non stava andando bene perché ogni intervento di Jonah sembrava sortire lo stesso effetto delle battute di un giullare. Le rabbia avvampò le sue guance rotonde, le lacrime iniziarono ad irrigare i suoi occhi, ma non si arrese e continuò con la sua teoria.
Presto le risate furono sostituite da sguardi seri e concentrati. Non risero nemmeno alla storia delle mucche che se ne vanno al pascolo col pastore che, diciamocelo, era il suo pezzo forte. Erano attenti. Tutti con lo sguardo fisso su di lui. D'altra parte il ragazzo sembrava stupido, e sicuramente lo era, ma c'era del vero in quel che diceva. Forse la sua proposta, per quanto assurda, era persino fattibile. Certo, non avrebbero preso parte loro in prima persona all'esperimento, ne avrebbero rischiato di mandare a morire una decina di maghi di alto rango come proponeva il ragazzo, ma magari quindici novizi li si poteva anche sacrificare, e Jonah, artefice di un piano di così grande levatura quanto di orribile stoltezza, li avrebbe guidati valorosamente nella loro ultima battaglia. Nell'ultima battaglia di quella guerra interminabile.
Forse le cose sarebbero andate per il verso giusto, il mondo si sarebbe spaccato separando quelle due realtà che mai si sarebbero dovute unire. Molti avrebbero perso i propri cari i quali sarebbero stati magicamente deportati in un'altra dimensione, ma le cose si sarebbero aggiustate. La guerra sarebbe finita, finita davvero, e non perché qualcuno aveva vinto e qualcuno aveva perso, ma perché, in maniera del tutto subdola, non ci sarebbero più stati i mezzi per muovere guerra. Armistizi sarebbero stati firmati, trattati sarebbero stati stesi, prigionieri sarebbero stati liberati.
Tutti avrebbero festeggiato e banchettato in suo nome. In nome di Jonah, colui che aveva posto fine alla guerra con l'astuzia e non con la spada.
Certo forse in quell'occasione avrebbe fatto comodo un cantastorie che potesse strimpellare qualche nota e raccontare a tutti come il mondo si fosse salvato, ma questo Jonah non lo seppe mai.


venerdì 22 ottobre 2010

Il Sigillo - Parte 1

I sigilli sono una cosa strana, magia antica, quasi superstizione.
Quello che fanno è tenere fuori le cose che non si vogliono fare entrare o tenere dentro le cose che non si vogliono far uscire. Niente di complicato.
In teoria puoi sigillare qualsiasi cosa, dalla magia più potente all'oggetto più banale. Quando a fine estate mia madre preparava la conserva delle ciliege, prima le lavava per bene, poi le controllava una ad una per assicurarsi che non fossero già il pasto di qualche allegro vermetto che, poveretto, con la fatica che aveva fatto per entrare li dentro, non sembrava carino farlo schiattare, infine le ricopriva con lo zucchero e chiudeva il barattolo. Lì avveniva la magia, anche se proprio magia non era: lo zucchero fermenta, nel farlo brucia l'ossigeno, si crea il vuoto e il tappo schiocca.
Quando ero bambino adoravo quel momento: mi mettevo a fissare tutti i barattoli al sole e aspettavo che si compisse il miracolo e iniziasse il concerto. Lo schiocco era il segnale che ti avvertiva che adesso le ciliege erano al sicuro, che durante l'inverno avrebbe comunque fatto un freddo porco, ma almeno ti potevi riscaldare un poco con quel nettare dolce.
Quello era a tutti gli effetti un sigillo, e lo faceva la mia mamma, che era una brava donna ma di magia non ne capiva un fico secco, o meglio, i fichi secchi li capiva benissimo, soprattutto col cacio, era la magia che proprio non gli entrava in testa.

Il problema principale da affrontare per creare un buon sigillo è capire come convincere l'oggetto da sigillare a non varcare quel limite o quantomeno a chiederci il permesso prima di farlo. Con le ciliege è facile, non sono particolarmente ostili all'idea di rimanere nel barattolo, anzi, fosse per loro non ne uscirebbero più. In genere il principio del barattolo funziona su tutte le cose tangibili, più la cosa tangibile è grossa e più devi fare un barattolo grosso. Basti pensare alle mura di cinta delle città, non saranno inviolabili, ma gli invasori il più delle volte ci si scoraggiano, soprattutto se di mezzo c'è anche un bel fossato. No, il problema è con le cose intangibili! Con quelle si fa una fatica del diavolo. Soprattutto con le idee, sigillare un'idea è un'arte contorta, ma anche in quel caso di magia ce n'è ben poca, basta un poco di filosofia spicciola, due bicchieri di rum, neanche di quello buono, va bene anche un po' di idromele, e soprattutto bisogna parlare, parlare tanto, finché l'altro, stremato, si scorda dell'idea che ha avuto e il giorno dopo si sveglia con un mal di testa di quelli che ti fanno dimenticare anche come ti chiami.

Alla fine un sigillo è una cosa semplice, non richiede mai un grande sforzo, o per lo meno ne richiede meno di quello che solitamente si può pensare. Il segreto sta nel lasciare una via d'uscita.
Sembra un controsenso, ma non è così: il sigillo ha a che fare con la privazione della libertà, una sorta di schiavitù, e uno la schiavitù la sopporta solo se ha la speranza di liberarsene prima o poi.
"Pensa alle mucche" diceva sempre il mio mentore, ed effettivamente aveva ragione. Quelle di solito le si confina tutte insieme dentro un recinto semplice, il più delle volte fatto con poche assi di legno, di quello scadente, troppo impegnato a difendersi dai tarli per far caso alle mucche. Quanto potrebbe resistere un sigillo del genere sotto il peso della carica di una mandria intera? Niente! Non se ne accorgono nemmeno di averlo sfondato lo steccato, sono già a fondo valle a farsi gli affari loro. Se rimangono lì dentro buone buone è solo perché il pastore al recinto ci ha aggiunto una bella porticina, e non l'ha aggiunta solo per permettergli di entrare, per quello basta passare tra una stecca e l'altra, l'ha aggiunta per permettere alle mucche di uscire, per poterle portare al pascolo, e non quello giallo e secco a fondo valle, ma quello che si trova al limitare del bosco, verde e rigoglioso, con le foglie larghe piegate sotto il peso della rugiada fresca e qualche dente di leone sparso qua e là a fare da contorno. E quindi poi loro a sera ci tornano nel recinto, perché sanno che l'indomani il pastore le porterà di nuovo a brucare le erbe migliori. Non gli conviene scappare, e così lo steccato può continuare a farsi gli affari suoi e condurre la sua eterna battaglia contro i tarli.

La magia è un po' più infida delle mucche, per non parlare delle ciliege. Se la sigilli, quella si studia il tuo incantesimo per anni, e prima o poi vedrai che la falla la trova: una parola pronunciata male o una condizione sottintesa, troppo sottintesa, ed ecco lì che lei se ne scappa fuori e torna a far danni e soprattutto a fartela pagare di averla sigillata. E' per questo che bisogna inserire tra le condizioni dell'incantesimo una scappatoia, qualcosa che dia l'illusione di una futura libertà, qualcosa che la faccia stare buona nei momenti di sconforto. Basta darle una condizione d'uscita e quella diventa una carcerata modello, di quelle che a sera ti lavano anche i panni e ti preparano il pranzo al sacco per il giorno dopo.
Ovviamente non è che vanno bene tutte le condizioni, deve essere una adatta al tipo di magia che si vuole legare. Non gli puoi dire ad una magia che ammazza i polli che potrà essere libera solo quando non ci saranno più polli da ammazzare, quella ci va in puzza, se non ci sono più polli da ammazzare si annoia. No, bisogna dare qualcosa di appetibile, o magari di astratto, che non si capisce, così magari non si accorge nemmeno quando viene liberata.

Il difficile sta tutto lì, trovare la condizione d'uscita ideale per il tipo di sigillo che si vuole creare.
Quando al consiglio dei maghi proposi la creazione di questo sigillo mi risero tutti dietro. Non poteva essere diversamente: come poteva un ragazzino di appena 15 anni avere la soluzione giusta per la piaga che affliggeva il mondo da più di 100 anni: la Guerra delle Stirpi! E per di più come si poteva fermare una guerra solo con uno stupido sigillo! Eppure ero lì davanti al gran consiglio con i miei barattoli di ciliege e le mie mucche a cercare di far capire a tutti che non era la guerra il problema, ma ciò che c'era alla base, ed era quello che andava sigillato, la guerra sarebbe finita di conseguenza. Io in realtà volevo solo tornarmene nel mio villaggio, o per lo meno in quel che ne restava. Lanciare un'idea, ecco cosa volevo fare, dare la mia opinione, tutto qui! Mai mi sarei aspettato che mi avrebbero dato retta, e soprattutto mai nella mia vita avrei voluto prendervi parte. Io ho solo delle idee, non si può mica andare a morire per un'idea; lo si può fare per un'ideale, ma non è la stessa cosa, un'idea è solo un'idea! E invece eccomi qui, pronto a schiattare per un'idea che forse neanche funzionerà, insieme ad altri 14 maghi che mi guardano come fossi il loro carnefice e, soprattutto, senza più barattoli di ciliege!

Forse era meglio se mi facevo i fatti miei...


giovedì 21 ottobre 2010

Prologo

Come si può iniziare un blog?
I libri di solito iniziano con un prologo che introduce la narrazione, magari racconta una breve storia che fino alla metà del libro non si capisce cosa possa significare, oppure semplicemente presenta il protagonista o gli eventi che creeranno il contesto all'interno della quale si dipanerà l'avventura che si vuole raccontare.
Beh, questo è il prologo del mio blog, un blog strano, almeno per me: magari su internet ci sono già migliaia di blog che pubblicano le stesse cose che intendo pubblicare io, ciò non toglie che, quando l'idea mi è balenata in testa, ho pensato che fosse piuttosto strana...
Partiamo da un presupposto: io non sono uno scrittore, ne aspiro a diventarlo (nella vita faccio il programmatore). Eppure...
Mettiamola così: ho delle idee... ogni tanto mi vengono... buffe, strane, bislacche, divertenti... e fin qui non c'è nulla di strano; ognuno ha delle idee, sarebbe strano il contrario... il mio problema e che queste idee tendo a dimenticarle con una certa velocità!
Il più delle volte queste idee riguardano storie: frammenti di pagine di un libro scritto nella mia mente; ma non un libro qualsiasi, uno di quei libri enormi e pesanti che restano lì sullo scaffale per mesi (se non anni) a prendere polvere solo perché nello zaino proprio non ci vuole entrare. Tu ti ripeti che prima o poi lo leggerai, e non lo dici solo tanto per dire, quel libro tu lo vuoi leggere davvero. Poi però ti immagini mentre viaggi sulla metropolitana per andare al lavoro (rigorosamente in piedi) con questo librone in mano a fare l'equilibrista per non cadere alla prima fermata. Oppure mentre cammini per strada con quello zaino nel quale, dopo aver conseguito il master europeo in Tetris applicato, quel libro tu ce l'hai fatto entrare; però ora è li coi suoi bei chiletti a gravare sulla tue già fragili spalle e inizi a vedere il secchio della spazzatura come un'allettante alternativa al mal di schiena!
Alla fine lo lasci lì, sullo scaffale, a torreggiare su una pila di altri libri che prima o poi leggerai. "Quando uscirà l'edizione tascabile" ti dici. Oppure, meglio ancora, l'edizione elettronica: magari da leggere su quel meraviglioso telefono di ventinovesima generazione, dicendo definitivamente addio a quelle poche diottrie che ti restano!
Certo è che nel mio caso quel libro non mi è indifferente, lo sento che mi chiama, e spesso mi avvicino anche solo per dargli una sfogliata, giusto per fargli prendere un po' di ossigeno: Fargli fare una passeggiata, oppure offrirgli un dolcetto, di quelli col fruttino glassato sopra. Ai libri bisogna volergli bene, altrimenti si intristiscono. Così l'occhio mi cade lì tra quelle righe, come se un invisibile lazo avesse catturato la mia pupilla a non gli permettesse di divincolarsi. A quel punto, già che ci sono, inizio a leggere. Poche righe, al massimo un paragrafo, arrivo giusto alla fine del capitolo e poi vado a preparare la cena.
E' in quel momento che le idee prendono forma e si dipingono storie, racconti, dialoghi e battute. Non sono io a scriverle, sono loro che si proiettano nella mia testa: evidentemente non avevano di meglio da fare. Alcune sono pessime, ma altre sono buone, buone davvero. Certo, sono buone per me, magari a qualcun altro fanno schifo, però l'importante è che a me piacciano.
E poi? E poi spariscono. Inesorabilmente, inevitabilmente, ingiustificatamente spariscono... Che ci posso fare, sono nato con la memoria di un pesce rosso: mi scordo le cose! Poco male se mi scordo a casa le chiavi, tanto il mio gatto sa aprire la porta, ma le mie storie, quelle me le vorrei ricordare.
In questo blog non ho intenzione di scrivere un libro, non ne sarei capace, non ne avrei il tempo... mi limiterò invece a riportare quegli stralci che riesco di volta in volta a carpire da quel libro che mi ritrovo in testa: frammenti sparsi, senza un ordine preciso (e spesso neanche appartenenti allo stesso racconto).
Niente titoli, niente nomi, solo storie: senza capo ne coda, senza alcuna pretesa di impressionare o interessare, solo le mie storie.
E' un modo come un altro per prendere i classici due piccioni con una fava, oddio, avrei preferito due quaglie, ma si sa, con le fave si pigliano solo i piccioni. In questo modo io le mie storie non le scordo, e magari qualcuno a cui piacciono ci si imbatte e ci passa quella mezz'ora che non sapeva proprio come impegnare.